Keith Shocklee c’era e ti racconta come è nato l’hip hop | Rolling Stone Italia
Hip Hop 50

Keith Shocklee c’era e ti racconta come è nato l’hip hop

I ricordi del co-produttore dei Public Enemy: negli anni ’70 chi mette i dischi diventa dj e chi ci improvvisa sopra diventa MC. È la rivoluzione rap che parte dal basso e che cambia tutto

Keith Shocklee c’era e ti racconta come è nato l’hip hop

Keith Shocklee

Foto: Randy Shropshire/Getty Images

Keith Shocklee ha una conoscenza enciclopedica della storia dell’hip hop e la sfoggia in un’ora di chiacchierata allo Starchild Rooftop, che domina dall’alto Manhattan. Produttore leggendario, Shocklee era nel giro hip hop prima ancora che diventasse un movimento. È noto soprattutto per aver fatto parte della Bomb Squad, il team di produzione dei Public Enemy composto da sei persone: lui, il fratello Hank Shocklee, Eric “Vietnam” Sadler, Gary G-Wiz e Chuck D. Spiega che il loro sound caratteristico, influenzato in una certa misura di gruppi rock del Lower East Side di fine anni ’70, voleva essere un attacco diretto contro chi sminuiva l’hip hop definendolo rumore. «Ci dicevano che non facevamo vera musica. Mia madre diceva: “Cos’è questo rumore? Non è musica, è solo rumore”. Allora mio fratello ha detto: “Bene, se pensate che questa roba sia rumorosa, faremo musica rumorosa per davvero”».

Il loro muro di suono, creato sovrapponendo loop, breakbeat e altri campionamenti, era una diretta conseguenza dall’esperienza come dj fin dalla metà degli anni ’70. È stato Shocklee a contribuire a creare le basi per la critica sociale violentissima di Chuck D, ad esempio in Fight the Power, sostenendone la voce tonante con suoni incazzati e coinvolgenti che ne amplificavano il messaggio e la sua urgenza.

Oggi Keith Shocklee fa il dj in mezzo mondo e gestisce la Spectrum City Records. Siccome si avvicina il cinquantesimo anniversario della nascita dell’hip hop, gli abbiamo chiesto di condividere qualche perla di saggezza sull’evoluzione del genere.

Le jam al parco

«Da queste parti le jam si potevano fare solo d’estate, al parco, anche se non avevamo mica il permesso. L’hip hop è nato nel 1973, ma i dj andavano al parco già da prima. All’inizio era una cultura che ruotava intorno ai sound system, poi si è legata più ai dj. La cultura del sound system era a Brooklyn prima che nel Bronx. Non avevamo un genere definito per i dischi: suonavamo qualsiasi cosa andasse forte. Disco, funk, soul, tutto ciò che era hot e funky».

«Poi è arrivata la disco music. La cassa in quattro ha cominciato a diventare popolare verso la fine del ’75-’76, quando tutto il movimento si è convertito al “facciamo casino”. Nessuno aveva un’idea precisa o uno scopo. Nessuno capiva in cosa si stesse trasformando. Volevamo solo fare festa per le strade. Molti ragazzi di Brooklyn avevano impianti audio enormi, sembravano discoteche. C’erano condomini con un’area ricreativa o una zona aperta dove la gente organizzava le sue festicciole. Noi a Long Island avevamo i garage. Ed era divertente, amico».

La nascita del djing

«Ho iniziato a fare il dj quando manco esisteva il preascolto in cuffia, dovevi beccare tu quando abbassare un pezzo ed entrare con quello successivo. I giradischi degli anni ’60 e dei primi ’70 avevano la trasmissione a cinghia. La cinghia faceva un quarto di giro prima di arrivare ai 33 1/3 giri o ai 45, quindi, quando il pezzo partiva, doveva avere già raggiunto la velocità giusta. Si ascoltava il disco, senza cuffie, con l’orecchio vicino alla puntina. Poi si tornava indietro di un quarto di giro così la cinghia di trasmissione prendeva la giusta velocità: ci voleva un quarto di giro più o meno, a seconda della qualità del piatto. I dischi di disco music semplificavano il mix, perché il tempo era in quattro quarti e il ritmo era costante. Ma col jazz, il funk e il soul i tempi erano diversi e quindi era difficile mixarli».

«Tutti hanno una storia diversa su come sono arrivati a fare i dj a quei tempi, non c’era niente di tutto quello che abbiamo ora. Si compravano i dischi e poi c’era chi li suonava per la famiglia, ai barbecue dei genitori. “Ehi, metti tu i dischi perché sai cosa suonare, sai cosa ci piace”».

Il Bronx

«Il Bronx aveva una certa affinità con la cultura dei graffiti perché lì c’erano molti cantieri ferroviari e i b-boy che ballavano. Questa roba arriva dal Bronx. E l’idea di allungare la parte migliore o il breakdown di un pezzo è stata di Kool Herc. Lui, Flash e Bambaataa l’hanno perfezionata, sono loro i padrini».

«Non andavi nel Bronx se non eri di quelle parti. Qualcuno viveva a Long Island e aveva parenti lì. Mia madre viveva a Harlem, i suoi fratelli e le sue sorelle vivevano nel Bronx, quindi c’era un legame tra il Bronx, Harlem e Brooklyn. È stato quando la cultura hip hop ha iniziato a prendere forma che sono nate le crew rap e molte venivano dal Bronx. Tutti avevano un loro territorio, potevi dirti fortunato ad entrare in quello di qualcun altro senza che qualcuno attaccasse briga».

Grandmaster Flash e il quick mix

«Mio cugino mi diceva sempre: “Yo amico, c’è questo tizio che si chiama Kid Flash (il primo nome di Grandmaster Flash, ndr)”, perché mixava davvero velocemente. “Yo, ha 13 giradischi”. E io: “Nessuno mixa con 13 giradischi”. Ma la sua foga e il modo in cui Flash andava avanti e indietro con i dischi facevano davvero sembrare che ne usasse 13 giradischi. È lui l’inventore del quick mix».

I primi MC

«C’erano già degli MC prima di Keith Cowboy. Volendo, si può andare indietro fino a Frankie Crocker, Eddie OJ, Gary Bird: trasmettevano da una piccola stazione radio chiamata WWRL e improvvisavano al microfono. Si può risalire a personaggi come Wolfman Jack, un bianco che lo faceva. Alan Freed e tutti gli altri, negli anni ‘50, improvvisavano al microfono».

«MC sta per da Master of Ceremony. Alle premiazioni negli anni ’70 c’era il maestro di cerimonia. Già negli anni ’20 e ’30 c’era chi faceva qualcosa di simile. Erano un’altra cultura e un altro ambiente, ma i Nicholas Brothers facevano quasi la breakdance, anche se si trattava di un corpo di ballo di tip tap. Anche allora c’era gente che faceva i windmill».

«Alla fine degli anni ’70 i migliori venivano messi sotto contratto, poi negli anni ’80 la cosa è scoppiatra. Il primo disco rap che ho sentito è stato King Tim III (Personality Jock) della Fatback Band, ma allora nessuno usava il termine rapper. Intorno al ’76 la gente ha preso a farsi chiamare MC, per strada e alle feste. Flash ha attribuito il merito di questa cosa a Cowboy. DJ Hollywood lo faceva alle feste e anche ai party all’Apollo. Prima ancora c’erano Love Bug Starsky ed Eddie Cheever. Quei tizi facevano gli MC prima di diventare rapper. Nessuno voleva un rapper, volevi un MC per eccitare la gente».

«Quando io, Hank e Griff facevamo i dj non avevamo mai un mc, suonavamo e basta, però passavamo il microfono alle persone e le lasciavamo fare, all’improvviso il volume si abbassava e loro rappavano».

Gli esordi dei Public Enemy

«Chuck non voleva fare un disco. Ci sono voluti due anni prima che si convincesse. Io creavo dei beat per artisti locali e li passavamo alla radio. Chiedi a Chuck e ti dirà: “Yo amico, noi già all’inizio facevamo le cose che la gente fa adesso, come portare le drum machine, fare i dh set”. Ora è roba normale, ma nell’82 non lo era. La reazione tipica era: “Cos’è quell’affare lì?”. Era una batteria elettronica. “E cosa vuol dire batteria elettronica? Che ci volete fare?”. Avevamo la drum machine e le linee di basso, creavo dei beat e Chuck ci rappava sopra, dal vivo. Ecco cosa facevamo a Long Island».

L’innovazione nella musica

«Ci sono persone che non desiderano innovare, in campo musicale. Vogliono che resti tutto com’è. Io no, quando l’hip hop è arrivato e ha spazzato via la musica R&B e le band, noi ci consideravamo il nuovo che avanzava. Ora siamo più vecchi, stanno arrivando i giovani e la gente dice che non è vero hip hop. Anche a noi, allora, dicevano che non facevamo vera musica. Mia mamma diceva: “Non è musica, è rumore”. E allora mio fratello ha detto: “Bene, se pensate che questa roba sia rumorosa, faremo musica rumorosa per davvero”. Ecco perché i nostri dischi erano rumorosi, è perché la vecchia generazione diceva che facevamo solo casino. E lo diceva prima ancora che iniziassimo davvero a piazzare del rumore nella nostra roba».

L’influenza del rock sul rap

«Mio fratello è un genio quando si tratta di tirare fuori idee. Io lo seguo e basta. Avevamo un background rock e facevamo un programma per la stazione radio jazz, nei primi anni dell’hip hop, passando roba come i Twisted Sister o simile. Non ci conoscevamo, ma andavamo negli stessi negozi di musica. Poi all’inizio degli anni ’80 facendo la spola a Manhattan abbiamo frequentato i gruppi punk-rock. Era un momento in cui il punk e l’hip hop erano considerati come i figli bastardi della musica. Avevamo quel legame forte ed è lì che è iniziato tutto».

Da Rolling Stone US.

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