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La fuga nella realtà virtuale dei Muse

«Ho scoperto che se togli di mezzo la realtà, la gente non vuole più litigare». Ossessioni alle spalle, abbiamo intervistato la band britannica in occasione dell'uscita di 'Simulation Theory', un disco sospeso tra nostalgia e futuro.

La fuga nella realtà virtuale dei Muse

«Mister Powell, cosa sa dirmi dei proiettili a punta cava?». È il 2012 e Matt Bellamy è se­duto accanto a Colin Powell, segretario di Stato del presidente George W. Bush, all’an­nuale cena dei corrispondenti della Casa Bianca. È una strana accoppiata: da un lato una delle figure più potenti dell’industria militare americana, dall’altra un musicista ossessionato da cospirazioni, tecnologie oscure e futuri distopici. I proiettili a punta cava sono un’arma crudele, vietata da nume­rosi trattati internazionali: esplodono al mo­mento dell’impatto, il contatto con i tessuti molli li fa deflagrare come una specie di fiore di piombo. «Mi domandavo come mai ne avessero comprati così tanti», ha detto Bel­lamy, «sembrava che dovessero prepararsi a una guerra civile». La risposta di Powell? «È stato come uno sguardo agghiacciante nella mente di un militare. Mi ha detto: “Quando sei in battaglia vuoi sparare e vuoi uccidere. Veloce e pulito”».

Nel 2015 i Muse pubblicano Drones, un album ambientato in un mondo dominato dai droni, dove gli uomini sono alienati e insensibili alla morte sistematica delle guer­re iper­tecnologiche. Simulation Theory giunge a tre anni di di­ stanza, dopo lo scandalo Cambridge Analyti­ca, l’ascesa dei governi populisti e la diffusio­ne delle fake news, ed era logico aspettarsi un album ancora più apocalittico dalla band. Tuttavia ogni volta che i Muse hanno pubbli­cato un nuovo singolo – Simulation Theory è stato inciso un brano alla volta – l’impressio­ne era ogni volta esattamente opposta: disco music, coretti divertiti, una cascata di accor­di maggiori, fantascienza teen alla Gremlins e nessuna profezia oscura in stile Philip K. Dick. Nel video di Pressure, l’ultimo pubbli­cato prima di questa intervista, la band è ad­dirittura presentata dall’attore Terry Crews (protagonista della saga dei Mercenari e iperlubrificato testimonial degli spot psichedelici di Old Spice, ndr) ed è addobbata come i perso­naggi di Ritorno al futuro. Sorridono, ammic­cano e sembrano davvero di ottimo umore. E allora vediamo di capire il perché.

Simulation Theory sembra concepito come l’esatto opposto di Drones. Quando avete capito che volevate cambiare direzione?
Chris: Il tour di Drones è stato particolar­mente lungo, e quando abbiamo finito non avevamo nessuna voglia di buttarci di nuovo in un album così cervellotico. Non volevamo nemmeno fermarci, e abbiamo deciso di fare le cose in modo diverso: concerti più intimi, così da stare a casa con le famiglie, e qualche fuga in studio tra una data e l’altra. Il disco è iniziato così: lo abbiamo scritto, registrato e pubblicato pezzo per pezzo.

Non è un po’ come tornare indietro nel tempo? Registri le canzoni e non sai bene che fine faranno…
Chris: In un certo sen­ so sì, all’inizio della carriera una band pensa solo ad avere abbastanza materiale per suo­nare in giro. Noi volevamo tornare a pensa­re alle canzoni, e lavorando in questo modo abbiamo trovato una nuova libertà creativa. Anche il sound è cambiato: Drones sembra registrato tutto nella stessa stanza e con lo stesso produttore. Non c’è niente di male, ma non è quello che volevamo per quest’album: volevamo esplorare le canzoni come se fossero singoli esseri viventi.

Pensi che questo processo avrebbe fatto bene a uno degli album precedenti?
Chris:
 Non saprei, non sono il tipo che
si guarda indietro. Registrare 
un album significa soprattutto 
prendere delle decisioni, e non 
solo sulla musica. Magari tra sei 
mesi questo metodo mi sembrerà
 sbagliato, e dopo altri sei mesi
 cambierò di nuovo idea. È facile 
cadere in questa trappola. Se qualcuno mi chiedesse “Cosa ne pensi di Showbiz?”, non saprei come rispondere.

Ok. Cosa ne pensi di Showbiz?
Chris: (Ride) Penso che oggi suonerebbe completa­ mente diverso, ma è proprio questo il punto. Ogni album riflette chi eravamo e cosa pen­savamo in un certo momento della nostra storia, non ha senso guardarsi indietro.

Negli ultimi mesi si è parlato molto della crisi della chitarra elettrica, vi sentite parte di un’epoca finita?
Chris: Forse è la real­tà. Ma cerca di vederla così: la chitarra elettri­ca esiste da molto tempo, così come tutta la musica che le gira intorno. Se la guitar music dovesse morire nei prossimi 30 anni, sarebbe comunque un genere durato più di un seco­lo. Non è male, no? Il punto è che adesso la tecnologia ti permette di creare bella musica senza aver bisogno di saperla suonare. Ci so­no persone che hanno una grande sensibili­tà musicale, ma non suonano bene nessuno strumento: bene, con la tecnologia ora pos­sono fare musica, e spesso è molto bella. Il problema, semmai, è che l’impatto culturale non è più lo stesso.

Cioé?
Chris: Quando eravamo giovani, il tipo di musica che ascoltavi ti definiva su tanti livelli diversi. Bastava guardare il mo­do in cui un tizio era vestito per capire che musica ascoltava. In qualche modo ti aiutava a integrarti in dei gruppi sociali. Mio figlio si veste come un rapper, e non ascolta rap. Capisci cosa voglio dire? Negli anni ’80 e ’90 sarebbe stato assurdo.

Torniamo a Simulation Theory. È impossibile non notare l’influenza degli anni ’80.
Matt: Sì, ma ci siamo arrivati in un modo insolito. Non ci siamo mai detti: “Ehi, ora facciamo gli anni ’80”. Quando abbiamo ini­ziato a scrivere l’album, ho scoperto i video­ giochi in realtà virtuale, una cosa che non avevo mai visto prima. Uno dei miei preferiti è Star Trek: Bridge Crew. Sei sulla nave spaziale, hai il tuo costume, lavori con altre persone… Mentre giocavo mi sono sentito travolto da una fortissima sensazione di nostalgia, e mi sono messo a pensare ai sintetizzatori, e al JUNO­80 che avevo in casa agli inizi degli anni ’80. Appena ho sentito quei suoni ho pensato a Blade Runner o La cosa di Car­penter, e mi è venuto naturale provare a recuperare le influenze del periodo, sia musicali che visi­ve, un po’ come succede in Stranger Things. Stiamo entrando in un’era in cui la nostalgia e il futuro sono mescolati insieme, e il risultato è qualcosa che sembra sia perennemente fuori dal tempo.

Come se volessimo riscoprire la visione del futuro che avevamo in quel periodo
Matt: Con la tecnologia è possibile. Sono convinto che in futuro la realtà virtuale ci permetterà di tenere in vita cose che altri­ menti morirebbero.

Sembra quasi una fuga dalla realtà. È per questo che il disco suona così leggero rispetto a Drones?
Matt: Precisamente. Ci so­no due esperienze che mi hanno influenzato: la prima è il VR gaming, l’altra è il Burning Man Festival. Hanno in comune quella che tu chiami fuga dalla realtà. Una fuga dalle news, dalla politica attuale, dalla routine. Ho scoperto che in questo contesto le perso­ne sono più gentili. Togli di mezzo la realtà, e la gente non vuole più litigare.

Io ho un ricordo diverso del gaming online, avrò provato il gioco sbagliato.
Matt: (Ride) Ma no! Da un momento all’altro sei con un russo e un cinese, e devi trovare un modo per comunicare e battere il gioco. Al Burning Man Festival ho avuto la stessa impressione, come se scappando dalla realtà avessi trovato un’umanità migliore.

Non temi più un futuro dominato dai droni, come nel disco precedente?
Matt: Il rischio c’è, non ho proprio cambiato idea. Ho capito che la tecnologia è una nuova forma vitale, che si sta evolvendo molto rapidamente. Noi abbiamo la possibilità di influenzarla: in futuro ci permetterà di esplorare lo spazio senza preoccuparci dei limiti del nostro corpo, o di risolvere alcuni dei problemi del nostro pianeta. Forse abbiamo di fronte un futuro migliore di quanto pensiamo.

In un’intervista a RS USA Michiko Kakutani, la critica letteraria del New York Times, ha detto che Trump sta combattendo una guerra al concetto di verità. Anche Thought Contagion affronta questo tipo di tematiche.
Matt: È difficile capire dove ci porterà questo processo, e perché coincida con il nostro bisogno di creare mondi alternativi in cui esistere.

Al momento, però, questi mondi sono pieni di troll e fake news.
Matt: È vero, ma io ho fatto una scelta. Ogni tecnologia ha un estremo negativo e uno positivo, in questo album cerco di concentrami sul secondo. Quanti ai social, credo sia solo una noiosa fase di passaggio. Magari tra 20 anni tutto sarà più immersivo, e con la prossimità digitale saremo più amichevoli e rispettosi.

Ultima domanda. Cosa chiederesti oggi al Segretario di Stato americano?
Matt: (Ride) Ho cercato di alienarmi dalla follia della presidenza attuale. Forse qualcosa sulla Cina. O forse me ne starei a casa.

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