L.A. Salami: «Kanye West sarà anche pazzo, ma spesso ha ragione» | Rolling Stone Italia
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L.A. Salami: «Kanye West sarà anche pazzo, ma spesso ha ragione»

Il rocker racconta il nuovo 'The Cause of Doubt & a Reason to Have Faith', dove cerca un motivo per avere fede in un mondo in preda al caos, e dà pareri su Trump e Black Lives Matter, «che è diventato una religione»

L.A. Salami: «Kanye West sarà anche pazzo, ma spesso ha ragione»

L.A. Salami

Foto: Diane Sagnier

Leggendo il nome L.A. Salami, parafrasabile come “il salame di Los Angeles” molti pensano che si tratti di uno dei tanti progetti hipster ironici e lo fi che in questi ultimi anni spuntano come funghi a qualsiasi latitudine, figuriamoci in California. Se anche voi avete fatto lo stesso ragionamento – come d’altronde è capitato a chi scrive quando qualche anno fa si è imbattuta per la prima volta in un album del suddetto – sappiate che siete decisamente fuori strada: trattasi di un cantautore londinese di origini nigeriane che all’anagrafe fa proprio Lookman Adekunle Salami.

Oltremanica, e ormai in tutto il resto del mondo, è noto per la sua estrema originalità e la conseguente difficoltà nel classificarlo in un solo genere musicale, che è dovuta a due principali fattori. Primo: i suoi gusti, molto eclettici, spaziano dal rap più hardcore («Negli ultimi mesi ho adorato Conway the Machine, lui e i Griselda sono tra i miei artisti preferiti del momento») al folk-rock («Amo molto Alice Phoebe Lou») alla musica etnica («Ascolto un sacco di musica araba perché mi dà una prospettiva diversa rispetto a quella europea»). Secondo: ha imparato a comporre e suonare piuttosto tardi, a 21 anni, quando ha potuto permettersi di acquistare la prima chitarra. Fin dalla nascita, infatti, non ha avuto una vera e propria casa: è cresciuto presso varie famiglie affidatarie, trascorrendo solo brevissimi periodi con la sua madre naturale. «Non ho mai considerato la mia infanzia particolarmente dura, soprattutto se la paragono a quella di altri», ci tiene però a sottolineare durante la nostra chiacchierata via Zoom. «Più che altro, è stata un’infanzia confusa». Non è neanche uno di quelli che pensano che l’arte nasca per forza da grandi sofferenze. «Non necessariamente, almeno. Mi sento più produttivo quando sono felice, o comunque quando il periodo difficile è già alle mie spalle e sto uscendo dall’inferno. Oppure quando sto cercando di conquistare qualcuno», dice ridendo.

L.A. si è fatto un nome nell’ambiente per i suoi testi pieni di sfumature e i titoli estremamente criptici: dopo l’album di debutto del 2016, Dancing with Bad Grammar (“Ballando con una pessima grammatica”) e il seguito del 2018 The City of Bootmakers (“La città dei Fabbrica-Stivali”), venerdì esce il suo terzo lavoro The Cause of Doubt & a Reason to Have Faith (“La causa del dubbio e una ragione per avere fede”). Il perché l’abbia chiamato così ha a che fare con il concetto di Dio e con l’incertezza della modernità. «Anche se nel mondo occidentale viviamo uno dei periodi più pacifici nella storia dell’umanità, sappiamo che il caos è sempre dietro l’angolo e che siamo estremamente fragili», afferma. «Siamo lontanissimi dal terrore e dalla tirannia dei secoli precedenti, eppure pochi errori ci separano dal baratro, sempre. E più acquistiamo questa consapevolezza, meno fede abbiamo».

Prima di lavorare a questo disco, L.A. Salami non si sentiva particolarmente religioso, anzi, si considerava quasi un ateo, ma nell’ultimo periodo «ho scoperto il significato della Bibbia e delle storie che racconta, tramandate per generazioni oralmente e poi diventate una religione organizzata. Oggi ci basiamo più sulla scienza, e la spiritualità è stata messa da parte; nell’antichità, però, gli scienziati erano seguaci di qualcosa, credevano fortemente. Le più grandi scoperte sono state fatte proprio cercando di rispondere alla domanda: perché siamo qui?». Oggi, invece, se ti dichiari credente cercano in qualche modo di delegittimarti, lamenta L.A. Salami. «È come se fosse una cosa infantile. È ridicolo, perché è normale provare l’istinto di pregare, se stai attraversando un brutto periodo. Esiste un altro piano esistenziale, e non credo che gli artisti dovrebbero smettere di parlarne». Dio, per lui, non è «una specie di amico immaginario collettivo, come quelli che hanno i bambini. La fede è una cosa diversa: non vuol dire pensare per forza che debba esserci qualcuno lassù, ma piuttosto avere l’ottimismo di credere che domani sarà meglio di oggi. Insomma, di fatto ho fede nell’umanità, nelle creature straordinarie che siamo».

La spiritualità pervade la sua musica al punto che per lui la composizione arriva a essere un processo mistico. «A volte è come se l’ispirazione arrivasse direttamente da un’altra dimensione e io la stessi solo incanalando. Come se stessi comunicando con un’entità diversa” dice. I suoi brani, in effetti, non hanno lo schema tipico dei prodotti discografici preconfezionati, ma sembrano davvero scritti sull’onda di un’estasi quasi divina. Alcune delle sette tracce che compongono l’album, come quella che gli dà il titolo, durano più di dieci minuti; altre, come Thinking of Emiley, meno di due. «Non decido io quando un pezzo è finito, è lui che lo fa. Non mi piace cercare di condensare o espandere la mia musica. Se è lungo va bene, se è corto anche, basta che abbia senso e che ti smuova qualcosa dentro. Anche perché, quando ascolto un pezzo che mi piace, anche se è molto lungo, ho la sensazione che non duri mai abbastanza». Questo processo quasi anarchico in cui la canzone si scrive da sola si applica perfino al primo singolo estratto; là dove, in molte altre produzioni, viene cesellato in ogni dettaglio per poter avere più chance di entrare in rotazione radiofonica, Things Have Changed è il risultato perfetto di un metodo altamente spontaneo, a quanto pare. «Era nella mia testa da parecchio, suonavo il riff alla chitarra da un bel po’. Era come se sapessi già tutto: l’argomento, come sarebbe stato il ritornello, che parole avrei usato nelle strofe… Un giorno ho deciso di suonarla tutta di fila, riempiendo i vuoti, e l’ho scritta così. Una specie di flusso di coscienza rock’n’roll, molto rilassato».

La canzone che è destinata a tenere banco per i mesi a venire è però When You Play God, in cui cita Kanye West: “Maybe Kanye West is insane / but maybe he’s not always wrong / but if you wanna play it safe / and keep out of the view of the monster / it’s best to just play along” (“Forse Kanye West è pazzo / ma forse non ha sempre torto / ma se vuoi andare sul sicuro / e tenerti lontano dalla vista del mostro / è meglio assecondarlo”). Questi versi sibillini sono stati scritti ben prima che Kanye annunciasse la candidatura alla Casa Bianca contro Trump, ma incredibilmente si legano proprio a questo discorso, o meglio, alla bizzarra amicizia tra il rapper e il presidente in carica. «Una mossa assolutamente geniale!», esclama L.A., entusiasta. «Se hai un presidente in carica che è estremamente infantile e reclama amore e attenzione, se stai al gioco e ti metti al suo stesso livello lo convinci a fare quello che vuoi tu». Secondo lui, insomma, quella di Kanye era una strategia calcolata: «Lo ha assecondato, lo ha messo sotto i riflettori, lo ha fatto salire nei sondaggi, e nel mentre ogni tanto andava da lui a dirgli “Non è che puoi farmi un favore e liberare qualcuno di questi prigionieri?”. È vero, è bipolare e ogni tot parte in quarta con i suoi sproloqui narcisistici, ma se ascolti quello che dice in realtà ha spesso ragione. Quando si incazza parlando dell’industria della moda, ad esempio, quello che intende dire è che è riuscito a imporsi in un mondo bianco che lo ha incasellato nella categoria ‘uomo nero’, ma ora non riesce a sfondare il soffitto di cristallo per passare al livello successivo. In sostanza, sta parlando di razzismo sistemico, di dinamiche di potere».

La sua visione della politica americana e delle mosse di Kanye West è abbastanza sui generis, ma in qualche modo si lega anche alla sua visione di Dio. «Oggi abbiamo sostituito la fede con altre filosofie e valori», osserva. «Prima eri cristiano o musulmano, oggi sei di destra o di sinistra, femminista o maschilista… In qualità di homo sapiens, in qualcosa devi identificarti. Ma a differenza delle grandi religioni, che creavano unità tra i loro adepti, tutte queste micro-fazioni non fanno altro che scannarsi a vicenda. Perfino Black Lives Matter sembra essere diventata una religione organizzata, quando dovrebbe essere solo un motto con cui ricordiamo alla gente che c’è un problema e va risolto». L.A. non crede nella divisione in fazioni, neanche sui principi più basilari: «Destra e sinistra non esistono. Chi mai è totalmente di destra o totalmente di sinistra?», si infervora. «Penso sia una cosa da pazzi, non ha senso: è la ricetta per il disastro, perché così non c’è punto d’incontro». Il sistema ha fallito, per come la vede lui. «Donald Trump è terribile come presidente, non è in grado di governare, ma i democratici sono profondamente corrotti, e provano semplicemente a farsi fuori l’un l’altro. Kanye ha fatto benissimo a lanciarsi nell’arena: in America non ci sono più i Malcolm X o i Martin Luther King, perché il sistema li ha assassinati, e c’era bisogno di un leader che convogliasse il voto nero in una zona neutrale». Sa che il suo beniamino non ha alcuna speranza di vincere – anche se i primi sondaggi dopo la sua discesa in campo lo davano al 2%, una percentuale che supera quella di moltissimi indipendenti – ma «la sua semplice presenza e il suo essere senza filtri, fragile, fallibile, cambia completamente le dinamiche della gara. Quando dice qualcosa, anche quando è folle, la gente gli presta attenzione, e all’improvviso i politici si rendono conto che quei temi sono importanti».

Chissà che questa sinergia di visioni non porti a qualche futuro sviluppo: intendiamoci, non ci auguriamo assolutamente quattro anni di presidenza West (con Kardashian come first lady, oltretutto), ma a questo punto un bel featuring tra Kanye e L.A. Salami ci starebbe eccome.

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