La musica di Venerus fa bene, è una specie di medicina naturale, prodotta a Milano, ma con un’idea di fuga mentale e psichedelica dalla città, realizzata artigianalmente, con la cura e i tempi dell’artista in cerca di ispirazione, e non quelli della hit da consumo usa e getta che va in tendenza una settimana su Spotify e poi sparisce. Nonostante queste premesse, Speriamo, il nuovo album in uscita il 7 novembre, è un disco più pop dei precedenti che idealmente viaggia verso le classifiche dello streaming, ma «con la consapevolezza di voler arrivare in profondità nell’arte di scrivere canzoni». Parole sue, estrapolate da un sintetico comunicato stampa, che trovano testimonianza nelle 14 tracce in cui i generi musicali su cui il gusto di Venerus si è formato – dall’elettronica sperimentale e quella da ballo, passando per il funk, il folk dei cantautori, il jazz, l’r&b e l’hip hop – trovano una casa comune. L’indirizzo è un loft bohémien della Bovisa, suo quartier generale che diventa rifugio, caldo e denso come il mood musicale, per chi ascolta.

Non è raro incontrare Andrea Venerus – a differenza della maggioranza degli artisti milanesi – ai concerti, alle serate di musica elettronica, dai rave in periferia al Conservatorio, a riprova, se ce ne fosse bisogno, della passione e dedizione dell’artista. Certo, vivere di musica nel 2025 non è facile, ma la speranza di Venerus è proprio che questa sia l’unica cura possibile in un mondo che spesso non spera più.
Lo incontriamo a Milano, davanti alle vetrate del building di Universal in una mattina piovosa e grigia, prima che parta per il C2C di Torino. È curioso di vedere i concerti di Nourished by Time e Blood Orange e viene naturale, dopo l’ascolto di Speriamo, pensare a questi musicisti, arty e sperimentatori senza perdere di vista il pop, come motori di una wave di devoti innovatori del suono contemporaneo di cui anche Venerus fa parte.
Speriamo arriva a due anni di distanza da Il segreto, che era un concept album registrato in presa diretta, con una connotazione musicale più definita rispetto alla varietà dei nuovi pezzi.
Appena finito Il segreto avevo la sensazione che avessimo trovato un metodo, un suono, una direzione. Io, Filippo (Cimatti, il produttore) e Cleopatria (Andrea, co-autore dei testi, ha dipinto il quadro a olio della copertina), che è il mio compagno di scrittura e sodale artistico, non volevamo fermarci. Ci siamo messi subito a scrivere e registrare. Alcune idee di questo disco vengono proprio da allora: per esempio, nell’ultimo ritornello de La chiave si sente tutta la band entrare e quella parte viene direttamente dalla prima demo registrata un mese dopo l’uscita de Il segreto.
Ci sono state fasi diverse nella scrittura? È un disco molto eterogeneo.
Sì, assolutamente. C’è stato un periodo, subito dopo Il segreto, in cui scrivevamo ancora con quella stessa energia; poi un momento di stacco, di studio e ricerca; e ancora fasi di crisi, momenti di lucidità. In due anni e mezzo ci abbiamo buttato dentro tutto; e alla fine è rimasto ciò che ha resistito. È come se avessimo tenuto acceso un falò per due anni: tutto quello che non reggeva si è bruciato, e quello che vedi oggi è ciò che è rimasto attaccato.
Dal punto di vista creativo, sembra un album più centrato sulla scrittura…
È proprio così. Con Il segreto partivamo dalla musica, da suite sonore su cui poi io costruivo i testi. Qui abbiamo fatto l’opposto. Per mesi abbiamo scritto solo testi, frasi, immagini. Volevamo che reggessero anche senza musica. Spesso ci passavamo i fogli e li leggevamo a voce alta, come un test: se emozionavano da soli, funzionavano. È stato un modo nuovo di scrivere, più letterario, più cinematografico.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Outfit: Maglia Bottega Bernard, camicia Lutchmiah, pantalone Adidas, stivale Sonora boots, cappello Alchetipo

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È una scrittura dove il personaggio principale sei sempre tu?
Non ci sono nomi, non c’è una cronologia. Mi interessa più l’immagine che resta, il calco di un sentimento. Cerco di far sì che l’“io” non domini sempre la canzone, che ci sia spazio per chi ascolta. Anche quando parto da me, voglio che chi sente possa indossare la canzone, farla sua.
Ci sono anche canzoni più rap, come Cool, con i featuring di Side Baby, Mahmood, Jake La Furia, Mace, o Pensieri parte 1 con la partecipazione di Izi…
A un certo punto, dopo anni in cui non rappavo, ho sentito il bisogno di farlo di nuovo. È come un videogioco: entri dentro al beat e devi trovarti un percorso. È un modo per tirare fuori lati di me che nella forma canzone non emergono.
Ho nominato un po’ di artisti che hai portato nel disco. Ce ne sono altri come Gemitaiz, Marco Castello, Cosmo e Altea. E spesso sembra che sia tu a entrare nel loro mondo sonoro, e non viceversa, come solitamente accade.
Sono tutte persone che stimo e che, in modi diversi, fanno parte del mio mondo. Non mi piace l’idea del featuring a distanza, dove mandi un beat e qualcuno ci mette una strofa. Preferisco creare insieme. Con Marco Castello, per esempio, ci siamo incontrati in Sicilia: io e Filippo eravamo lì per scrivere, lui è venuto da noi, abbiamo preso due chitarre e scritto il pezzo a un tavolo, registrandolo con il telefono. La prima versione era quella più magica, e infatti siamo tornati giù per rifarla in spiaggia, con un microfono e il suono del mare intorno.
Con Cosmo invece siamo andati a Ivrea: avevamo due idee diverse, casualmente nella stessa tonalità e nello stesso BPM. Le abbiamo fuse e da lì è nata una canzone su un’amicizia che attraversa la distanza. È stato tutto molto naturale.
Possiamo definire Speriamo un disco pop?
Sì, ma non pop nel senso di compromesso. È un disco più nitido, più diretto. Abbiamo deciso di passare la musica attraverso filtri precisi, come se avessimo sagome nette. Ne è uscita un’immagine chiara, più grande. È anche un disco pensato per il live: ogni volta che lavoravamo a un brano, immaginavamo come sarebbe stato dal vivo, come avremmo potuto destrutturarlo sul palco. In questo senso è più pop, perché più performativo.
Ci siamo incontrati recentemente, e per caso, a una manifestazione per la Flotilla. Nello stesso periodo hai realizzato una performance di quattro giorni consecutivi nella stazione Lancetti di Milano trasformandola in una pagina viva su cui scrivere e cancellare i testi delle tracce di Speriamo, performance che hai interrotto proprio per partecipare alla mobilitazione in atto per la Palestina. Nei testi del disco, però, sembra che l’attualità politica e sociale rimanga fuori.
Mi ci interrogo tanto. Penso che esistano due modi per reagire al male: o lo assorbi e lo ributti fuori com’è, oppure lo trasformi in qualcosa che cura. Io sto cercando la seconda via. Quella performance a Lancetti nasceva da un tilt totale: non riuscivo più a processare la quantità di dolore nel mondo. Ho deciso di fermarmi, di meditare attraverso il gesto artistico.
Un signore, vedendomi in tv, è venuto da me in bici la mattina dopo. Non sapeva chi fossi, mi ha portato un sacchetto con del gesso di Spagna e mi ha detto: «Io con questo disegnavo sulle vetrine, buona vita». Mi ha colpito tantissimo. Non aveva bisogno di capire il contesto, aveva colto l’intento. E credo che sia un po’ quello che provo a fare con la musica: creare gesti che connettono, anche senza spiegazioni.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Outfit: maglia Adidas, gilet Msgm, pantalone Ascend Beyond, occhiale RSF, scarpe Fiorucci

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Outfit: blazer Federico Cina, maglia Alchetipo. pantalone Sunnei
Nonostante tutto, il tuo disco non ha un tono cupo. È pieno di speranza, appunto.
Sì, perché credo ancora nella possibilità che la musica guarisca. Siamo in un momento in cui tutto – la società, la politica, la musica stessa – sembra scivolare verso il consumo, la distrazione. Ma la musica ha sempre fatto miracoli, ha sempre dato appigli alle persone nei momenti bui. Il titolo Speriamo nasce da qui: da una fede un po’ ingenua ma necessaria.
Come si costruisce una canzone che dura? Mi sembra sia questo il tuo obiettivo.
Con autocritica, tanta. Devi avere il coraggio di distruggere quello che fai, di riscrivere, di non accontentarti. Io e Filippo ci fidiamo molto l’uno dell’altro: discutiamo, ci scontriamo, ma sappiamo che è per il bene del brano.
Parli spesso del tuo rapporto con Milano. Quanto c’è della città in Speriamo?
L’ho scritto quasi tutto a Milano, ma non è mai protagonista. È più l’effetto che la città ha su di me. Penso alla seconda parte di Stazione Bovisa, che ho scritto una mattina al bar sotto casa. Ci sono gli angoli, le notti, i suoni. Milano per me è un posto necessario, ma anche un luogo da cui scappare. Ogni tanto la amo, ogni tanto mi ferisce.
In passato citavi spesso libri che ti avevano ispirato. Ce ne sono stati anche per questo disco?
Sì. Di chi sono le case vuote? di Ettore Sottsass e I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Due libri che parlano di viaggio, di libertà, di spazi interiori. Mi hanno accompagnato nei momenti di scrittura più intensi.
E oggi, da ascoltatore onnivoro, cosa ti stupisce?
L’ascolto è ancora tutto per me. Ascolto molto, e ci sono tanti amici che stimo, come Marco Castello, che è uno dei più grandi talenti che abbiamo. Amo gli artisti che mettono in gioco la propria personalità. E anche se a volte mi sento una mosca bianca nel panorama musicale italiano, va bene così. Anzi, è quello che mi fa continuare a cercare.

Foto: Clara Borrelli. Outfit:
blazer Act N°1, pantalone Haikure, Stivaletto Sonora Boots
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CREDITS
Talent: Venerus
Photographer: Clara Borrelli
Interview Curated By: Giovanni Robertini
Editor In Chief: Alessandro Giberti
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Alex Calcatelli for Leftloft
Fashion Editor: Francesca Piovano
Graphic Designer: Stefania Magli
Talent Press Office: Outloud Pr
Talent Label: Asian Fake, Emi Records Italia
Style Assistant: Giorgia Calia
Make Up & Hair Styling: Rossella Pastore
Post Production: Nicolò Amoretti for The Circumstances
Digital Ph. Assistant: Francesco Barrella
Light Designer: Nicola Cattelan
Gaffer: Matteo Dozio