Kaos è ancora in sella (letteralmente) | Rolling Stone Italia
Padri nobili del rap italiano

Kaos è ancora in sella (letteralmente)

Il rapper ha prodotto il vlog ‘On The Run’ in cui gira l’Italia in moto e di cui vi mostriamo in anteprima l’episodio zero. È l’occasione per un’intervista larga: l’antagonismo, la diversità dai rapper di oggi, le pressioni placate con l’alcol, la musica superati i 50 anni di età

Kaos è ancora in sella (letteralmente)

Kaos

Foto: James Beghelli

In un’epoca in cui fare rap è diventata un’autostrada per il successo facile, e arrivare a suonare di fronte a un club o un palasport pieni è qualcosa che si può raggiungere dopo sforzi di pochi anni e molte stories su Instagram, diventa ancora più importante mettere i puntini sulle i e pagare il giusto tributo a chi invece si è buttato in questa faccenda quando farlo era un suicidio, una mezza insensatezza, una passione viscerale senza senso e senza prospettiva. Se poi in questa categoria rientra anche chi ha un talento da rapper che lo portava ad essere, già negli ultimi anni ’80 e negli anni ’90, anni luce davanti a tutti per tecnica ed intensità ed originalità d’immaginario, allora la parola è solo una, anzi due: Kaos One.

Marco Fiorito all’anagrafe, classe 1971, è da oltre trent’anni un MC attorno a cui c’è un alone di assoluto culto che si sta passando di generazione in generazione. Ma sarà per il suo immaginario artistico, sarà per il suo modo di porsi al mondo storicamente visto come ostile e reclusivo, Kaos è (quasi) sempre rimasto un eroe delle tenebre e dell’underground duro & puro. E sotto molti punti di vista il personaggio è sempre stato più forte della persona. Ecco: ora le cose potrebbero cambiare. Un po’ a sorpresa, appare sul web On The Run – un «moto vlog», nelle parole dello stesso Kaos – in cui il nostro eroe mostra tutta un’altra faccia: mostra la sua passione per il mototurismo, mostra un animo disteso, tranquillo, voglioso di calma e conversazioni pacate. Una quindicina di puntate già registrate, un piglio fieramente autarchico, una direzione che sotto molti punti di vista è abbastanza opposta a ciò che è e rappresenta Kaos One – un suicidio strategico insomma, visto che con gli occhi di oggi dove il management d’artista regna sovrano. Ma forse anche la mossa migliore possibile. Parlandone con lui, è venuta fuori una chiacchierata splendida. Una chiacchierata che potrebbe anche sorprendere parecchio molti dei suoi fan e adoratori più intransigenti e superficiali.

Sai cosa? Ti ho visto rilassato e a tuo agio come non mai, in On The Run. E ancora: traspare davvero il fatto che non c’è nessuna strategia di mercato in questa idea, nessuna – come dire? – mossa di posizionamento. Perché manco vuole essere funzionale a raccontare e rafforzare il tuo personaggio come artista. Cioè, proprio non te ne frega nulla: il piacere di fare questa cosa, e stop. L’impressione è questa.
È vero. Dici bene: On The Run è in effetti un po’ una risposta alle pressioni di quello che significa mercato, l’opposto di quello che significa essere un musicista e del tipo di esposizione che questo comporta. È esattamente l’opposto di tutto questo. È davvero mettere da parte un lato di me, quello della mia figura da artista: lato che comunque è ovviamente fondamentale ancora adesso e mi accompagna da giovanissimo, visto che ho iniziato molto presto. Con questa operazione provo a curare le fratture che questo lato inevitabilmente comporta. Così come le fratture che comporta in generale proprio la vita stessa, nelle sue sfaccettature.

Non è poco.
Per mezza giornata riesco ad essere sereno, a pensare prima di tutto a guidare, a godermi il viaggio in moto. Ci ho aggiunto poi il fatto di parlare a ruota libera, e questo per me è comunque meno facile e meno immediato: ci devo ancora lavorare sopra, sono ancora un po’ incerto e legnoso. Perché sai, questo modo di comunicare senza rete non fa parte della mia personalità. Però, ecco, ci provo, ci sto provando. E devo dire che il tutto mi ha preso veramente tanto, davvero tanto. Sia a livello emotivo che a livello concretamente di tempo: perché in realtà non è solo questione di farsi mezza giornata in moto, no, il casino arriva dopo, quando devo scaricare tutto quello che è stato filmato, ricaricarlo, montarlo…

Cioè, vuoi dirmi che fai tutto tu?
Sì sì: faccio tutto io.

Caspita.
Guarda, giusto il teaser ha qualche immagine che è stata girata da alcuni amici. Ma per il resto tutto quello che si vede e si vedrà è fatto da me: la registrazione, il montaggio, l’editing, anche la gestione dei social. Tutte cose in cui arranco, perché oh, ho l’età che ho… (ride). Lo dico spesso: appartengo alla generazione che il primo apparato tecnologico che ha avuto era il telefono con la rotella, non so se mi spiego: come puoi aspettarti che sia agile e subito efficace con le faccende digitali? Ma mi sto impegnando. E mi sta prendendo bene.

ON THE RUN - Episodio 0

Anche questa cosa dell’arrancare: in questa risposta, ma in tante parti delle tue conversazioni a ruota libera che ho visto nelle anteprime che mi hai girato di On The Run, viene fuori un lato di te molto umano, rilassato e, lo sottolineo, assolutamente autoironico. Mi ci ritrovo, perché negli anni mi è capitato di vedere il Kaos One che non sta sul palco, e sa essere alla mano, scherzoso, appunto autoironico; ma è qualcosa che esula completamente dall’immagine pubblica – e artistica – che si ha di te. Tu sei quello feroce e rigoroso, no?
Se sono alla mano non sta a me dirlo, devono dirlo gli altri. Ho una cerchia, piuttosto limitata, di conoscenti e amici: con loro tendo ad aprirmi di più. Con persone che non conosco, invece, di sicuro sono un po’ più chiuso. Sai, anche per quanto riguarda il mio essere artista, il mio personaggio: lo so che comunico questa idea di essere un po’ duro, inflessibile, poco disposto a mediare. Vero. Ne sono consapevole. Ma credo che questa percezione sia nata anche perché io dalle interviste, dal darmi ai media e raccontarmi al mondo, sono intimorito.

Intimorito?
Sono cose che mi fanno un po’ paura. Per questo è diventato ancora più facile che mi circondasse questa aura da persona introspettiva, intransigente, che non si dà a niente e nessuno. On The Run è l’occasione per superare un po’ tutto questo. Mi mette a mio agio, e lo fa così tanto che ho meno problemi a mostrare lati di me che prima non avevo mai reso visibili, pubblici.

Una cosa curiosa è che c’è molto poco stile hip hop. Parlo dello stile delle riprese, dai contesti attraversati, parlo direttamente anche dell’abito sonoro scelto per i vari stacchi. Sono più schegge che sembrano venire fuori dai dischi lounge di Money Mark per dire, non c’è nessun tremendismo hip hop.
È una scelta voluta. Perché appunto: la ferocia e l’oscurità è quello che si porta dietro l’immaginario che mi circonda, come artista. Ma: io qui voglio semplicemente stare bene ed andare in giro per posti che mi piacciono, che sono tutti tranne che metropolitani. Che senso aveva tirare fuori una atmosfera urban?

In effetti…
Oh, non è che non ci abbia pensato, e non è nemmeno che non ci abbia provato. Nei primissimi esperimenti, prima di iniziare a montare davvero, avevo messo delle strumentali hip hop fatte da me o mandatemi da qualche amico ma, semplicemente, non funzionava. Serviva qualcos’altro, serviva un altro tono. E anche, non ti nascondo, serviva qualcosa che non creasse problemi a livello di diritti: YouTube è bastardo, ti tira giù le tracce audio con grande facilità, e allora la soluzione migliore è stata rivolgersi a un po’ di banche dati audio con tracce già liberate come diritti, da usare tranquillamente, senza paura che poi arrivassero dei casini. Se proprio avessi potuto scegliere senza nessun limite, beh, avrei messo dentro magari un bel po’ di grandi colonne sonore – sono un grandissimo appassionato di colonne sonore – ma mi sa che non sarebbero durate niente, tirate giù in mezzo secondo. Ho ripiegato quindi sui data base liberi degli audio per YouTube, comprando qualcosa qua e là, e ti dirò – ho trovato delle cose che non mi dispiacciono per nulla. Credo ci stiano bene.

Foto: Fabio Zito

Riprendo un paio di accenni che hai fatto finora, rispondendo a un paio di domande precedenti: il fatto che tu sia nel rap game da tantissimo tempo, e il tuo rapporto coi contesti metropolitani. Ecco: in ‘sto rap game tu sei stato protagonista fin dalla seconda metà degli anni ’80, per certi versi da prima ancora che si parlasse di musica e cultura hip hop in Italia, e la città in cui eri protagonista era Milano. Proprio la Milano che oggi è la capitale assoluta del rap, almeno come percezione discografica, industriale e a livello di immaginario collettivo: è il posto in cui vogliono vivere tutti oggi, se si è emergenti, e vogliono esserci per diventare dei protagonisti. Ma com’era invece la tua Milano, quando l’emergente eri tu?
Sono sicuramente due città molto diverse. Però, non credo di poterti rispondere davvero: perché già la Milano di 15 anni fa era molto diversa da quella in cui giravo da ventenne io. Tant’è che a un certo punto me ne sono andato: non mi ci rivedevo più, erano cambiate troppe cose. E questo 15 anni fa; figurati ora, quanto deve essere cambiato ulteriormente tutto. Ad ogni modo: io Milano l’avevo lasciata perché appunto non si stava più come prima. C’era del disagio. Lo sentivo. E infatti tante mia conoscenze si erano infilate in storie che non mi piacevano per nulla – e in cui avevo paura di finire pure io, anche solo per osmosi, per forza d’inerzia, per frequentazioni comuni. Così me ne sono andato. A Bologna. Da quello che leggo, Milano poi da lì è ulteriormente cambiata; ma io ormai è tantissimo tempo che non ci vengo più, se non per fare una data – quando insomma arrivi, suoni, te ne vai – o per trovare i miei genitori, che però in realtà stanno in provincia, verso Lodi, quindi in realtà di Milano non respiro proprio nulla. Ma sì: da quello che vedo dai social, dai reel di Instagram, dai racconti che ogni tanto mi arrivano è in atto una evoluzione in cui io non mi ritroverai mai.

Mai?
Mai. E mi spaventa pure un po’. Non riuscirei mai a tornarci, oggi, a Milano. Anche perché figurati, sono andato via pure da Bologna, per andare a stare in un posto molto più isolato in campagna: Bologna iniziava a diventarmi troppo città. Bologna! Anche solo a sentire parlare di Milano e a immaginare come sarebbe ora viverci, mi sale un po’ d’angoscia. Mentre invece quando ci sono cresciuto era una città incredibile, in cui mi tuffavo completamente.

Ecco. Com’era?
Era la famosa Milano da bere. Era una Milano in cui ogni sera c’era qualcosa da fare. Boh, non lo so, forse semplicemente ero io che ero molto più giovane, ingenuo, dinamico, attento, ma sta di fatto che eri sempre fuori, eri sempre in giro, c’era sempre qualcosa da fare la sera. Non provavi nemmeno a pensarci, di restare a casa e non uscire. Non c’era internet. Non c’era questa cosa di stare attaccati a uno smartphone. No, c’era la voglia di trovare sempre qualcosa da fare e, cazzo, la trovavi, la trovavi sempre: Fosse una serata, un concerto, una festa strana a casa di amici, una uscita a fare writing di notte. Qualcosa c’era sempre, davvero, ed erano tutte cose che ti appassionavano parecchio, ti coinvolgevano visceralmente.

Oggi la vera cazzimma di chi sta a Milano, e magari è immerso nella faccenda del rap, nasce dal voler fare carriera.
All’epoca chi volevi che pensasse alla carriera? Carriera?! Non ce n’era nemmeno mezza di idea che il rap potesse diventare una carriera e un lavoro. Facevo rap per un motivo molto semplice: l’antagonismo. Ma occhio: era un antagonismo quasi inconscio, istintivo. Non una scelta calcolata o ragionata. Guarda, già negli anni ’80 la società era molto basata sull’immagine e sul classismo, sull’ostentazione della ricchezza e su quanto essa fosse uno spartiacque decisivo. No? Se ti ricordi, negli anni ’80 c’erano quelli che avevano i soldi, ovvero i paninari; e poi c’erano gli altri, gli antagonisti, quelli dei centri sociali. Ecco, io non andavo bene da nessuna delle due parti. Perché non avevo abbastanza soldi per fare il paninaro, ma per i centri sociali ero comunque quello che non capiva un cazzo di politica, quindi non potevo essere uno di loro.

D’altro canto, cosa volevi che sapessi? Che consapevolezze potevo avere? Ero un ragazzino che arrivava dalla provincia – era arrivato a Milano dopo aver vissuto per un po’ nella campagna vicino a Bergamo – quindi non riuscivo ad identificarmi in alcun modo nella vita da metropoli. È cambiato tutto quando ho visto quasi per caso un gruppo di persone che faceva breakdance: lì è detonato qualcosa. Ma anche lì, non pensare sia stato un processo facile, veloce, immediato… Ci ho messo un po’ a capire cosa fosse veramente l’hip hop: d’altro canto mica c’erano i tutorial, mica c’era internet. Bastava una musicassetta arrivata da non si sa dove a stregarci tutti per settimane, ce la passavamo di mano in mano come una reliquia, come una Stele di Rosetta da decrittare, perché era l’unico modo per toccare con mano ‘sta cosa del rap, che altrove nella nostra quotidianità era semplicemente inesistente. Figurati: chi poteva permettersi di andare ogni tanto a Londra e tornava con un Kangol in testa e i lacci grossi per le scarpe era visto come un eroe, un alieno, uno che aveva accesso all’impossibile. Pensa come eravamo messi.

Bene: com’è possibile che oggi i rapper siano diventati invece quello che allora erano i paninari, ovvero il modello denaroso e vincente, quello di chi ostenta? A scanso di equivoci – è un’affermazione mia, non è una polemica che ti sto mettendo in bocca. Me ne prendo la responsabilità.
Ma guarda, non mi ricordo se nel quarto o quinto episodio di On The Run dico proprio una cosa del genere. La dico con misura, cercando di andarci coi piedi di piombo, perché On The Run non deve diventare qualcosa che crea dei vespai, delle polemiche, perché come ti dicevo è anzi l’esatto contrario, è un oasi di presa bene; ma a un certo, in questa conversazioni libere con me stesso che rappresentano l’ossatura del progetto, ho ragionato sul fatto che se i fossi ragazzino oggi – con la mentalità che avevo allora, quando ragazzino lo ero davvero – io al rap non mi ci avvicinerei manco per niente. Perché dovrei? Lo fanno tutti, è la cosa che vogliono e cercano tutti. Io, fossi un ragazzino, andrei invece a cercarmi proprio qualcosa che non si sta filando nessuno. Qualcosa in cui tuffarmi e per cui nessuno, nessuno possa farmi pressioni di nessun genere, da quanto è assurda e fuori dai radar la cosa. Poi magari dopo venti, trent’anni diventa invece il nuovo mainstream, esattamente come successo col rap… Ma appunto: ci sono voluti trent’anni. Trent’anni!

Trent’anni in cui comunque tu la carriera e lo status te li sei fatti per davvero. Che è bella come cosa, ma è anche impegnativa: perché quando la carriera e gli status te li costruisci e li raggiungi, all’idea di perderli ti viene dell’ansia.
Ma no.

No?
Quando come nel mio caso non hai poi così tanto da perdere, non è che te ne frega più di tanto.

Dai…
No, davvero: non è che io abbia raggiunto chissà quali traguardi e chissà quali soddisfazioni. Se non quelli umani, quelli personali, chiaro: quelli sì. Ma per il resto, sta cosa dell’essere artista spesso mi ha dato più rogne che altro. È un discorso lungo, eh.

Beh, facciamolo.
La carriera musicale, e occhio che per me carriera va sempre tra virgolette, ha non solo dei risvolti positivi ma implica anche delle intensità e delle pressioni che, non lo nascondo, sono anche state molto difficili da gestire, e che hanno portato a delle conseguenze poco piacevoli. Ho avuto ad esempio diversi problemi con l’alcol. Perché da sobrio, c’è poco da fare, non riuscivo ad affrontare con serenità lo stare su un palco, le aspettative attorno a me, le dinamiche che si creavano col pubblico. Questa cosa a un certo punto ha trasceso ma, per fortuna, ora ne sono uscito. Se poi invece vogliamo parlare di soldi, la verità è che non sono mai diventato ricco. Non mi è mai mancato nulla, vero, questo sì, ma non sono nemmeno riuscito a mettere da parte chissà quale surplus. Oh, non voglio spacciarmi per una persona che fa fatica ad arrivare a fine mese, ma dubito di guadagnare di più di un operaio specializzato.

Foto: Mirko De Angelis

Quindi niente borse e cappellini di Louis Vuitton per te.
Mi sono tolto giusto due sfizi, in questi anni: comprare una moto bella e poi quattro cinque anni fa fare un viaggio in America, un coast to coast. Basta. Per il resto quello che mi arriva va in bollette, in affitto. Avanza qualcosina, toh: ma tanto ora sto spendendo in tutto in questa cosa del fare il vlogger, l’attrezzatura necessaria per fare riprese e montaggi tra telecamerine, dronini e computer un minimo decenti si sta rivelando un pozzo senza fondo di spese, mi sto rovinando da solo (ride).

Ok, niente dollaroni, niente guadagni immensi, va bene. Ma credo che davvero pochi possano vantare un patrimonio di credibilità e di autorevolezza come il tuo, oggi. Pochi. Pochissimi. Non fosse altro perché fai questa cosa da oltre trent’anni, e sei sempre stato il massimo del rigore e della coerenza, zero compromessi, zero cedimenti. L’identikit perfetto di un padre nobile della scena, ecco. Come pochi. Come quasi nessuno.
Ma no, non lo so… Queste sono percezioni che possono avere gli altri. Io invece… Allora, mettiamola così: vero, il mio modo di fare musica implica una visione specifica e ben precisa, visione che porto avanti da sempre. Ok. Ma attenzione: non lo faccio perché abbia questa visione da samurai, da bushidō della musica. No, è semplicemente l’unico modo in cui riesco ad esprimermi, punto. O meglio: l’unico modo in cui riesco ad esprimermi sentendomi autentico, personale, sentendo che sto facendo qualcosa che è profondamente d intimamente mio. Io il rap riesco a farlo solo così. Se poi la gente mi vede come il samurai che difende i valori della purezza del rap… boh, non lo so.

Eh.
Ma quello che ti sta parlando ora è il Kaos che ha passato i 50, attenzione. Ovviamente il Kaos ragazzino era invece tutto bellicoso e sì, riteneva vitale portare giustizia e coerenza nel mondo corrotto della musica.

Ecco.
La verità però è che il tempo, l’esperienza e la disillusione ti riportano coi piedi per terra. Ma questo non significa che io oggi sia diverso rispetto ad allora, come artista, significa solo che sono più consapevole. Più consapevole anche dei propri errori passati, di alcune sviste che col senno di poi era meglio non fare; più consapevole di come certe visioni troppo semplicistiche spesso non siano la cosa migliore per analizzare una realtà che, invece, è quasi sempre molto più complessa di quello che può sembrare a prima vista. Tutto questo in fondo significa semplicemente solo una cosa: essere diventati più maturi.

La voglia di salire su un palco però c’è sempre.
Sì. Perché è una cosa che mi viene bene nella vita, e perché è qualcosa che mi sono costruito passo dopo passo, su cui ho investito, su cui ho lavorato con tutto me stesso, tutto questo con un unico obiettivo: la consapevolezza di aver dato, su quel palco, il meglio di me. Tutto questo però ha un prezzo da pagare, più vai avanti più te ne accorgi. Ti logora. Figurati poi coll’approccio che ho io: perché per me salire su un palco e fare rap significa comunque sbraitare come un indemoniato e sì, avere un livello di intensità mentale non sempre semplice da sostenere. Tant’è che sentivo spesso che arrivavo vicino a un limite dove iniziavano a farsi sentire paure e ansie, dove tutto diventava difficile; e sono queste ansie e paura ad aver creato alcune delle défaillance nella mia vita. Ora poi non le affronto nemmeno più col filtro dell’alcol o delle canne: no, ci sbatto contro e basta, in modo crudo. Punto.

Lo so: dopo tutto questo tempo dovrei avere imparato a prendere tutta questa cosa dell’essere artista e salire sul palco con più consapevolezza e quindi leggerezza… Invece, no. Zero. Invece, sono ancora qui che ho paura di sbagliare, di non fare abbastanza bene; e anzi ora che comunque so di avere un po’ di anni in più e di essere meno resistente – insomma: sono vecchio, sto invecchiando, inutile fare finta non sia così – mi preoccupo ancora di più. Però lo faccio. Ci provo. E continuerò a provarci. Fino a quando ne avrò le forze.

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