La grammatica di Anna Castiglia, da X Factor a ‘Participio presente’ | Rolling Stone Italia
Uscire dalla stanzetta

La grammatica di Anna Castiglia, da X Factor a ‘Participio presente’

La cantautrice è rimasta fuori dal talent per un soffio, ma ora è pronta a prendersi la sua carriera in mano. E del suo giudice Morgan dice: «Mi ha insegnato a spogliarmi dalle maschere»

La grammatica di Anna Castiglia, da X Factor a ‘Participio presente’

Anna Castiglia

Foto: Luigi Mirabelli

Anna Castiglia ha l’aria di essere cresciuta con il paginone centrale del Vocabolario Treccani affisso accanto ai poster, si suppone, di Mia Martini e di Sergio Caputo. Non a caso Participio presente, il suo nuovo singolo (pubblicato venerdì scorso), contiene uno dei più sentiti omaggi a una forma verbale della nostra musica leggera, forse di pari intensità al gerundio di Se telefonando.

Con quest’ultimo culmina un terzetto di brani che sembra declinare un manuale di sopravvivenza di una giovane donna di vent’anni nell’industria musicale odierna. In Ghali c’era il vittimismo di chi si sente costretto a rinunciare alla propria identità musicale per fare i conti con la realtà discografica. Bovarismo elogiava la capacità di immaginarsi diversi da quelli che si è, ma senza terminare in tragedia come in Flaubert, bensì in un lieto auto-augurio di riuscita artistica. Participio presente è l’espressione compiuta del desiderio di uscire finalmente dalla sospensione indefinita tra un prima e un dopo. È una canzone che una farfalla dedica crisalide, un attimo prima di romperne la cuticola.

Con Anna Castiglia abbiamo parlato di parole, di musica e, ovviamente, anche di Morgan.

Anna, dopo che tutti laghi e tutti i fiumi sembrano essersi asciugati, almeno in quanto a ispirazione per parolieri, Participio presente è un grande rilancio della grammatica italiana come fonte di metafore e dunque di poesia. Come nasce il tuo amore per la lingua italiana? Hai fatto il classico?
Non ho fatto il classico ma il linguistico: mi piacciono tutte le lingue, soprattutto quelle neolatine. E adoro cercare le somiglianze tra lingue e dialetti diversi. Infatti scrivo anche in dialetto. Anche se questo termine è spesso usato in modo dispregiativo, sono una secchiona e lo rivendico con orgoglio. Per quanto riguarda la grammatica vi dirò, per completezza, che ho scritto anche un pezzo che si chiama Nome comune di persona. L’analisi logica mi diverte come un gioco fin dalle elementari.

Nel tuo primo singolo lanciato coi crismi della discografia di serie A (il nuovo management è OTR Live, nda) racconti le difficoltà della gavetta, affrancandotene. Questo è frutto di un piano premeditato o di una coincidenza?
L’ho scritto due estati fa, ma non l’ho suonato quasi mai dal vivo. Anche se ho molti altri pezzi in coda, era questo il momento ideale per pubblicare Participio presente: non parla di adesso, ma in realtà sì. Mi sento più emergente che mai e volevo rappresentarlo.

Era una profezia autoadempiente. Che generi hai riversato nel crogiolo della tua voce, mettendola in musica?
Lo definirei un pezzo un po’ alla Rosalía, quando si produce in quel suo flamenco totalmente rivisitato. Volevo fare un pezzo con tante parole, totalmente cantautorale, che però contrastasse con un accompagnamento latino, dotato di una ritmica da far ballare. Così come per Ghali è stato il tango, per il nuovo singolo è un ritmo reggaeton arrangiato con quelle trombe alla messicana. Insomma il latin come sdrammatizzazione.

Questo postmodernismo spinto corrisponde alla tua cifra artistica e, magari, anche alla tua visione del mondo?
Tante volte mi sono chiesta se, in un mondo musicale in cui la coerenza con sé stessi è fondamentale, e riconoscere qualcuno da un ritornello stilistico o dal timbro vocale è un valore assoluto, producendo cose tanto differenti tra loro non mi stessi condannando da sola a una penitenza. Con gli anni mi sono convinta più che mai che la mia cifra deve essere quella di essere proprio così diversificata. Io e la mia voce siamo l’anello di congiunzione tra tutte le tematiche e le musicalità che affronto. Mi posso splittare in una personalità più melodica, con chiari riferimenti jazz, e un’altra quasi rap e molto tagliente (penso al riferimento di Caparezza), ma il ritornello resto io.

Quindi potresti restare a lungo sul terreno dell’eclettismo?
Non voglio più pormi il problema di scegliere una sola strada. Del resto, se guardo all’estero, dentro un album scritto da Childish Gambino ci sono pezzi strumentali e hit strapop. Mi piace che un album possa essere una playlist. Nella vita sono ironica e polemica, ma anche sensibile, romantica, a tratti melodrammatica. Riconoscerlo e rappresentarlo mi sta rasserenando davanti allo spauracchio dell’incoerenza.

Participio presente

Participio presente racconta la condizione dei giovani cantautori italiani contemporanei, ma potrebbe alludere anche a quella dei giovani che non cantano e non scrivono, più in generale. Quali sono le difficoltà della tua generazione in cui ti riconosci di più e quali invece ti sembrano in parte esorcizzate dal fatto che le riesci a raccontare e che, per inciso, le racconti avendo successo come cantautrice?
Uno dei principali problemi che vive la mia generazione deriva dalla straordinaria accessibilità dei potenti mezzi a sua disposizione. Parlo di comunicazione, studio, lavoro. Questa facilità di accesso rende paradossalmente difficilissimo emergere e farsi notare. C’è una competizione che fa paura. Siamo tantissimi. Ciò vale per qualunque ambito, a meno che non sia ultraspecifico.

Forse il reggaeton colto è uno di questi ambiti?
Anche in podologia è pieno di gente che prova! Io infatti mi sento graziata. Ho pubblicato una canzone in cui mi lamento di una condizione che potrebbe appartenere al mio passato. Non capita tutti i giorni di aprire un tour teatrale come quello di Max Gazzè che, tra l’altro, fa parte della mia educazione musicale insieme a tanti altri artisti della scuola romana. Inoltre ora ho dietro un team serio e mi sento per la prima volta di lavorare davvero con la musica.

E prima?
Anche se ho sempre cercato di trattarlo come un lavoro come tutti gli altri, a lungo mi è stato difficile dire: “Stasera lavoro”; semmai dicevo: “Stasera suono”. Invece ora posso dirlo davvero. Sono un’emergente, è chiaro, ma ora è come se, sulla strada di cui parlo nel pezzo, una limousine mi stesse offrendo un passaggio.

Com’è lavorare come cantautrice in Italia?
C’è un oscuro motivo, su cui indago quotidianamente, per cui quando c’è da fare una line-up non sembrano esserci mai abbastanza cantautrici. In realtà ci sono ma non emergono mai come gli uomini.

Alcune di esse lei hai riunite in un collettivo.
Sì, e vi consiglio di ascoltare tutte le ragazze di Canta fino a dieci. Lo abbiamo fondato nel 2020 con Rossana De Pace, Irene Buselli, Francamente (Francesca Siano) e Cheriach Re (Valeria Rossi). Abbiamo anche un gruppo Whatsapp di autocoscienza, in cui ci sono cantautrici da ogni parte d’Italia.

C.I.n.A., Cantautrici Italiane non Anonime.
Esatto. In particolare adoro Erica Mou. Di lei mi piace certamente il modo di scrivere ma anche quello di vivere nella musica liberamente, senza esserne mai travolta. Per me è importante avere davanti dei modelli di persone che facciano un’esperienza umanamente sostenibile del mondo musicale. Ed Erica è certamente una delle più sostenibili in assoluto. Ma vorrei citare anche Emma Nolde, che sta facendo tanta strada e una rapper come Vale LP che, come me, viene da X Factor.

Che obiettivi si pone Canta fino a dieci?
Abbiamo finito per scrivere un vero e proprio manifesto, ma prima è nata l’amicizia. L’idea iniziale non era femminista ma nasceva da una protesta che facemmo io e Francesca Siano nella metro di Torino quando, durante la seconda ondata di Covid, i teatri e i cinema chiusero. Intitolammo l’iniziativa Fuori posto e le dedicammo anche una canzone omonima. Ci sembrava strano che il posto a sedere sulla metro non fosse a rischio, mentre quello a teatro sì. Quando a me e Francesca si sono aggiunte le altre tre, ci siamo rese conto che vedere cinque donne suonare insieme destava stranamente scalpore. Ma perché una band di uomini era del tutto normale e una di donne no? Quante volte contatti un’etichetta e ti senti rispondere: “Abbiamo già una donna in roster”, come se quello femminile fosse anche un genere musicale.

Tutte le donne musiciste si assomigliano, ogni musicista uomo è musicista a modo suo?
Il nostro desiderio è proprio quello di ridurre il gap di genere nella musica e distruggere alcuni stereotipi, come quello secondo cui le donne della musica sono tutte necessariamente in competizione tra di loro. Al contrario, noi vogliamo fare rete, stare insieme sul palco, mettere le nostre canzoni a disposizione delle altre. È un esercizio di superamento dell’ego. I primi risultati, a poco a poco, stanno arrivando, anche se per ora si tratta soprattutto di far capire alle persone che questo problema esiste. Il che non è banale.

Foto: Luigi Mirabelli

Studi al Conservatorio. La competenza musicale che un percorso così formativo ti assicura può renderti più facile o più difficile la vita nel mondo discografico?
Mi sono iscritta al Conservatorio per rendere migliore, prima di tutto, la mia vita artistica: volevo impadronirmi dei mezzi per sviluppare la mia fantasia e le mie idee. Ma anche a livello discografico sono comunque molto fiduciosa. Il Conservatorio potrebbe essere un aiuto in più per farcela, anche se so bene che il mercato tende a penalizzare i lavori più complessi. Ma l’altra faccia della medaglia è rendersi conto che, più vai avanti con lo studio, e più vuoi essere semplice. Penso a Modugno, la cui semplicità nello scrivere è così matura che non potrebbe mai essere scambiata per banalità.

Ci sono dei compromessi artistici che non faresti mai, anche se ciò dovesse corrispondere a una rinuncia in fatto di successo e di numeri?
Ci rifletto tanto. Più volte mi sono detta: “Non vorrei mai fare questo”, però ogni volta mi sono stupita, quando l’ho fatto. È bello cambiare idea. Però non voglio pensare di tradirmi. Sto facendo un percorso nella musica importante anche dal punto di vista psicologico. La mia è una generazione che si preoccupa tantissimo del benessere mentale. Perlomeno, più di quella precedente. Non so se avete visto quel meme che dice: “Se i nostri genitori avessero fatto terapia”. Ecco: in fondo, forse, vorrei semplicemente arrivare ad avere la saggezza di cambiare mestiere, se un giorno dovessi trovarmi davvero male nella musica. Ma fino a quel giorno vorrei comunque riconoscermi in tutte le mie scelte.

Quali sono state le tappe fondamentali della tua carriera?
La numero uno è stata il mio primo concerto di sole cover in un irish pub di Catania. Poi il trasferimento a Torino, dove mi sono stupita che alcuni locali mi chiedessero l’opposto, cioè di esibirmi con canzoni mie, anche se non ero famosa. Poi ancora la partecipazione al Reset Festival, dove ho capito quanta professionalità ci potesse essere nella musica. Terza tappa: il momento in cui ho capito che avrei dovuto fermarmi per ricominciare a studiare, un anno fa. La quarta: la partecipazione a X Factor, anche se la potrei intitolare meglio: Esposizione, con sottotitolo Uscire dalla stanzetta. Stare nella stanzetta è importante quanto uscirne.

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Quanto ti ha cambiato quest’ultima tappa? C’è il rischio che alcune peculiarità del tuo approccio alla musica siano messe in secondo piano oppure avere più esposizione può aiutarti a imporre il tuo stile con più sicurezza?
Prima avevo paura di essere debole e influenzabile. Molti dicono che l’esposizione dei programmi televisivi possa mettere a repentaglio un’identità. In realtà per me è stato l’esatto contrario. Nel momento in cui registri non sai davvero come andrà: ti fai mille domande e sai solo quello succede in quel momento e quello che pensano di te le quattro persone presenti. Quando vai in onda, confrontandoti col pubblico, ti rendi conto davvero di dove stai andando. Nel mio caso è stato così positivo e travolgente che mi sono sentita subito più tranquilla. Mi vedevo insicura e brutta. Invece esponendomi ho guadagnato in autostima e, dunque, in libertà di essere me stessa. A partire dai messaggi in cui ho letto che i miei occhiali erano bellissimi. Forse sono così anti-televisiva da essere in fondo anch’io televisiva.

Dalla tua partecipazione a X Factor è emerso anche un buon legame artistico con Morgan. Lui ha detto che escluderti è stato per il tuo bene. Che cosa voleva dire, secondo te, con quella frase?
Ho percepito affetto, attenzione e protezione da parte sua. Morgan mi ha regalato un momento diverso rispetto a quanto è stato possibile per altri concorrenti. Ma cosa volesse dire davvero andrebbe chiesto a lui.

Cosa credi di aver imparato da Morgan?
Lo sto ancora processando. Il mio metabolismo è lentissimo. Anche solo alcuni piccoli consigli tecnici hanno certamente avuto un valore. Mi sarebbe piaciuto lavorarci.

Il tuo rapporto con Morgan precede X Factor e risale alla tua partecipazione al suo programma di Rai 2 Stramorgan. Come si sono differenziate queste due esperienze accanto a lui?
Ecco, ho appena capito cosa ho imparato da Morgan. Mi ha insegnato a spogliarmi da una maschera creata dalla società. Mi ha contattata in un modo assurdo, da film. Durante la pandemia aveva visto un mio video su Facebook in cui cantavo Ghali, chitarra e voce, e mi ha chiamata. Non lo farebbe nessuno del suo calibro. In quel momento si era spogliato di tutte le sovrastrutture del suo mestiere. In Stramorgan tutto era incentrato sul mio piacere di vivere quell’esperienza, al punto che non mi hanno mai inquadrata! Morgan mi fece fare il giro della Rai, mi presentò Pino Strabioli. Guidata in modo paterno e non paternalistico ho potuto farmi conoscere e raccontarmi. È stato bellissimo.

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