Keith Richards: «La musica non è un lavoro da cui puoi andare in pensione» | Rolling Stone Italia
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Keith Richards: «La musica non è un lavoro da cui puoi andare in pensione»

Il chitarrista parla della vita in quarantena, di ‘Goats Head Soup’, di come vuole festeggiare il 60° compleanno dei Rolling Stones e degli inediti che ha scritto con Mick Jagger: «Abbiamo cinque, sei o sette brani nuovi»

Keith Richards: «La musica non è un lavoro da cui puoi andare in pensione»

Keith Richards sul palco nel 2019

Foto: Chris Tuite/imageSPACE/MediaPunch/IPX/AP

In marzo, mentre la pandemia prendeva piede, Keith Richards ha chiamato Mick Jagger. Aveva un’idea: gli Stones dovevano sbrigarsi a pubblicare Living in a Ghost Town, una canzone che avevano registrato poco tempo prima per il loro nuovo album di inediti, il primo dal 2005. «Gli ho detto: se c’è un momento giusto per pubblicarla, è questo», ricorda il chitarrista. Jagger era d’accordo e ha scritto un nuovo testo. Al momento, il video viaggia sui 10 milioni di visualizzazioni su YouTube.

Scrivere nuova musica è uno dei modi con cui Richards si è tenuto impegnato durante la quarantena, che ha passato nella sua casa del Connecticut. «Ci siamo rintanati qui dentro, guardiamo crescere le piante del giardino», dice. Ha passato molto tempo lavorando alla riedizione di Goats Head Soup, il seguito del 1973 di Exile on Main Street che è appena stato ristampato in un box set. Dopo il tour di Exile, la band si è ritrovata a Kingston, in Giamaica, per registrare una serie di brani con un suono diverso da tutto quello che avevano pubblicato fino a quel momento. All’epoca la critica non apprezzò granché il disco e gli Stones hanno eliminato molte di quelle canzoni dai loro set dal vivo. Ma una volta pubblicata la ristampa – che comprende 10 bonus track tra jam in studio a inediti come Scarlet con Jimmy Page –, Richards si è ritrovato a pensarla diversamente. «Mi sembra che abbiamo fatto un gran lavoro», dice.

In questa intervista il chitarrista parla della sua vita in quarantena, ricorda l’era di Goats Head Soup e racconta come spera di celebrare il 60° anniversario del gruppo.

The Rolling Stones - Living In A Ghost Town

Come hai passato la quarantena? 

Sono fortunato perché ho spazio per uscire. E sono riuscito a finire Ghost Town. Sto cercando di capire cosa fare con i pezzi che abbiamo registrato prima della pandemia. Magari possiamo farci qualcosa di diverso, capisci cosa intendo? 

Ghost Town era la canzone perfetta per quel momento. 
Sì, era tutta una questione di tempismo. Io e Mick l’avevamo nel cassetto e non pensavamo che con tutto quello che stava succedendo… ho parlato con Mick a marzo. Gli ho detto: se c’è un momento giusto per pubblicarla, è questo (ride).

C’è un tizio che insegna a suonare i tuoi riff su YouTube. Ha pubblicato una lezione su Living in a Ghost Town e ha spiegato il modo particolare in cui usate gli accordi, soprattutto nel bridge. È interessante vedere come la vostra musica continui a evolversi…
Sì, è un bel pezzo da suonare. Insomma, guidare per la città e vedere le strade vuote… è stato facile fare il collegamento: ehi, dovremmo pubblicare quella Ghost Town!

Come suonano gli altri pezzi a cui stai lavorando? 

Non saprei, è difficile descrivere la musica. Abbiamo cinque, sei o sette brani che abbiamo messo insieme lentamente. Al momento, se questa situazione dovesse continuare, penso che forse dovremmo pubblicarle in un modo diverso.

Ti manca suonare dal vivo? 

Beh, sì. Anche perché ora dovrei essere in tour. Mi sono sentito, come dire, improvvisamente superfluo come, credo, milioni di altre persone. E come tutti spero che le cose miglioreranno l’anno prossimo. Altrimenti non ci sarà modo di suonare per nessuno, no?

L’ultimo tour mi è piaciuto davvero molto, è stato un bel viaggio. È stata una gran delusione a marzo, quando la situazione è peggiorata. Una settimana dopo hanno iniziato a dirci che avrebbero cancellato qualche data. A quel punto ho pensato che la pandemia era troppo grande per noi. Lo è per tutti, non credi?

Che cosa ti auguri succeda?
Come tutti, spero che arrivi un vaccino il prima possibile. Anche un cambio di regime non sarebbe male (ride). Ma lasciamo stare.

Ai vostri concerti la gente si chiede perché continuiate a suonare dal vivo. «Hanno tutto quel che vogliono», dicono. Che cosa guadagnate dai concerti? 

Non lo so, forse è abitudine. Insomma, è quello che sappiamo fare. E poi c’è questa cosa tra di noi: chi sarà il primo a mollare? Insomma, o scendi o ti buttano giù. Funziona così. Non riesco a immaginare di fare qualcosa d’altro, non è un lavoro da cui puoi ritirarti, capisci?

E l’adrenalina, l’amore che sentite lassù dev’essere forte.
Sì e spero che tutti possano tornare a sentirci l’anno prossimo, senza mascherine! Spero che non ce ne sarà più bisogno. Altrimenti… io indosso la mia anche a letto!

La metti spesso? 

Se esco, sì. Ma non è così frequente. Ogni tanto andiamo a fare un giro e ci fermiamo a bere un caffè lungo la strada. Sì, sono un uomo mascherato. Insomma, bisogna farlo. Non mi importa se è brutta da vedere o cose del genere. È ridicolo. Siamo nel mondo di Alice nel paese delle meraviglie.

Volevo chiederti di Goats Head Soup… 

È strano riascoltare qualcosa che non sentivi nella sua interezza da tanto tempo. È un disco molto interessante. Ricordo ovviamente le registrazioni in Giamaica, una cosa memorabile soprattutto per quell’anno. Insomma, era il 1973, l’anno in cui Marley e i Wailers hanno pubblicato Catch a Fire. È anche l’anno della colonna sonora di The Harder They Come (Più duro è, più forte cade). Ricordo bene il periodo in Giamaica. C’era una sensazione particolare nell’aria, come se quel popolo stesse per lasciare il segno. Era fantastico.

The Harder They Come ha fatto conoscere il reggae a un sacco di gente. È un modo fantastico per iniziare.
Esatto, sì, è un’introduzione fantastica a tutto il genere. E si sentiva nell’aria, in Giamaica. Almeno per me è stato così. Dopo le session sono rimasto per tre mesi. È così che ho incontrato i ragazzi che sono finiti nei Wingless Angels (nel 1997). È diventata la mia seconda casa. Ma all’epoca, quando stavamo registrando, eravamo concentrati solo sulle session. Lavoravamo come matti. Da mezzanotte alle 10 di mattina. Mentre facevamo il disco, non c’era tanto tempo per vivere quel che succedeva in Giamaica. Solo quando abbiamo finito il disco e mi sono trasferito a Ocho Rios ho capito che stava succedendo qualcosa di importante.

Come vi è venuta l’idea di partire per la Giamaica? Ci sono un sacco di storie, dicono che non riuscivate a entrare in altri Paesi. È vero o è una leggenda? 

È vero. Era uno dei pochi posti che ci avrebbe accettato, all’epoca. Stiamo parlando del periodo in cui è esploso Exile. Registrare quel disco è stato… come lasciare l’Inghilterra. Ci siamo tutti trasferiti nel mio seminterrato (a Nellcôte, in Francia) e abbiamo continuato a lavorare. Vivevamo ancora tutti assieme, sai? Quando abbiamo registrato Goats Head erano passati un paio d’anni. Mick aveva sposato Bianca e… in altre parole, eravamo esiliati. Charlie viveva in Francia. Eravamo sparsi dappertutto. Io e Mick abbiamo dovuto imparare a scrivere a distanza. Prima eravamo vicini di camera in albergo o a un isolato di distanza. Era il mio primo tentativo di scrittura a distanza, diciamo così.

Questa cosa ha cambiato la qualità dei pezzi? 

Beh, dovresti dirmelo tu. Mi sembra che abbiamo fatto un gran lavoro. Ho ascoltato il disco di recente e, insomma, Dancing with Mr. D. è un bel pezzo funk. Anche Heartbreaker. Ricordo, ovviamente, che c’era Billy Preston, così come Nicky Hopkins e Ian Stewart. C’era questa tendenza al funk di cui non mi sono reso conto fino a quando non l’ho riascoltato di recente.

È un suono molto fico, tra Can You Hear the Music e Heartbreaker. Stavate esplorando tante direzioni diverse…

Sì. Era il 1973: noi siamo quello che ascoltiamo, e un sacco di musica funk si era infiltrata. I musicisti non vivono nel vuoto. Charlie Watts era affascinato dai ritmi funk, è sempre stato così, già dai tempi di James Brown. Per noi è stato un passaggio naturale.

Keith Richards durante le session di ‘Goats Head Soup’. Foto: Koh Hasebe/Shinko Music/Getty Images

Prima della Giamaica sei andato in Svizzera per scrivere con Mick. È lì che è nata Angie…

Sì. Ricordo di aver scritto Angie in bagno. All’epoca Mick era dall’altra parte del mondo, quindi ci siamo incontrati qualche settimana prima della Giamaica per trasformare le piccole cose che avevamo scritto in canzoni coerenti. Mick aveva Silver Train e Starfucker, mentre io lavoravo a gran parte del resto. Era un modo diverso di scrivere, ci dicevamo: “ehi, ho questa cosa ma manca il bridge”. “Oh, ho proprio il bridge che cercavi!”. Abbiamo perfezionato tutto strada facendo.

Sapevi già che Angie sarebbe stato un singolo speciale? 

Non ricordo perché abbiamo scelto quella canzone. Ero molto contento di Angie, perché portava gli Stones nel mercato dei singoli dell’epoca. Ci dava un sapore nuovo, ci portava in un posto diverso. In un certo senso mi ha ricordato l’uscita di Little Red Rooster nel 1964. All’epoca fu una sorpresa. Ma come ti dicevo, non ricordo come mai Angie sia diventata un singolo.

Ti ricordi quando ti è venuta in mente?
Sì, in un momento di pura noia. Mia figlia Angie era nata da poco. La cosa strana è che all’epoca non la chiamavamo Angie. Quel nome gliel’hanno dato le suore cattoliche, perché è nata in un ospedale cattolico. “Dovete scegliere un nome da questa lista”, ci avevano detto. Anita la chiamava tipo Dandelion, in quel periodo andava così. Stranamente, il nome Angie mi è rimasto in testa. Ed è anche il nome che mia figlia ha scelto di usare.

Di recente Dylan ha detto che è una delle sue canzoni preferite degli Stones. 

Davvero? Non lo sapevo. Dio benedica il vecchio Bob. Amo il suo ultimo album. Ha fatto un lavoro fantastico in Rough & Rowdy Ways.

Quando ho sentito l’album mi sei venuto in mente, sopratutto in Goodbye Jimmy Reed.
Sì, dio lo benedica.

Tornando a Goats Head Soup, Heartbreaker è un’incisione incredibile, soprattutto per le chitarre. Ti aggrediscono.
Sì, è un bel riff. Ero felice di averlo scritto. Ce l’avevo in testa ed è venuto fuori in studio con Billy Preston e Charlie. Molte di quelle canzoni non erano finite prima di arrivare in studio. Alcune le avevamo scritte da un’ora.

Ricordi di aver scritto Coming Down Again? 

(Ride) Direi che il titolo dice già tutto.

E cosa mi dici di Scarlet, il pezzo con Jimmy Page? 

Quella è difficile da ricordare. Jimmy è passato a salutarci in diverse session nel corso degli anni. In quanto a Scarlet, forse siamo andati a trovare i Led Zeppelin dopo una registrazione… di sicuro c’erano Jimmy e Rick Grech. Credo che la nostra session fosse dopo la loro, e sono rimasti in giro (ride).

Una volta hai detto, ripensando agli anni ’70, che c’erano troppi musicisti sui vostri dischi e questo aveva compromesso il sound. Hai cambiato idea? 

Potrei averlo detto. Forse ero incazzato per una o due canzoni. Ma no, direi che non sono più così convinto. Soprattutto dopo aver riascoltato questo disco: tra i turnisti ci sono i migliori del mondo, non credi?

Mick ha detto che sta lavorando a un documentario. Anche gli Stones sono al lavoro su qualcosa del genere? 

Non ne sono sicuro. Prima della pandemia, alcune cose erano in lavorazione. Ora non so, è il panico!

Nel 2022 gli Stones compiranno 60 anni. Avete intenzione di festeggiare? 

Spero di sì, e spero di farlo con più gente possibile. Pensiamo positivo, dobbiamo farlo.



Quando tornerete sul palco sarà un momento speciale.
Spero che saremo ancora tutti qui. È una cosa in cui spero davvero.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US

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