Keith Richards: «La musica di oggi è scadente e melensa» | Rolling Stone Italia
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Keith Richards: «La musica di oggi è scadente e melensa»

Dai Rolling Stones agli X-Pensive Winos, dal blues a Black Lives Matter, dai litigi con Mick Jagger alla disintossicazione, il rocker più dissoluto e saggio della Terra ha una o due lezioni da impartire

Keith Richards: «La musica di oggi è scadente e melensa»

Keith Richards. Foto: Deborah Feingold/Corbis via Getty Images

È la fine di settembre e Keith Richards torna al lavoro dopo sei mesi di pausa. Ha brividi di freddo da quando è arrivato ai Germano Studios di Manhattan per mettere mano al prossimo album dei Rolling Stones. «L’ultima volta che sono stato in questa sala d’incisione era inizio marzo. Il giorno dopo è andato tutto a puttane», dice ridendo. «Ieri, quando ci sono tornato, ho avuto un déjà vu. Sono felice di essere tornato in pista».

In aprile gli Stones hanno pubblicato in fretta e furia Living in a Ghost Town, un pezzo sul lockdown. L’avevano registrato per il nuovo album e l’hanno pubblicato prima del previsto «perché era perfetto per quel momento». Richards vive negli Stati Uniti, mentre Mick Jagger è rimasto in Europa. I due hanno perciò lavorato a nuove canzoni in remoto. «In attesa del vaccino, ci parliamo da una parte all’altra dell’Atlantico. Ho migliaia di canzoni. Ne ho a sufficienza per tenermi impegnato».

C’è un altro progetto che ha riempito le sue giornate di recente: la ristampa di Live at the Hollywood Palladium. Lo registrò con gli X-Pensive Winos alla fine del 1988, dopo avere debuttato da solista con Talk Is Cheap. I Rolling Stones sembravano arrivati a fine corsa. Non avevano portato in tour Dirty Work e anzi Jagger era andato in giro col suo secondo disco solista Primitive Cool, causando una guerra a colpi di dichiarazioni infuocate.

È stato allora che Richards ha fatto Talk Is Cheap col batterista Steve Jordan, centrando due pezzi radiofonici, Take It So Hard e You Don’t Move Me, quest’ultimo un addio che sembrava indirizzato a Jagger. Il chitarrista è andato in tour con i Winos suonando canzoni dell’album e degli Stones (la ristampa contiene tre tracce non contenute nel live originale: You Don’t Move Me, Little T&A degli Stones, I Wanna Be Your Man scritta per loro da Lennon-McCartney).

A tanti anni di distanza, Richard ricorda quel concerto con orgoglio: «I Winos occupano un posto speciale nel cuore del vecchio Keith. All’epoca non sapevo nemmeno che ci stavano registrando. Era una grande band».

Stai lavorando per gli Stones e presto lo farai con Steve Jordan dei Winos. Che cos’è, una sfida?
Ho messo di sfidarmi tanti anni fa. Diciamolo, è stato un anno bizzarro. Mai visto uno simile in vita mia. Bisogna pure fare qualcosa.

Che cosa ricordi del periodo di Live at the Hollywood Palladium?
Io e Mick ci sentivamo intrappolati dentro gli Stones. Un bel lusso, non c’è che dire. Ma mi piaceva lavorare con altri musicisti. Mi riportava indietro di 15 anni. Non pensavo di essere in grado di mettere assieme un gruppo di musicisti come quello.

Keith Richards & The X-Pensive Winos - Little T&A (Live at the Hollywood Palladium) (Official Video)

Com’è scattata l’intesa con Steve Jordan?
Me l’aveva raccomandato Charlie Watts quando s’era capito che gli Stones avrebbero fatto una pausa: «Se devi suonare con qualcuno, il tuo uomo è Steve». In un certo senso, i Winos li ha fondati Charlie. Sembrava solo la raccomandazione di un batterista da parte di un altro batterista. Poi, quando ho cominciato a lavorarci assieme, ho capito che c’era grande spazio per collaborare.

Nel live racconti che una volta ti hanno cacciato dal palco del Palladium. È stato Chuck Berry nel 1972, anche se poi ha detto che non ti aveva riconosciuto, giusto?
Sì, e anch’io ho quasi cacciato Chuck (ride). Andavo d’accordo con Chuck, ma all’inizio dovevamo dimostrare che non ci piacevamo l’un l’altro perché… e chi lo sa il motivo? È stata una grande soddisfazione lavorare con lui e dargli un grande live band [per il film concerto Hail! Hail! Rock’n’Roll].

Una volta hai detto che Chuck non aveva la precisa cognizione del suo valore, né del suo impatto sul mondo della musica. E tu, hai coscienza del tuo, di valore?
No. Ne sono cosciente perché me lo dice la gente. Capisco Chuck. Era un uomo di poche pretese. Faceva musica e non aveva in testa l’idea che fosse culturalmente importante. Scriveva di cose normali e lo faceva in modo brillante. Memphis, Tennessee è una delle poesie più belle che abbia mai letto. Per Chuck, era solo un altro motivetto. Non aveva bisogno di sapere quando fantastica fosse.

Però non è male ricevere il giusto apprezzamento.
Penso che l’abbia compreso verso la fine ed è una cosa bella. Ma aveva zero pretese. Nessuno riesce a scrivere come quelli come Chuck. Vuoi sentire del rock’n’roll? Ascolta lui con la sua band perfetta nello studio di registrazione perfetto. Basta, ho finito i superlativi.

Al Palladium fate Big Enough che ha un groove alla James Brown. So che l’hai visto dal vivo varie volte, all’Apollo e al T.A.M.I. Show. Che cosa hai imparato guardandolo?
Era uno spettacolo per noi e specialmente per Mick che è al centro dell’attenzione sul palco. James non usava molto il palco, stava nella sua area. Lo dico sempre a Mick: corri troppo, dovresti stare nella tua area e muoverti lì dentro. Lui e James sono fatti della stessa pasta, anche se gli stili musicali sono diversi.

Hai sempre sostenuto gli artisti di colore.
Se sono qui è grazie a loro.

Che ne pensi allora di Black Lives Matter?
Era tempo, cazzo. I nodi stanno venendo al pettine. Bisogna affrontarli. Fatico a parlarne perché non sono americano, ma vivo qui, lo sono nel cuore e nell’anima, ma non voglio interferire. Sono come Putin, mi rifiuto di interferire nel processo elettorale americano.

Waddy Wachtel, il chitarrista dei Winos, suona di brutto nel disco. Scambiarsi le parti con lui è stato un po’ come farlo con Brian Jones e Ronnie Wood?
Mr. Wachtel? Certamente, è l’altro musicista con cui volevo assolutamente lavorare fin da quando l’ho sentito suonare. I Winos mi hanno offerto la scusa per farlo. Ha un gran senso della melodia. Amo tutto di quel bastardo (ride). Gran musicista, grande persona. Se in una band c’è un altro chitarrista, meglio andarci d’accordo, no?

Fa un grande assolo su Happy.
Fantastico. E poi ci sono il bassista Charlie Drayton e il sassofonista Bobby Keys. Sono alcuni fra i migliori musicisti con cui abbia mai suonato.

E Sarah Dash canta Make No Mistake con te e Time Is on My Side
Sarah, come ho fatto a dimenticarla? La donna più bella che abbia mai conosciuto dai tempi in cui cantava con Patti LaBelle and the Bluebells. Un piacere. Un amore.

Keith Richards & The X-Pensive Winos - I Wanna Be Your Man (Live at the Hollywood Palladium)

Al Palladium fai Connection, uno dei primi pezzi degli Stones su cui hai cantato. So che da bambino cantavi in un coro, ma è stato difficile trovare la tua voce rock?
Nasce tutto dalla scrittura con Mick. Io gli facevo sentire una cosa e lui ci cantava su. A volte però mi diceva: “cantala tu” o “fai le armonie vocali”. Forse le prime armonie che ho fatto con Mick sono state The Last Time e Tell Me, che era tremenda, ma alla gente piaceva. Visto che scrivo i pezzi e li faccio sentire a Mick, cantare mi viene naturale, è imparare a suonare la chitarra che è stata dura (ride). No, la musica è musica. C’è poca differenza fra cantare e suonare uno strumento. In un caso usi la voce, nell’altro le dita o qualunque cosa usi.

Il primo pezzo che hai cantato con gli Stones è You Got the Silver.
Non è successo per caso. Mick ha cercato di cantare e alla fine mi ha detto: “Falla tu”. Una semplice divisione del lavoro.

Ai tempi di Talk Is Cheap hai detto che rispettavi di più quello che Mick faceva sul palco. Cosa ti ha insegnato quell’esperienza sul ruolo del frontman?

All’improvviso sei il frontman e ti rendi conto della pressione a cui si è sottoposti in prima linea. Ho capito quello che Mick e gli altri frontman devono affrontare. Negli Stones potevo farmi avanti o restare nelle retrovie, ho sempre la possibilità di essere solo il chitarrista. Con i Winos ho capito che il frontman non ha scelta, deve farlo e basta anche se non ha più voce. È così che ho capito cosa significa vivere quelle pressioni, e non l’ho più dimenticato.

Che cosa hai provato lavorando con Mick, anni dopo quel disco? 

Sollievo (ride). No, era solo diverso. Stare negli Stones è fantastico, ma è anche un mostro. Quando ho fatto quel disco e Mick ha fatto… quello che ha fatto, sentivamo il bisogno di lavorare lontano dalla fabbrica, almeno per un po’. Eravamo convinti che avrebbe aiutato al ritorno negli Stones ed è stato così. Con Steel Wheels e Voodoo Lounge ha funzionato tutto. Ma avevamo bisogno di staccarci un po’, sai.

All’epoca sembrava che You Don’t Move Me fosse diretta a Mick. Avete dei confini, dei limiti da non superare per mantenere la pace? 

Oh, non ci sono limiti. Ci sarà sempre qualcosa su cui litigare. Ma non preoccuparti. Sono i Rolling Stones, perdio (ride). Si deve incassare. In realtà, quando ho scritto You Don’t Move Me non pensavo a quello che pensano tutti. Sembrava ovvio, ma non era così.

Di chi parlava allora? 

Non dirò il suo nome, ok?

You Don't Move Me (2019 Remaster)



Nel 1977, mentre aspettavi il processo per la retata di Toronto, hai registrato dei brani solisti che sono girati molto nei bootleg. Alcuni li hai suonati con la band di Ron Wood, i New Barbarians, ma perché non pubblicarli ufficialmente? Ormai sono leggendari.
Mi piace che restino bootleg. Amo quel materiale e non so come sia venuto fuori, ma all’epoca non mi importava granché. Poi, quando ho capito che alla gente piaceva, ho pensato che avrei dovuto fare altri bootleg. Se lo pubblichi, un bootleg non è più un bootleg. Ma ci penserò su.

All’epoca il governo degli Stati Uniti ti ha fatto venire qui per liberarti della dipendenza dall’eroina.
Assolutamente. Ho un gran rispetto per questo Paese. Mi hanno aiutato e hanno lasciato che mi rimettessi in sesto. Sono stati fantastici. Non voglio accusarli di nulla.

Ultimamente si parla molto della dipendenza da oppioidi. Qual è la cosa che secondo te dovrebbero sapere tutti? Cosa dovrebbe fare l’America? 

Beh, qui si parla di oppioidi, non di oppiacei. Di pillole. Avete un problema con le compagnie farmaceutiche, non con la droga. Tutti sanno che in Canada la stessa roba si trova a pochi spicci, mentre qui la paghi centinaia di dollari. Alla soluzione puoi arrivarci da solo, no?

Segui delle regole di vita?
Amico mio, seguo meno regole possibile.

E quali rispetti quando scrivi una canzone? 

Quando scrivi non ci sono regole. Anzi, lo fai per romperle. Scrivi per trovare l’accordo mancante. Cerchi il modo migliore per esprimere delle cose. Per scrivere canzoni non devi considerare il testo e la musica come separate. È una cosa unica. Puoi essere un grande poeta e comporre musica fantastica, ma l’arte e la bellezza dello scrivere canzoni è mettere le due cose insieme, farle divetare amanti. Questo è scrivere canzoni.

Pensi molto a ritornelli e bridge? 

Solo quando mi ci imbatto.

Cosa rende grande un riff? 

Dev’essere spontaneo e chi lo suona non deve sapere da dove diavolo è arrivato. Appare sulle dita, viene fuori dallo strumento. È un grande riff, una cosa non pensata, non strutturata, niente. Esiste e basta, un minuto non c’è, il minuto dopo arriva (canta il riff di Satisfaction).

The Rolling Stones - (I Can't Get No) Satsfaction (Live) - OFFICIAL

Quello l’hai sognato, giusto? 

Sì. È questo che intendo. Era meglio di dormire. I riff non devono essere pensati, ma sentiti e consegnati agli altri.

Hai sognato anche quello di Make No Mistake…

Forse li ho sognati tutti (ride). No, in realtà ho lavorato parecchio su quello lì, ma c’era una sequenza di accordi che mi affascinava, e mi piace ancora molto. I musicologi non riescono a capire cosa sia. Alcuni mi hanno chiesto di spiegargli un accordo. Ma io non lo so, davvero. È la cosa più vicina all’accordo perduto che abbia mai scritto. Per ora, ovviamente.

Una volta hai detto che non riuscivi a capire un lick di Scotty Moore in I’m Left, You’re Right, She’s Gone, la canzone di Elvis.
Sì, ce ne sono diversi avvolti nel mistero. Li stiamo ancora cercando.

C’è del nuovo rock’n’roll che ti piace, adesso?
Il nuovo rock’n’roll non esiste (ride). Non ha senso. Ci sono grandi musicisti e grandi cantanti, roba così. Sfortunatamente, almeno per me, la musica è stata resa sintetica fino a farla morire. Quando inizi a sintetizzare le cose, perdi ciò che hanno di vero. Ma non voglio iniziare un lungo discorso su cosa c’è di sbagliato nella musica di oggi. Posso solo dire che è scadente e melensa (ride).

Una volta hai detto: «Per me è importante dimostrare che la musica rock non è roba da ragazzini, che non deve crearti imbarazzo se continui a farla dopo i 40 anni». Hai detto che volevi innovare la musica, portarla nel futuro. Pensi di averlo fatto? 

No so. Bobby Keys, un vecchio amico, l’ha chiamata “musica per adulti”. In fondo il rock era considerato nuovo solo perché tutto ha una genesi, diciamo così. Suppongo che la musica rock, nello schema generale delle cose, sia decollata nel ’55 o ’56. All’epoca era roba innovativa e per tanti anni tanti musicisti pensavano lo fosse ancora. Ma all’inizio era come il twist o il cha-cha-cha. Ora sappiamo che non era così.

È anche diverso dal blues. Nel blues più un artista invecchia, più è rispettato. 

Sei perspicace. Il blues è alla base di tutto e tutto contiene. L’intera musica popolare, dal momento in cui hanno iniziato a registrarla, è basata sul blues. Anche il ragtime e il jazz sono basati sul blues. Il che non significa che devi capire ogni singolo country blues, ogni canzone di Lemon Jefferson, ma nasce tutto da lì. Poi la cosa è progredita, il che è meraviglioso.

Vuoi sapere quello che hanno fatto i neri per il mondo? Ascolta la musica. È una forma d’espressione che tocca tutti. La musica fa questo, tocca la gente e se lo fa è grazie alla registrazione. In tutta la storia della musica registrata, l’influenza del blues è enorme. Prende solo sfumature diverse. È nello swing degli anni ’30, in Louis Armstrong. Devo continuare?

No. Stai ancora imparando dal blues? 

Finché non sarò morto ci sarà sempre qualcosa da imparare. Troppa gente che cerca di suonarlo, ma è la condizione umana.

Qualche anno fa, nel documentario Under the Influence Steve Jordan ha detto che prima di Crosseyed Heart pensavi di ritirarti. Ovviamente non è successo. Come la vedi adesso?
Nello show business è così, ci sta che uno annunci cose che non ha alcuna intenzione di fare. Le fandonie fanno parte di questo mondo. Probabile che abbia detto a Steve: «È stato un concerto terribile, mando tutto all’aria». Sono cose che si dicono. Non dico che non l’abbia detto, eh, ma una cosa è dirlo e un’altra pensarlo davvero.

Alla fine degli anni ’80 hai detto: «Non è facile essere Keith Richards, ma non è nemmeno troppo difficile. È sufficiente conoscersi». Ti conosci?
Ho perso delle parti dagli anni ’80 (ride). Ma ascolta, siamo tutti qui a cercare di capire qualcosa della vita. Credo che all’epoca volessi dire che quando sei sotto gli occhi del pubblico da quando hai 19 anni è difficile che la gente capisca chi sei davvero. E scoprire chi cazzo sono mi è stato utile (ride). Non mi preoccupo degli altri. Con la vita non si imbroglia. Quest’anno compirò 77 anni, perdio. Lo so e non me ne frega un cazzo. Ne vado orgoglioso. E sto ancora cercando di conoscermi meglio. Ma le cose cambiano continuamente. Niente è uguale per sempre.

Ricordi come hai trovato tutta questa sicurezza?

Devi arrivarci da solo. Siamo tutti diversi. Non ne ho idea. So che potremmo tutti fare meglio di così, e vorrei dirlo forte. Ma è tutto qui, dipende dalla collettività. Dobbiamo fare di meglio, non importa in cosa. Ecco il mio predicozzo di oggi.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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