Ketama126: il talento di Roma | Rolling Stone Italia
Cover Story

Ketama126
Il talento di Roma

Ha 33 anni, «l’età in cui cresci o muori». Per non morire ha mollato la trap e ha fatto un disco romanissimo e «contro la modernità», con versioni contemporanee degli stornelli, serenate, riflessioni esistenziali, scorribande dentro e fuori Trastevere. La canzone romana non s’insegna, ce l’hai oppure no. Lui ce l’ha

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Total look Hugo Boss. Occhiali Borsalino

«Negli ultimi anni ho viaggiato tanto e mi sono reso conto che la musica italiana nel mondo è conosciutissima. Mi sono detto: perché dobbiamo imitare roba che non riusciremo mai a rifare a quel livello? Ci invidiano il bel canto, le melodie, la musica popolare, le canzoni degli anni ’70. Vai in un Paese africano e ti dicono: “Italiano? Toto Cutugno, Al Bano”. Noi invece? “Al Bano è bollito”. Magari avessi io la carriera di Al Bano. E sono convinto pure che se un americano viene qua e sente il trapper del momento e poi la roba mia, alla fine vuole la roba mia. Dice: “Cazzo questa è roba italiana, solo voi la potete fare, che bomba”. Come quando vado in Pakistan e sento quelli che cantano in arabo e dico: cazzo che bomba, vorrei troppo saperlo fare. Ma non lo saprò mai fare e impazzisco, vorrei fare quella cosa là perché secondo me è paradossalmente più internazionale».

Il freestyle di Ketama (che in Pakistan c’è stato per davvero) scende improvviso alle 7 di sera dall’hotel in cima alla scalinata di piazza di Spagna, dove di solito – ci dicono – alloggia Russell Crowe e dove probabilmente non torneremo mai più. Chi lo ferma? La nostalgia per la canzone italiana che abbiamo schifato, semmai recuperato con tutte le pinze del trash e del camp, amato segretamente come un piacere colpevole, proprio come Pasolini amava Claudio Villa e i social amano Sanremo e Tutta l’Italia, qui fa una doppia giravolta. Il trapper pulcino nero adesso dice di essere cambiato, come certi gaglioffi da bar di Califano che dentro non cambiano mai. Dopo la festa messicana de La caciara, raddoppiata dai califanismi di 33, adesso c’è un album intero di lune, canottiere, serenate e scorribande dentro e fuori Trastevere, luogo dell’anima (de li mortacci) oltre la Ztl. Al collo Ketama ha l’incredibile ciondolo di Calimero tempestato di pietre (forse) preziose, il suo spirito guida.

La canzone romana è da sempre un’invenzione nostalgica, un canovaccio dove tutto è esagerato, teatrale, come i titoli dei vecchi giornali. Monologhi sui fattacci di coltello, serenate a Nina, forse la stessa Nina del barcarolo che poi si butterà nel fiume, l’acqua scura del Tevere, il traffico, la Tangenziale e il Grande Raccordo Anulare, le mangiate e le bevute pantagrueliche come sogno felliniano, i magnaccia e i magnaccioni, Pasolini al Mandrione, lo spleen da bar, il Cupolone di Venditti, Lella di Lando Fiorini, la nostra grande murder ballad, la periferia di Amore tossico. Fino agli ultimi epigoni, Achille Lauro che rifà Renato Zero che canta Venditti, Tony Effe e la sua capezza item fondamentale di tanta romanità, Elodie che sentirete cantare la pazzesca funebre serenata Sinnò me moro di fronte a Rebibbia nel nuovo film di Mario Martone. La canzone romana non esiste e non si insegna, o ce l’hai oppure no. Ketama ce l’ha, fin da quando ha cominciato.

Di Roma ci godiamo il panorama. Il centro è dei turisti, le nostre case due puntini da qualche parte nel crepuscolo lontano. Saranno le birre da 66, le stesse mitizzate dalla Lovegang al bar San Calisto a Trastevere, sarà la voglia di presentare un’altra faccia di sé, più adulta. Esce 33, il nuovo album, gli anni de Cristo come si dice qua, e lui spiega con orgoglio di aver fatto un disco tutto suonato: «Ero abituato a fare da solo. Ho sempre suonato il basso da ragazzino, la chitarra non così bene da potermi accompagnare su un disco. Allora ho lavorato con due autori, Edwyn Roberts e Andrea Bonomo. Edwyn è stato il mio chitarrista, Andrea mi ha dato una mano con le parole, soprattutto con le seconde strofe, dove mi blocco sempre».

Senti il bisogno di sottolineare che il disco è scritto con degli autori – Roberts e Bonomo hanno un impressionante curriculum pop sanremese, imbarcati ad esempio nell’ultimo megatormentone Tutta l’Italia – e soprattuto suonato strumenti veri. Hai perso fiducia nella trap? Se ne parla male ovunque, ormai.
Mi fa ridere quando sento i discorsi sull’Auto-Tune, sembra un flashback, sentivo dire le stesse cose dieci anni fa. Quando ho iniziato la trap era un genere in evoluzione, ogni giorno usciva roba nuova, ora è diventato un canone, una formula che si ripete. A me piaceva la spontaneità, la freschezza. Mettici anche la vita che faccio adesso, sono molto “ortodosso”. Se facevo trap è perché vivevo quella vita là, ora grazie al cielo, anzi grazie alla musica, è cambiato tutto.

L’ultima canzone dell’album è Fiori trasteverini: “Semo romani trasteverini / semo romani senza quatrini”. Un classicone dove Roma si vende e si svende ai turisti. L’hai aggiornata ai tempi del Giubileo e la fai con la cassa in quattro, stile techno da festa di piazza.
Quella l’ho presa da Gabriella Ferri. Ma l’hanno fatta anche Alvaro Amici e Lando Fiorini. In queste cose più di tutti mi piace Fiorini, le canzoni romane più belle sono le sue, a cominciare da Lella. Gli arrangiamenti, l’approccio cabarettistico: lui aveva un locale a Trastevere, il Puff, ci teneva a stare qua sul territorio, diciamo.

Hai raccontato una volta che in casa tuo padre sentiva il jazz, tua mamma invece la new wave inglese. Lando Fiorini da dove esce fuori?
Quand’ero piccolo a Trastevere c’era ancora la Festa de noantri e si sentiva quella roba, anche nei ristoranti e per strada. Normale che da ragazzino ascoltavo solo musica straniera, a parte Bennato forse. Invece col tempo, una volta ascoltate bene… si vede che quelle canzoni mi riportano all’infanzia.

La Trastevere sparita.
Ma quello lo dicevano già quarant’anni fa Alvaro Amici e Lando Fiorini, che Roma era sparita. Ci credo, le ultime vere glorie della città sono state 2000 anni fa. Invece, siccome viviamo in un’epoca dove tutto è digitale e complicato, io ho capito che le cose che mi fanno stare bene sono quelle più semplici, cioè veramente il pranzo al sole col vino e quattro amici, che poi se ci fai caso è la morale di ogni stornello.

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Total look Vivienne Westwood. Cappello Borsalino. Scarpe Sebago

Cito ancora da Fiori trasteverini: “Ogni tanto ’na magnata e ’na bevuta / E tutto quanto er resto vie’ da sé”. Nel video della Caciara, girato da Trash Secco che è un regista molto legato all’immaginario romano, si vede il bar San Calisto a Trastevere. Che ne è della mitologia di zona?
È l’unico bar del quartiere rimasto com’era. Ha ancora il gelato a un euro, ci stanno i vecchi ai tavolini. Resistono, si sono salvati e solo per merito loro, non c’è romanticismo. Anche perché è rimasto solo quello.

So che adesso vivi a Monteverde. Una volta i cantanti di Trastevere salivano il viale e andavano a vivere a Monteverde, nelle case nuove. Claudio Villa, Lando Fiorini…
Adesso è il contrario, quando fai i soldi vorresti andare a vivere a Trastevere, ma tanto non avrai mai tutti i soldi che ci vogliono. La mia famiglia è di Latina, io sono nato lì, i miei nonni erano contadini. Quando i miei genitori sono venuti a Roma avevo 3 anni, ho fatto le scuole a Trastevere e qui è nata mia sorella.

Sei riuscito a sfiorare qualcosa, da bambino, del vecchio quartiere?
Più che altro me lo hanno raccontato. La mia scuola era in piazza della Scala, al centro di Trastevere e qualcosa forse ho visto, i rimasugli di quello che era prima.

Non è la prima volta che incontri la canzone romana. Tempo fa hai cantato una strofa in Cos’è l’amore?, una canzone con la voce di Califano nel ritornello. Lo hai mai incontrato?
Quello è stato un onore, me l’aveva proposto Don Joe che aveva questa registrazione inedita, ma Califano non l’ho mai conosciuto. La generazione di musicisti prima della mia era quella che andava a casa da lui, che abitava fuori Roma, ad ascoltare le sue storie. È un artista tanto pesante a volte, ho difficoltà ad ascoltarlo insieme ad altra gente perché le sue canzoni sono veramente tristi. E mai ostentate.

C’è un ritornello sulla solitudine in 33, quello è molto Califano: “Quando te ne vai / resto con la mia solitudine”.
“Esco solo per scendere il cane, ci ho fatto l’abitudine…”. Forse è la mia paura più grande. Io vivo da solo. Ci sto anche bene, ma è quella la mia paura. Se penso a un futuro mio da vecchio non vorrei mai stare da solo.

Scusa la battuta, proprio non ti vuole nessuno adesso?
Che vuoi fa’… è difficile. Califano diceva: «Si scrive solitudine, ma si legge libertà». Chi ha dei figli almeno ha lasciato qualcosa, ma della generazione nostra pare non se ne preoccupi nessuno. Per me è un’ossessione, è come se sentissi che il mio destino non sarà quello e non lo voglio accettare. Infatti il ritornello di 33 dice: “Se finisco in croce è giusto / come la mia solitudine”. Veramente capisco Gesù Cristo, non nel senso che devo salva’ il mondo, ma perché lui sapeva che il suo destino era quello di soffrire e stare solo mentre avrebbe voluto avere una vita normale, sai, come nel film di Scorsese… Io sento che il mio destino non è di avere una vita normale… Ho tanti amici, ma l’idea di invecchiare da solo è la mia più grande paura e ossessione.

Accidenti. È ancora presto, dai.
Vedo lontano.

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Total look MSGM. Sneakers Autry

Lasciamo stare per un attimo Gabriella Ferri e Lando Fiorini. Ti ho sentito parlare di Bad Bunny, qualche volta. E c’è tutta una genìa di trapper messicani o di origine messicana come Peso Pluma, Iván Cornejo, gli Eslabón Armado che fanno trap-corrido. In fondo non sono così lontani da quello che vuoi fare tu adesso.
Bad Bunny, certo. Peso Pluma è stato quello che forse mi ha fatto partire la scintilla: allora si può fare, ho detto. Sto in fissa con lui. Sai, un po’ come all’epoca di Rehab Lil Pip mi aveva fatto venire l’idea di unire il rock alla trap – io ci pensavo da un po’, ma non sapevo come farlo funzionare – lo stesso è con Peso Pluma. Con il corrido che fino a dieci anni fa conoscevano solo in Messico è andato primo in classifica. Non che questa sia la mia ambizione, ma vuol dire che la gente ha voglia di sentire quella roba, tornare a una tradizione, riscoprire la musica di ciascun popolo, di ciascun posto, ché quello è il bello. Brutto invece è fare musica sempre e solo ispirata all’America. Bruttissimo quando viaggi, vai dall’altra parte del mondo e senti le stesse cose di qui.



D’accordo, però è anche vero che con il rock e l’hip hop ci siamo capiti un po’ tutti, le culture popolari si sono mischiate a quelle globali, questo fa parte della modernità.
Quasi quasi penso che se non fosse così ci si potrebbe capire di più. Se in un posto lontano sento roba che mi incuriosisce ho più piacere a scoprire quella cultura. Il mio disco è proprio una ribellione alla modernità. Non mi interessa parlare di politica, non in maniera esplicita, però secondo me già fare un disco totalmente suonato che si rifà a una tradizione è una roba contro la modernità.

Bad Bunny è uno molto impegnato in politica, contro il governo della sua Porto Rico e contro gli Stati Uniti.
Evidentemente s’è risvegliata da una certa consapevolezza nel mondo. Lui veniva dal reggaeton e dalla trap, ha sempre fatto quello. Ha preso vecchi musicisti, è riuscito a fondere perfettamente il moderno con la tradizione. Possiamo dire che la musica bella non ha tempo, non appartiene a nessuna età? Ci sono pezzi del suo disco nuovo che potrebbero essere stati scritti in qualunque epoca.

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Camicia e pantaloni Sandro Paris. Canottiera Tommy Hilfiger. Scarpe Timberland. Cappello Borsalino



In fondo Bad Bunny o Peso Pluma sono contemporanei e tali restano anche se fanno il corrido o la salsa. La cosa interessante è quella. Per me quello che tu hai scritto fin qua ha sempre fatto parte della tradizione della canzone romana. Tu, il tuo giro, la Lovegang, Franchino e gli altri.
Mi fa piacere che lo dici. Abbiamo sempre cercato di essere originali, prendere cose dalla nostra quotidianità ci è venuto sempre naturale. Diciamo che questo disco è stata una cosa più ragionata, allora.

Davvero penso che hai sempre scritto canzoni romane, fin da quando cantavi “le 4 e 20 a via dei Quattro Venti” o qualcosa del genere, dieci anni fa.
È un’idea che ho sempre avuto, un ideale diciamo. Per esempio una delle prime canzoni trap che fatto si chiamava Nina ed era ispirata palesemente agli stornelli. Nina era il nome che nelle canzoni romane si dava a qualunque pischella.

“Affacciate Nina”… E tu invece “Nina scappiamo c’è la polizia…”.
Sì, ma pure là c’era un ritmo un po’ terzinato, stile stornello, una melodia un po’ canticchiata.



Nel disco c’è un pezzo che si chiama Alla frontiera: “Alla frontiera c’arriviamo con la Luna / prega la Madonna che ci faccia la fortuna”. È proprio una cumbia elettronica, da narcotrafficanti. Dentro c’è anche un po’ di Manu Chao o sbaglio? Lui è uno che ha fatto la tua stessa battaglia. Aveva il suo baretto a Barcellona, un po’ come tu hai il San Calisto a Trastevere.
Manu Chao, sì certo. Ha sempre spinto la musica locale, mischiandola, rendendola attuale. Lui era un altro che quando ero ragazzino aveva un successo pazzesco in Italia, si sentiva ovunque, ha influenzato più di una generazione. Infatti sta tornando. Non è la prima volta: DrefGold aveva fatto un pezzo campionando Bongo Bong.

E adesso c’è anche il duetto con Alfa, A me mi piace. Sospendiamo il giudizio, speriamo che gli abbia pagato una bella vacanza. Ma invece tu che ti aspetti? Pensi di riuscire ancora a galleggiare, come dire, in questo mondo? Hai detto che hai fatto un disco contro la modernità, saprai mantenere un po’ di estraneità alle cose? 

È strano, sembra che tutti quelli della mia generazione ancora ci sguazzino in questo mondo. Ma io so per certo che non è così. Li conosco. Perché fai una cosa che non ti fa stare bene? La trap ok, la tecnologia ti aiuta, però io ho sempre voluto fare musica. Ho fatto un tour coi musicisti e ho capito che quello mi fa stare bene, potrei continuare fino a quando sarò vecchio. Non mi ci vedo a fare la trap da vecchio, già adesso mi sento a disagio ad andare col dj in mezzo ai ragazzini di 15 anni… Certo, mai avrei pensato di fare gli stornelli…

Beh, non sono esattamente stornelli. Ogni nuova generazione a Roma fa i conti con le tradizioni e le mitologie della città: le canzoni di Franco Califano o Gabriella Ferri, le storie di Romanzo criminale, no?
Io questa cosa l’ho capita viaggiando. Se rimanevo qua a Roma oppure a Milano, stavo a fa’ la trap come tutti gli altri. Proprio perché io sono curioso verso tutte le altre culture, musicali e non, voglio esprimere la mia cultura al massimo, e se vado all’estero ascoltare quello che fanno loro e farti sentire la mia cosa, la nostra cosa.

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Total look Vivienne Westwood. Cappello Borsalino. Scarpe Sebago

Ti ho sentito raccontare il tuo viaggio in Pakistan in cerca di pietre preziose che sono la tua passione. Mica male come storia. Mi chiedo se ti incuriosice anche quello che ascoltano i bangla nel negozietto sotto casa o i maranza in piazza che vendono il fumo

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Certo, un paio di pezzi dal bangla me li sono pure salvati, di solito è pop indiano. I musulmani ascoltano solo roba sacra, sennò ascoltano gli indiani. Invece i ragazzini di seconda generazione sono quelli che fanno la roba più interessante. A me piacciono Simba e Baby Gang proprio perché hanno una tradizione dietro, sono riusciti a creare qualcosa di nuovo che in Italia non c’era.

“C’è un tempo grande e un tempo piccolo” dici nell’intro dell’album citando il maestro Califano. E poi: “C’è un tempo per morire diceva qualcun altro (…) Ora è tempo di risorgere”. Me la sono segnata e tenuta per ultima. Cosa vuol dire?
È un periodo che sto attraversando. È una cosa mia, spero sia anche una cosa collettiva, me lo auguro molto. Penso solo che a 33 anni attraversi una fase di cambiamento…

E questo disco ti ha aiutato? Oppure è soltanto un modo per dire «ragazzi, sono un po’ confuso»?
In realtà non sono mai stato così lucido e quando uno vede le cose con troppa chiarezza è un problema, non si torna indietro. A 33 anni – non l’ho detto io – un uomo o si evolve o inizia a morire, è l’età in cui si perde la giovinezza, c’è chi ci riesce e chi inizia invece a morì. Questo si saprà col tempo.

Foto: Clara Novelli per Rolling Stone Italia. Camicia Roberto Collina. Pantaloni Sandro Paris. Scarpe Sebago. Cappello Borsalino

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Photographer: Clara Novelli
Art Direction: Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Talent Personal Stylist: Stefania Sciortino
Make-Up Artist: Lisa Odifreddi
Director/DOP: Riccardo Sergio
Video Production: Valentina De Rosa
Photographer Assistant: Andrea Biagioni
Stylist Assistant: Angelica Venturini
Location: Hassler Hotel, Roma

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