Kim Gordon: «Non sono la madrina del grunge» | Rolling Stone Italia
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Kim Gordon: «Non sono la madrina del grunge»

L'ex bassista e voce dei Sonic Youth racconta il nuovo album 'No Home Record', le sue influenze e spiega perché non suonerà più canzoni della band

Kim Gordon: «Non sono la madrina del grunge»

Kim Gordon

Foto: Natalia Mantini

Kim Gordon fa musica dall’inizio degli anni ’80, ma per qualche motivo è riuscita a registrare il primo album solista solo adesso. A sua discolpa, è stata molto impegnata: dopo lo scioglimento del 2011 dei Sonic Youth – la band incredibilmente influente che ha fondato e in cui cantava e suonava il basso – ha pubblicato due album di rock d’avanguardia improvvisato con il nome Body/Head, ha scritto l’apprezzata biografia Girl in a Band, è fiorita come artista visiva e si è trasferita a Los Angeles dopo quarant’anni nella East Coast. «Mi manca la gente di quelle parti», dice di Northampton, Massachusetts, l’ultima città in cui ha vissuto con Thurston Moore, suo partner musicale nei Sonic Youth e marito dal 1984 al 2011.

Il suo nuovo album, intitolato No Home Record, è chiaramente figlio di Los Angeles. Parla della car culture della città e dei Fleetwood Mac, ed è pervaso da concetti tipicamente californiani come la caducità delle cose, la duttilità culturale e la mercificazione della bellezza. «Ho sempre ragionato sulla pop culture grazie ad Andy Warhol», dice. «Ha rappresentato una grande influenza, ovviamente».

Gordon esplora temi su cui lavora dall’inizio della sua carriera, eppure il processo di scrittura di No Home Record è stato diverso dal passato: invece di comporre le canzoni in tempo reale con una band, Gordon ha lavorato con una serie di produttori, cantando e suonando la chitarra su basi ritmiche pre-confezionate. Il risultato è una collezione di canzoni toste e allo stesso tempo sognanti. No Home Record è un album lancinante e pensoso, che evoca musica che va dal rap newyorkese anni ’80 fino all’elettronica sperimentale e al noise dei Sonic Youth. Abbiamo incontrato Gordon negli uffici di Soho della sua etichetta Matador per parlare del nuovo album, delle sue influenze e della storia di una delle figure più riverite del rock.

No Home Record è tecnicamente il tuo debutto da solista. Perché è uscito solo ora?
È davvero capitato per caso. Circa un anno e mezzo fa, ho incontrato il produttore Justin Raisen, che mi ha chiesto se volessi cantare nel progetto a cui stava lavorando. Poi mi ha mandato materiale su cui sentivo di poter lavorare – ma volevo scrivere io i testi. Il risultato era buono, lui ha aggiunto una batteria e un basso e mi ha rimandato tutto. Ero molto sorpresa. Era fico, e l’abbiamo pubblicato (parla del singolo Murdered Out, nda). Pensavo fosse un modo interessante di lavorare, quasi un collage collaborativo. E mi è sempre piaciuto scrivere di Los Angeles. I testi sono figli delle mie corse per la città, mi guardavo in giro e cercavo idee per nuovo materiale. L.A. è un posto così transitorio. È sempre stata così, e ora lo sembra di più per i senzatetto.

La transitorietà sembra il tema centrale dell’album. Si intitola No Home Record e c’è una canzone su Airbnb, che definisci “l’ideale americano”.
Sono sempre stata affascinata dai copy pubblicitari, e guardavo spesso il sito di Airbnb. Ero affascinata da come tutto fosse al suo posto, e alcuni dei quadri appesi nelle stanze sono davvero buoni! L’arte non è mai stata così commerciale, e gli interior designer sono sempre più sofisticati. Oggi può capitare di trovare quadri molto belli nelle lobby di una grande azienda, magari abbinati a una fontana. Mi sembra che la cultura stia sempre più influenzando i nostri stati d’animo. Sembra che non ci siano più limiti, tutto può essere sponsorizzato.

Hai mai avuto una brutta esperienza con Airbnb?
Non ne ho visitati molti, di solito mi limito a guardarli online. Ma ho sentito di gente che ha avuto brutte esperienze, pensi di andare in un Airbnb a tema David Lynch, magari molto spazioso, e poi scopri che è poco più di un corridoio. Come fai a vivere la tua realtà in un posto che sembra idealizzato?

Sei tornata a Los Angeles dopo aver vissuto per decenni nella East Coast. Ti senti a casa?
In un certo senso, sì. Vivo in una parte molto diversa della città rispetto a quella in cui sono cresciuta, quindi non mi sembra tanto di stare a L.A., è divertente.

Cosa ti piace e cosa non sopporti della città?
Ho problemi con le stesse cose che non mi piacevano quando ho vissuto qui la prima volta; non mi piace l’aspetto più luminoso e hollywoodiano. Non mi piaceva che tutto girasse attorno al denaro. Ma è facile evitare quell’ambiente. E insomma, anche a New York gira tutto attorno al denaro. Non ne ero consapevole perché per molto tempo non ne ho avuto affatto. Ho sempre pensato che durante la recessione, quando tutto ha iniziato a deteriorarsi, L.A. sia diventata più pittoresca.

Il titolo dell’album viene da un film di Chantal Akerman che racconta come fosse difficile essere una donna nella New York degli anni ’70, un posto molto pericoloso. Pensi che i giovani abbiano la vita facile, oggi, rispetto a quel periodo?
Credo che i ventenni abbiano difficoltà a prescindere dalla generazione a cui appartengono. Finito il college sono travolti dalle aspettative, come se dopo gli studi sia scontato avere una vita semplice. Ma non so, mi sembra che tutti si sentano a rischio. Tutti i ragazzi che crescono ora… che futuro avranno? Il cambiamento climatico. Ma so cosa intendi, parli della democratizzazione della coolness. Mi sentivo così all’inizio degli anni ’80, tutti vestivano di nero e tutti sembravano fichi. Adesso, soprattutto a causa di internet, non c’è la stessa urgenza di trasferirsi a New York o Los Angeles.

Pensi che gli ultimi dieci anni della tua vita siano stati liberatori?
Certo. Non pensavo che avrei scritto una biografia, ma farlo ha acceso nuovo interesse verso di me.

Sembra che il libro sia stato scritto per smentire chi ti ha sempre definita “distaccata”. È così?
Non proprio. Non mi dispiace essere distaccata, ma non sopportavo chi mi definiva “fredda”. La gente proietta cose su di te – è già successo con Yoko. Io pensavo che, nel contesto di una band, non fosse il caso di mettermi a nudo in un’intervista con un magazine musicale. Mi tenevo certe cose per me. Non voglio paragonarmi a Dylan, ma quando gli uomini sono distaccati nessuno li definisce “freddi”. Dicono che sono fichi.

Recentemente hai esposto alcune opere create a partire dai cartelloni di manifestazioni politiche, con tanto di hashtag come #resist e #PussyGrabsBack. Cosa ti ha ispirato?
L’elezione di Donald Trump. Mi hanno ispirato le proteste, e l’idea che alcune cose non spariranno mai. Stiamo ancora parlando di aborto, di donne che chiedono di avere controllo del proprio corpo. È una follia.

A proposito di resistenza: siamo tutti risucchiati dal vortice Trump. Che effetto hanno avuto su di te gli ultimi anni?
È deprimente. Seguo le news più di quanto dovrei, credo.

Cosa fai per non pensarci?
Cerco di non ascoltare.

Ci sono giovani artisti e musicisti che ti ispirano?
Elaine Kahn, una delle mie amiche, fa la poetessa. È politica senza alzare la voce, è individualista. Poi c’è mia figlia e la sua generazione; ha raccolto denaro per il Brooklyn Cash Bail Bond Fund. È una cosa locale. Quando le organizzazioni diventano troppo grandi è difficile che il denaro finisca dove deve finire.

Hai scritto che ti sentivi come un genitore surrogato dei tuoi fan. Ne eri consapevole, all’epoca? Ti pesava?
Non mi sentivo a mio agio con questa cosa, perché non mi piacciono le etichette. Credo che mettano fine alla tua personalità e a quello che puoi essere; non mi piace essere definita “un’icona” o cose del genere.

“La madrina del grunge”.
È ridicolo.

Qual è la definizione più stupida che hai sentito?
Forse è proprio “la madrina del grunge”. Prima di tutto, non eravamo una grunge band. Eravamo amici di alcune band grunge. Non lo so. Nessuna donna vuole essere chiamata “signora” e cose del genere.

Ti hanno spesso definita come una persona talmente cool da intimidire il prossimo. Hai mai incontrato qualcuno che ha intimidito te?
Non proprio. Ho incontrato Stevie Nicks alla cerimonia della Rock and Roll Hall of Fame per i Nirvana. Era così umana. Si era slogata la caviglia, e mi ha fatto vedere i sandali con cui avrebbe dovuto suonare. Erano un po’ tristi, e li ha coperti col vestito. Non so, guardare i piedi di una persona la fa sembrare più umana.

Lei è uno dei tuoi eroi?
Non userei la parola “eroe”. Janis Joplin e Joni Mitchell sono più vicini a quell’ideale. Ascoltando Joni pensavo davvero che stesse mettendo a nudo la sua anima.

Suonerai canzoni dei Sonic Youth in tour?
Ehm, no.

C’è una possibilità che la band torni a suonare o registrare?
Insomma, c’è sempre una possibilità.

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