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Kalush Orchestra: «La nostra lettera a una madre è diventata inno alla madrepatria»

Le prove a distanza, la guerra, l'hip hop ucraino, i figli che abbandonano le madri per recarsi al fronte e la geopolitica che si insinua tra le maglie dell'intrattenimento mainstream: la Kalush Orchestra si racconta a 'Rolling Stone'

Foto per gentile concessione di Kalush Orchestra

Da quando l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto inizio, lo scorso 24 febbraio, Oleh Psjuk, Ihor Didenčuk e MC KylymMen hanno dovuto cucirsi addosso, giocoforza, la scomoda veste di rappresentanti di un popolo oppresso. Hanno smesso di essere artisti a tempo pieno per trasformarsi, di volta in volta, in partigiani, guerriglieri, filantropi, addirittura narratori di nuove mitologie popolari. Contro ogni aspettativa, la loro Stefania – la canzone con cui partecipano a Eurovision, originariamente una lettera d’amore che Oleh, il frontman, ha dedicato a sua madre – è diventata un canto di resistenza e un antidoto alla solitudine di migliaia di guerriglieri improvvisati che, dalla mattina alla sera, hanno dovuto chiudere bottega, reinventarsi e imbracciare i fucili: la coperta di Linus di una nazione che lotta per la sopravvivenza. Ecco perché, nell’atmosfera istituzionale e ovattata dell’Eurovision, la Kalush Orchestra ha rappresentato un’anomalia sin dall’inizio, quel punto di intersezione oscuro in cui intrattenimento mainstream e geopolitica finiscono per contaminarsi; e, chiacchierando con Oleh, si ha tutta l’impressione che, in fin dei conti, questo fardello la Kalush è disposta a sopportarlo.

È difficile identificare la vostra musica: come vi definireste?
Siamo i rappresentanti di una scena hip-hop in lingua ucraina sempre più ricca e vivace, che ha fatto tendenza negli ultimi anni con dozzine di gruppi che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio importante nella cultura urban contemporanea. Forse, la caratteristica che differenzia la Kalush Orchestra dalle altre band in Ucraina è la grande importanza che attribuiamo alla musica etnica: c’è sempre, in qualche modo, un’operazione di “archeologia” dal passato, un tentativo di attualizzare il vecchio folklore ucraino che è stato dimenticato. Lo estraiamo da molte generazioni e tentiamo di fornirgli una nuova veste attraverso elementi moderni e contemporanei, rap e strumenti. Il risultato è una contaminazione tra ciò che amavano i nostri antenati e ciò che piace ai giovani ucraini oggi. 

Quanto è radicata la sottocultura hip hop in Ucraina?
L’hip hop è una parte importante della scena musicale ucraina. Abbiamo due grandi battaglie rap: Banderstadt Battle (VERSUS) a Leopoli e Red Bull Battle a Kiev.

Dall’inizio della guerra, la vostra partecipazione a Eurovision è mai stata messa in discussione?
Naturalmente i preparativi per Eurovision sono stati impegnativi, ma stiamo facendo del nostro meglio per offrire al pubblico le migliori performance possibili. Per molto tempo non abbiamo avuto possibilità di incontrarci fisicamente, quindi siamo stati costretti a provare “a distanza”, preparando l’esibizione in videoconferenza.  Poco prima di Eurovision, abbiamo organizzato un incontro a Leopoli per passare del tempo insieme e suonare dal vivo. Per raggiungere Eurovision abbiamo dovuto ottenere un permesso speciale: dopo la gara, dobbiamo tornare tutti in Ucraina. Siamo convinti che solo attraverso la nostra arte possiamo essere utili al Paese: grazie alla nostra musica, siamo in grado di trasmettere il messaggio a un pubblico vasto ed eterogeneo come quello di Eurovision. Questo è il nostro modo di essere utili al popolo ucraino. 

Durante la prima fase dell’invasione, Vlad Kurochka (MC KylymMen) ha prestato servizio nelle forze di difesa territoriale intorno alla capitale, Kiev. Anche gli altri membri della band sono stati coinvolti in qualche modo nella guerra di resistenza?
Sì, in diversi modi, direttamente e indirettamente: ad esempio, il ballerino della Kalush Orchestra Slavik Gnatenko ha rifiutato di esibirsi all’Eurovision per difendere il suo Paese, offrendosi come volontario in aiuto delle forze di difesa e proteggere Kiev. Anch’io mi sono attivato, nel mio piccolo: ho infatti fondato “Ty De?” (“Dove sei?”), una onlus di volontari che aiuta le persone a trovare alloggio e medicine, e a spostarsi dalle zone a rischio. Siamo in 35, attivi in varie città ucraine. 

Stefania è diventata una sorta di inno informale della resistenza ucraina: come te lo spieghi?
Stefania è una canzone scritta per mia madre, molto prima della guerra. Non le ho mai dedicato una canzone, ma è una cosa che volevo fare da molto tempo. Mia madre vive a Kalush, la mia città natale nella parte occidentale dell’Ucraina. Dopo che i russi hanno dato inizio all’invasione, però, molte persone hanno iniziato ad attribuire al testo un altro tipo di significato. Probabilmente, chi ha dovuto imbracciare le armi e abbandonare la famiglia è riuscito a immedesimarsi nelle parole di Stefania: ecco perché la canzone è ora nei cuori e nelle orecchie del popolo ucraino.  Chi ci ascolta ha interpretato il testo di Stefania in maniera estensiva, ampliando il suo significato a tutte le madri che si prendono cura dei propri figli e li proteggono dal flagello della guerra. La canzone dedicata a una madre è diventata, così, un inno d’amore per la madrepatria.

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