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La devozione di Cat Power per God Dylan

Non è un refuso: Chan Marshall lo chiama così e oggi pubblica un disco in cui rifà il suo celebre concerto del ’66. «Bob m’ha fatto sentire meno sola, quel ragamuffin scruffy smartass potevo essere io»

Foto: Mario Sorrenti (1), Mark and Colleen Hayward/Redferns (2)

La prima domanda la fa lei. Mi chiede dove sto di preciso a Milano. «Sai, ci ho vissuto per un certo periodo». Mi racconta dell’amore della sua vita, lo chiama così. «Siamo nati nello stesso ospedale di Atlanta, ci siamo conosciuti per strada a New York. Lo notò un fotografo di moda, Steven Meisel. Gli promise che avrebbe guadagnato facendo da modello e così nel 1999 stiamo stati tre mesi a Milano». Avete tirato su qualche spiccio? «Macché, neanche un cazzo di centesimo. Però dai, è stato divertente».

Chan Marshall è incontenibile. Dovremmo parlare dell’album che pubblica oggi, Cat Power Sings Dylan – The 1966 Royal Albert Hall Concert, la riproposizione canzone per canzone di un celebre concerto di Dylan a Londra (che poi era Manchester, ci arriverò). Ogni tanto, però, parte per la tangente e racconta di quant’era bello scorrazzare nei campi di tabacco della Carolina dopo la pioggia, coi piedi nel fango. «Sono una romantica, la semplicità è la suprema sofisticatezza». Le chiedo della separazione fra cantante e canzone nell’opera di Dylan e mi risponde parlandomi di un pezzo che ha scritto lei, Water & Air, su una coppia che annega in un fiume, forse il Mississippi. Divaga che è un piacere. Mi parla di oggi, di capitalismo, tecnologia, sovrapproduzione di oggetti. E poi di ieri, di quando nei cinema si poteva fumare, del senso di comunità che c’era negli anni ’70 e che le manca tanto. Sia detto con rispetto e affetto: è una matta, di quella categoria di matti sanissimi che si amano.

La storia in breve è questa (chi conosce la materia passi pure al paragrafo successivo, anzi a quello dopo). Nel 1966 Dylan è peggio di un bastardo (cit) e sta cambiando la musica, non solo la sua. Finiti i giorni della canzone di protesta e degli inni perfetti per il movimento, è diventato una specie di poeta beat elettrico che unisce testi strepitosi e pieni di cose da decifrare a musiche intense e assordanti (per l’epoca, stiamo parlando degli anni del pionierismo nell’amplificazione dei concerti rock). Sugli anni ’65-66 guardate Don’t Look Back di P. A. Pennebaker, guardate No Direction Home di Martin Scorsese e perché no guardate Cate Blanchett in Io non sono qui. È tutto lì, in un misto di genio, ironia, strafottenza e fattanza.

Dylan arriva in Inghilterra e secondo il mito quei concerti sono una lotta, direi quasi l’atto fondante dell’autonomia dell’artista rock dal suo pubblico. Dylan è la voce famigliare che interpreta (e come interpreta) la prima parte del concerto da solo alla chitarra, da folksinger. Applausi. Ma è anche il traditore che fa la seconda parte in elettrico, accompagnato da quella che diventerà la Band di Robbie Robertson. «Giuda!», grida qualcuno. Lui risponde «Non ti credo! Sei un bugiardo!», per poi chiedere ai suoi di suonare Like a Rolling Stone «fuckin’ loud». Il tutto diventa un bootleg e una leggenda. Si scoprirà poi che il concerto londinese si era tenuto in realtà alla Free Trade Hall di Manchester. Sono stati entrambi pubblicati ufficialmente. Se non l’avete ancora fatto, ascoltateli adesso.

Fatto sta che quando nel 2022 chiedono a Cat Power di suonare alla Royal Albert Hall le viene l’idea matta (ve l’avevo detto) di rifare lo show del ’66. E del resto per lei Dylan è Dio e difatti lo chiama God Dylan. Essendo lei Cat Power e non una grande popstar il piano di rendere omaggio al suo Dio è privo d’ogni solidità economica, ma son dettagli che non fermano una devota. «Quando suoni in posti come la Royal Albert Hall di Londra, la Carnegie Hall o il Lincoln Center di New York lo fai per il nome, non per l’incasso. È quello che chiamano marquee value. Quindi se vuoi suonare lì, devi pagare».

«Solo due settimane dopo aver fissato il concerto, che fessa, m’è venuta l’idea di registrarlo, ma ci volevano fondi che non avevo. Sono fortunata perché riesco a pagare il muto, la scuola per mio figlio e tutto il resto, davvero, sono grata, ma siccome oramai non ci campi più con la musica, ero al verde e anzi dovevo un sacco di soldi a parecchi amici. Fortunatamente è arrivato il finanziamento dell’etichetta Domino».

La sera prima dello show Marshall e i suoi hanno suonato a Manchester. «Ricordo il viaggio col gruppo sul bus, verso Londra. C’era un’atmosfera bellissima. Hai presente le gite scolastiche? È stato come tornare ad avere 13 anni. Ci sentivamo come una squadretta locale convocata per giocare ai mondiali».

Se il concerto del ’66 è stato una battaglia tra Dylan e i tradizionalisti, la versione di Cat Power non è una rievocazione storica in costume. Interpreta, suona e fa suonare i pezzi con naturalezza. Non li cambia radicalmente, eppure resta sé stessa. «Non volevo avere l’ego tra i piedi. Abbiamo fatto due prove a Los Angeles, ma non ho voluto provare troppo queste canzoni che conosco e canto da una vita. L’ho spiegato alla band: niente jam, niente passaggi musicali carichi. Volevo un omaggio rispettoso a quelle canzoni e a quell’epoca, non volevo che fosse una festa chiassosa».

Alla fine è stato «bellissimo con tutti gli amici che sono venuti a vedermi e poi a trovarmi nel backstage. E quando siamo usciti dalla Albert Hall mi sono sentita come… non so descriverlo… ma dopo la pandemia e la sofferenza anche psicologica ed economica, e dopo i morti è stato come un’altra vigilia di Natale. C’era tanta gioia, c’erano amici in lacrime, anche Thurston Moore che vive a Londra parte dell’anno m’ha detto che ha pianto durante Mr. Tambourine Man».

Anche nella registrazione della serata di Cat Power, che risale al novembre 2022, si sente qualcuno del pubblico che urla «Giuda!». Lei scherzando risponde «Jesus!» per giocare con la sua idea di God Dylan. In realtà quella sera «non l’ha gridato solo una persona, ma una ventina e te lo dico, l’avrei urlato anch’io se al posto di essere sul palco fossi stata tra il pubblico». Erano ovviamente citazioni scherzose, ma il punto della faccenda di «Giuda!» secondo Marshall è che «l’arte, quella buona, è fatta così, ti fa provare cose a cui non sai dare nome. Sta qui il conflitto. L’arte ti lascia l’incombenza di capire come ti devi sentire, ti pone domande anche innocenti a cui devi rispondere. L’arte migliore suscita emozioni forti, è sempre al limite di qualcosa».

Dylan non è comunemente considerato un cantante tecnicamente dotato, né per estensione, né per potenza, eppure nei pezzi acustici a Londra e Manchester è incredibilmente espressivo, suscita empatia e, strano dirlo di uno come lui per di più in quel tour lì, quasi commuove. Ci sento della compassione, anche quando sembra sputare i testi. Cat Power è un’interprete sensibile e canta con oltre mezzo secolo di storia in più alle spalle, eppure le sue parti vocali sono più leggere, direi meno pensate.

«Vero», ammette, «non ho pensato granché a come cantare. L’ho fatto e basta. Ho passato molto più tempo a preoccuparmi della pressione derivante dal fatto che stavamo registrando. Per superarla, ho evitato di farmi troppe domande tipo: ma sei matta? Chi ti credi di essere? Ma niente pressione nel cantare questi pezzi, forse perché è una vita che lo faccio ascoltando i dischi di Dylan. Ecco, quello che senti nella mia registrazione è quello che sentiresti quando sono a casa e ascolto la sua musica e ci canto sopra, come se fossi la sua corista».

La corista di Dio non ha dovuto nemmeno interrogarsi sui testi. Quelli di molte canzoni del 1966 Royal Albert Hall Concert hanno passaggi enigmatici, immagini stordenti, parole cumulate in modo travolgente. Le chiedo se abbia dovuto cantare frasi di cui non conosce fino in fondo il senso, di quelle su cui hanno dibattuto per anni dylanologi e dylaniati. E invece no, la devozione non ammette incertezze. «Non c’è una sola parola che non mi parli. È la forza dell’arte, quella buona: tutti sono in grado di dare una loro interpretazione. È quel che fa Dylan: ti aiuta a interpretare il mondo che c’è là fuori, che è un gran casino».

Marshall, che ha preso il nome d’arte dal cappellino di un anziano cliente della pizzeria di Atlanta dove la futura cantante lavorava (“CAT Diesel Power”), ha scoperto Dylan quando aveva 5 anni, «nel periodo in cui scoprivo la musica, da Little Richard a Frank Sinatra». Quando più grandicella s’è imbattuta nel rocker di metà anni ’60 «mi sono sentita meno sola, ho scoperto di avere un amico in una fase in cui la musica di quegli anni, compreso il punk e l’hardcore e tutta la roba con cui ero cresciuta, mi sembrava una posa mascolina». S’è innamorata di Bob guardando Don’t Look Back: «Mi sono detta, oh merda, quel ragamuffin scruffy smartass innamorato delle canzoni potrei essere io». Gli ha anche dedicato un pezzo. Se Dylan cantava Song to Woody per il suo idolo Woody Guthrie, lei una quindicina di anni fa ha pubblicato Song to Bobby: “Me lo dici per chi cantavi?”.

Per una che ha pubblicato tre dischi di cover, l’idea di interpretare Dylan è perfettamente sensata. «Cantare pezzi altrui è un’arte», assicura, «e ha a che fare con l’imparare cose e crescere». È un’arte svalutata e lei ha una teoria: «L’idea che chi canta pezzi autografi sarebbe superiore a chi ne interpreta di altrui è nata con MTV. I dischi si vendevano con la tv, non più con la radio. Rolling Stone e gli altri magazine hanno cominciato a mettere in copertina le video stars, che sono diventate icone. Si guadagnavano milioni di dollari grazie a nuovi artisti, nuovo materiale, nuovi contenuti, nuovi produttori, nuovi studi, nuovi manager, nuove etichette», dice enfatizzando ogni volta la parola new. «MTV ha distrutto la comunità tradizionale della canzone dove era normale cantare i pezzi degli altri. Ecco perché amo la storia dell’hip hop, che è progredito nel rispetto della tradizione usando campionamenti r&b, soul, rock». Insomma, la cover come consapevolezza della storia.

Nel caso ve lo chiediate, sì, Cat Power ha incontrato Bob Dylan un paio di volte e ne parla come ne parleremmo noi, a parte il fatto che ne conosce figlio e nipoti: l’emozione d’essere riconosciuta e il braccio che la cinge, il nome inserito nella lista degli invitati ai concerti, l’affetto che sente da lui anche se non viene espresso verbalmente, «forse perché anch’io sono cresciuta così, non ho rapporti coi miei genitori, mi sono riconciliata col mio patrigno solo durante la pandemia». Non ha avuto un feedback diretto da Dylan sul remake del concerto, «ma il fatto che al Farm Aid con gli Heartbreakers abbia suonato tre canzoni di queste la vedo come una reazione. Spero solo che il mio disco lo faccia sentire bene». È il performer più incredibile che abbia visto in vita sua, dice. «L’ultimo concerto, quello di Rough and Rowdy Ways, l’ho visto a Glasgow. La band suonava pianissimo, c’era un silenzio assurdo in sala, sentivi ogni dettaglio. È stato fuckin’ incredible e te lo dice una che l’ha visto mille volte. Ho visto anche il peggio del peggio, ma anche quel peggio l’ho amato».

L’ultima domanda la fa lei: «Come si chiama il teatro d’opera di Milano? Vorrei tanto che mi offrissero di cantare queste canzoni lì». La informo che non aprono La Scala alle cantautrici americane, non l’han data neanche a Dylan, è già tanto che ci abbiano fatto esibire Paolo Conte, che è roba nostra. «Allora vengo a fare l’opera». E, giuro, si mette a cantare imitando una soprano: «“Ohhh-oh-oh-oh-oh-ohhh!”. Che roba sarebbe: Dylan all’opera. Mi prendono, sì?».

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