La fuga in campagna di Maurizio Carucci degli Ex-Otago: «Il futuro è anche qui» | Rolling Stone Italia
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La fuga in campagna di Maurizio Carucci degli Ex-Otago: «Il futuro è anche qui»

Il cantante racconta la sua esperienza all’interno di un'azienda agricola nell’Appennino piemontese. «È possibile vivere la contemporaneità ed essere più vicini alla nostra natura di esseri umani»

La fuga in campagna di Maurizio Carucci degli Ex-Otago: «Il futuro è anche qui»

Si vive meglio in campagna o in città? Dipende dalle aspirazioni, dai propri bisogni, dal carattere, ma una cosa è certa: mai come in questo periodo storico ci si è resi conto di quanto persino durante una pandemia una casa in mezzo alla natura rimane un paradiso, il che non vale per gli appartamenti in contesti urbani e il motivo è che questi ultimi si nutrono di socialità, di mondanità. Di assembramenti, per usare un brutto termine che ormai conosciamo bene. Da questo punto di vista Maurizio Carucci, il frontman degli Ex-Otago, è uno di cui si potrebbe dire «aveva capito tutto»: nel 2011 lui e la fidanzata Martina Panarese hanno dato vita a una piccola azienda agricola in Alta Val Borbera, provincia di Alessandria, ma è dal 2000 che il cantante genovese, classe 1980, frequenta prati e monti. «Dopo un’adolescenza estremamente vivace mi sono reso conto che in città non stavo bene, avevo un’infinità di domande e non trovavo mai risposte che meritassero. Mentre in campagna e in montagna mi sentivo sempre felice. Quindi ho fatto banalmente due più due».

E hai lasciato Genova? 
Esatto, all’età di 20 anni ho iniziato a collezionare esperienze in aziende agricole, esperienze che mi hanno formato sia come contadino in senso stretto, sia perché mi hanno permesso di assimilare la filosofia che sta dietro alla vita da contadino. Infine nel 2011 ho fatto il grande passo con un progetto mio, agricolo, ma anche territoriale e sociale: Cascina Barbàn.

Tu e la tua compagna avete recuperato un vecchio fienile circondato da terreni adatti alla coltivazione, piuttosto isolato, ma vicino ad Albera Ligure e Figino, due paesini con pochi abitanti. In quanti vi hanno confessato di voler essere al vostro posto dopo l’arrivo del coronavirus?
Eh, parecchi, ci sono arrivate tantissime e-mail, alcune piene di complimenti, molte incentrate su una domanda mirata: “Come si fa il salto?”. Ossia: come si passa dalla vita di città a quella in campagna? Naturalmente mi ha fatto piacere, anche se l’ho trovato un po’ buffo… Come ho scritto su Facebook: era necessaria una pandemia per capire certe cose? Spero proprio di no. Però è innegabile che in questo momento il valore della campagna e degli spazi aperti sia più evidente agli occhi della gente.

Tu, invece, quando ci si è arresi all’idea che il coronavirus non fosse una banale influenza, che cosa hai pensato? Ti sei chiesto come la pandemia avrebbe condizionato il nostro modo di vivere non nell’immediato, ma nel lungo periodo?
Certo, come tutti, ma soprattutto una cosa mi ha fatto riflettere: la mia vita con la pandemia è cambiata pochissimo. Sono in apprensione e mi sento vicino a chi ha sofferto e sta soffrendo a causa del coronavirus, ma a parte questo la mia quotidianità è la stessa di prima, abitare in una piccola borgata in Appennino mi ha permesso di continuare a godermi la vita tanto quanto prima, se non di più. Ciò che spero è che il lockdown abbia stimolato dei ragionamenti in questa direzione e spinto tanti verso un dialogo più profondo con la natura. Anche se questo termine – natura – è talmente inflazionato che ormai quando lo pronuncio mi stride un po’.

C’è chi sostiene che causa della pandemia sia il nostro modello di sviluppo, quella globalizzazione spinta che azzerando le distanze ha permesso al virus di diffondersi rapidamente, viaggiando in aereo e magari in prima classe, da Wuhan al resto del mondo, da un Paese all’altro.
Beh, io penso che la pandemia abbia di sicuro a che fare con noi esseri umani. Non so se siamo stati noi a generarla o a favorire lo sviluppo del virus, ma nel dubbio preferisco guardarmi dentro e pensare che un po’ di responsabilità ce l’ho anch’io. Perché questo mi permette di mettermi in movimento, di migliorarmi. E perché non si può non constatare che da lungo tempo, ormai, viviamo un momento storico in cui tutto viene trattato con poco rispetto, per cui ti avvicini all’ambiente per usarlo per i tuoi comodi e poi ti dici che tanto girato l’angolo tutto torna come prima e nessuno ti vede. Ma non può essere questo il modo di porsi verso le cose e le persone: che ci si trovi di fronte a un albero o a un individuo ci vuole rispetto, serve la volontà di tutelare ciò che abbiamo attorno. 

Invece cosa vedi?
Vedo che quasi sempre ciascuno tenta di portare acqua al suo mulino, di ottenere il piccolo guadagno immediato. E soprattutto noto un’incapacità di mettersi in relazione con il tutto, come se la nostra vita fosse qualcosa a parte rispetto al resto, rispetto al pianeta e persino rispetto agli altri esseri umani.

Tu adesso vivi in montagna, a 500 metri di altitudine, in un posto sperduto dove, però, stai portando avanti un progetto collettivo, così è definita sul sito Cascina Barbàn. In che senso collettivo?
Collettivo perché siamo due famiglie, stiamo cercando di sperimentare una specie di comunità diffusa. Una comunità dove non si sta più tutti sempre insieme come accadeva nelle vecchie comunità o cooperative, ma dove ognuno ha la propria intimità, ma al tempo stesso converge con gli altri per tentare di raggiungere obiettivi precisi oppure per il semplice e libero piacere della convivialità, di farsi due chiacchiere bevendo un bicchiere di vino o una grigliata in compagnia. Ed è un bel salto di qualità, perché in questo modo stai con gli altri solo quando hai voglia e però hai degli obiettivi condivisi. In primis il vino: l’altra famiglia ha piantato circa due ettari di vigne, noi ne abbiamo circa tre, ma il lavoro lo fanno tutti in egual misura.

Ossia?
Per esempio, a livello agronomico quando c’è da fare un trattamento lo concordiamo e lo facciamo insieme; gli strumenti e le macchine agricole sono comuni… Tutte cose che possono sembrare scontate, ma che in realtà hanno un valore culturale e sociale fortissimo. Perché se ci pensi è assurdo che se in un paesino ci sono tre cristi che lavorano la terra, tutti e tre abbiano le stesse cose doppie: ognuno il suo trattore, ognuno la sua fresa e così via. Noi stiamo cercando di spezzare questa tendenza pur mantenendo la nostra intimità e identità personale: siamo convinti che in Appennino questo sia un comportamento virtuoso e potenzialmente utile.

Anche perché a volte solo unendosi ad altri si possono fare investimenti, no?
Assolutamente, tant’è che con l’altra famiglia abbiamo comprato anche un trattore.

E quanto costa un trattore?
Il nostro, che è di fine anni ’90, lo abbiamo pagato 12 mila euro; se ne prendi uno nuovo puoi spendere anche 300 o 400 mila euro. Dipende da cosa si cerca, vivere in Appennino di agricoltura è difficile… Noi abbiamo trovato la strada del vino, che è una strada che ci appassiona, e in più io ho la band, ho gli Otaghi che negli ultimi anni mi hanno consentito, grazie al riscontro ottenuto, di dare un’accelerata al tutto, a livello di progettualità: grazie ai soldi guadagnati con la musica sono andato più veloce rispetto a quanto sarei andato senza; il progetto Cascina Barbàn è rimasto il medesimo, ma, per dirne una, la cantina invece che in sei anni l’ho fatta in due. Insomma, il vino è il prodotto che ci sta facendo fare il salto di qualità a livello economico, perché vivere solo di ortaggi e di cereali – cose che comunque coltiviamo – è davvero dura. 

Ci avete provato, giusto?
Sì, negli anni scorsi servivamo una ventina di famiglie a Genova, vendevamo le verdure dell’orto e altro, ma poi ci siamo resi conto che non era sostenibile, non ci stavamo dentro economicamente, così abbiamo smesso e ci siamo focalizzati sulle vigne. Abbiamo smesso di vendere, intendo, per il resto facciamo ancora un orto molto abbondante, per l’autosostentamento e in modo tale che amici, conoscenti e clienti storici possano comunque venire ad acquistare quello che gli serve. Abbiamo anche una quindicina di galline, per le uova e ogni tanto per la carne, e un ettaro e mezzo di grano, che ci consente di avere sempre la farina sia per noi sia per altri. L’olio ci manca, ma lo barattiamo con degli amici che stanno nell’imperiese. In compenso prepariamo passate di pomodoro e marmellate.

Molti considerano la scelta di andare a vivere in campagna o in montagna come un rifugiarsi in un passato che non c’è più: che effetto ti fa?
Diciamo che io la mia vita la sto spendendo a testimoniare il contrario, non è un caso che abbia dato il via ad AppenninoPOP, progetto documentaristico che vuole far emergere l’estrema contemporaneità e addirittura l’anima futuristica che caratterizza l’Appennino oggi. 

A che punto è?
In lavorazione, manca ancora un po’, ma l’obiettivo è proprio quello di cambiare la concezione che la maggior parte della gente ha della campagna e dell’entroterra. Vorrei far capire che non si tratta di luoghi che puzzano di passato o di antico, bensì di luoghi interessanti per l’oggi e per il futuro. Anche perché grazie alla tecnologia, per la prima volta nella storia dell’umanità, uno adesso può veramente vivere in una borgata in cima a un cocuzzolo ed essere iperconnesso e fare lavori di ogni genere, cosa che la pandemia che stiamo vivendo ci sta insegnando ampiamente. Per noi l’Appennino è un laboratorio di possibilità per compiere delle vite moderne, contemporanee, ma più vicine alla nostra natura di esseri umani: delle vite dove i ritmi sono scanditi dalle stagioni, dove questo filo spezzato negli ultimi decenni tra noi e la natura possa essere ricucito regalandoci grandi soddisfazioni ed enormi benefici. Da tutti i punti di vista.

Io credo che a frenare molti che magari un pensierino di andare a vivere lontano dalle città lo hanno anche fatto non sia tanto il timore di non farcela con i soldi – come dicevi siamo nell’epoca dello smart working –, quanto l’esigenza più o meno inconscia e più o meno indotta di doversi riempire il tempo.
Eh, cavoli… Pensa che l’altro giorno ragionavo proprio sulla stupidità del termine “passatempo”. Cioè, il tempo è la cosa più bella e preziosa che abbiamo, quella che non torna più e che non è acquistabile, e tu che fai? Trovi qualcosa per farlo passare. Per me è inconcepibile. Tra l’altro c’è da dire che abitare in campagna o in montagna non è necessariamente sinonimo di solitudine. È indubbio che parliamo di contesti che favoriscono il contatto con la propria individualità, perché ti ritrovi tu in mezzo agli alberi, tu in mezzo al bosco, tu in mezzo a un prato, alla natura, però questo non elimina la possibilità di vivere situazioni collettive e comunitarie: si cena spessissimo in compagnia, quando qualcuno inaugura una vigna si va tutti ad aiutare e festeggiare, senza contare che al di là della nostra esperienza in Appennino esistono anche comunità che dividono tutto, dalla cucina al bagno. Ognuno può fare come crede. Quello che mi chiederei io è: ma in città quand’è che hai la possibilità di stare davvero da solo con te stesso e senza stimoli o input di altri umani? Perché comunque anche se sei da solo in casa senti la tv del vicino, l’ambulanza, le macchine…

Vero, ma a me più che altro sembra che negli ultimi anni si sia disimparato a viversi bene la solitudine o semplicemente i momenti vuoti, il che porta molti a trascorrere un sacco di tempo sui social. Solo che tendenzialmente i social sono uno strumento che allontana dall’interiorità. Ad ogni modo non vorrei indire una gara campagna vs città.
Nemmeno io. Quello che la pandemia mi ha messo sotto agli occhi è semplicemente che tranne che per i più privilegiati stare chiusi in casa in città è quasi una penitenza. La città acquisisce senso per la grande offerta culturale, sociale e relazionale che propone, ma nel momento in cui non puoi fruire di tutto questo è come stare al mare, su una bellissima spiaggia, dentro a un cubo di plexiglas, e non poter fare il bagno.

Tu sei anche un camminatore. Una volta, durante un’altra intervista, mi hai raccontato di un itinerario a piedi che da Cascina Barbàn ti ha portato a Milano.
Quello è uno, ma mi è capitato di andare a piedi anche a Genova, a Piacenza… Amo camminare, per me è una terapia e un momento per meditare. E amo viaggiare camminando, usare le mie gambe come mezzo di trasporto. Non so se riuscirò mai, ma mi piacerebbe raggiungere il Portogallo camminando e al massimo facendo qualche tratto in autobus. Perché secondo me vivere i territori a quella velocità lì è l’unico modo per capirli davvero, per sentirli. L’aereo lasciamolo proprio perdere, ogni tanto sono costretto a prenderne uno, ma fosse per me abbandonerei i voli per sempre. Nemmeno il treno, che a dire il vero mi piace, ti permette di avere uno sguardo così attento e profondo sul territorio come quando cammini. Parlo, naturalmente, di quel camminare senza mete precise da raggiungere in tempi prestabiliti che è più un vagabondare in senso bello, per me qualcosa di sublime. 

Aggiungerei un ultimo tassello alla nostra conversazione, quello riguardante lo spopolamento dell’entroterra italiano e più in generale di molti borghi e villaggi che negli anni e decenni passati sono stati abbandonati. Uno era quello dove vi siete trasferiti tu e la tua compagna: una borgata in pietra del 1700 abbandonata da mezzo secolo.
Già, in Appennino, ma non solo, ci sono un sacco di case e interi paesi abbandonati, che in molti casi varrebbe la pena provare a recuperare. In effetti è interessante parlare di questo, perché in fondo le cose sono sempre le stesse, ma i momenti storici a quelle cose fanno cambiare l’abito. Una volta si scappava dai paesi perché in pianura e nelle città c’era la svolta, e come si fa a biasimare chi lo ha fatto? Erano altri tempi e c’era gente che magari in inverno moriva di fame. Ora, però, le cose sono cambiate radicalmente e mentre le città stanno diventando sempre meno a misura d’uomo magari si scopre che la svolta sta in un paesino immerso in un paesaggio stupendo, con un torrente e quindi l’acqua, se si preferisce non troppo lontano da qualche centro abitato. Chissà se questo coronavirus spingerà più persone ad abbracciare maggiormente questa prospettiva.

Credo dipenda da cosa s’intende per “a misura d’uomo”.
Per quanto mi riguarda intendo a misura del nostre essere persone. In Appennino che tu stia in campagna o in montagna è tutto estremamente umano. Anche le misure delle cose sono più comprensibili: a me la natura dà sicurezza perché mi fa vedere le cose in modo che io possa capirle.

Che cosa intendi?
Che la natura mi fa vedere la vita e mi fa vedere la morte, cose che in città vengono filtrate, edulcorate, finché alla fine non sai nemmeno di cosa si sta parlando. 

Ci siamo dimenticati di essere precari, mortali, limitati.
Assurdo. Invece la natura insegna, ti mostra che la morte è un accadimento normale, a volte anche buffo, che capita sempre e che riguarda tutti. In campagna tutto questo hai più modo di vederlo, non solo se sei un allevatore, basta incontrare una volpe ferita su una strada di campagna: hai tante occasioni per relazionarti e approfondire più o meno volontariamente il grande tema della vita e della morte. 

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