JP Bimeni, intervista al sopravvissuto del soul adottato dall’Italia | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

JP Bimeni, storia del sopravvissuto del soul adottato dall’Italia

Dalle serate open mic ai 100.000 del Jova Beach Party, il cantante rifugiatosi a Londra dal Burundi racconta la sua storia travagliata, la passione per il soul, l’incontro con Amy Winehouse, il successo nel nostro Paese

JP Bimeni, storia del sopravvissuto del soul adottato dall’Italia

JP Bimeni all'Auditorium Flog di Firenze

Foto: Alessandro Botticelli

«In Burundi mi chiamano l’uomo bianco. Perché sorrido, sono felice, sto bene. Chiunque pensa immediatamente che io sia un turista. Poi rispondo in kirundi, la lingua del mio paese, e li lascio senza parole». Chi parla è Jean Patrick Bimeni, in arte JP. La sua storia è nota: discendente della famiglia reale del piccolo Stato africano, nei primi anni ’90 deve fuggire a causa della guerra civile che investe il Paese. Sopravvive a tre tentati omicidi, l’ultimo dei quali lo lascia praticamente morto su un letto di ospedale a Nairobi, in Kenya. Ripresosi, ottiene una borsa di studio che gli permette di trasferirsi in Galles e poi a Londra. Pochi mesi dopo si ritrova a cantare in un festival in Spagna assieme agli Speedometer, gruppo che funge spesso da backing band per artisti soul come Lee Fields e Sharon Jones. Gli spagnoli Black Belts lo notano in quell’occasione e lo convincono ad unirsi a loro per incidere il fortunatissimo Free Me, eletto disco dell’anno dalla BBC 6.

Tra la fuga dal Burundi e quel festival sono passati più di 20 anni di fallimenti, di serate open mic che gli permettono di entrare nel giro di una certa scena londinese, di band lanciate e poi mollate, di contest musicali dove è sempre arrivato secondo. Il migliore era sempre qualcun altro. «Sognavo il successo. Ogni musicista lo vuole, ma è stata dura. Ho avuto un rapporto intermittente con la musica, ho smesso molte volte, per poi ricominciare. Sempre».

Gli inizi a Londra non sono dei più semplici. JP è un rifugiato, non ha documenti per viaggiare o riconnettersi con gli amici di varie nazionalità conosciuti nel college in Galles. Di tornare in Burundi, al momento, non se ne parla. Si butta sul lavoro, l’unica cosa che può tenerlo impegnato. Lavora in un’azienda di catering, fa il cameriere, diventa manager del ristorante, si prodiga nel volontariato per aiutare i ragazzi di strada in difficoltà, diventa advisor della fondazione creata dalla Principessa Diana. Le cose cominciano a funzionare, da un punto di vista economico, ma JP non riesce a ignorare quel richiamo che viene da dentro, quella chiamata verso la musica, il suo demone salvifico. 

«Sono stato paragonato praticamente a chiunque, all’inizio: Gaye, Redding, Saadiq, Terence Trent D’Arby, anche Paul Weller, Bob Marley, Sam Cooke. Qualcuno mi ha paragonato anche a Seal. Ho provato a inserirmi nel circuito delle serate open mic. Non avevo mai studiato musica, sentivo solo il bisogno di farla. Sono stato incoraggiato all’inizio, e questo è importante. Qualcuno ha creduto in me, continuavano a invitarmi: la mia casa era tappezzata di note e post it, con testi e idee. Scrivevo, scrivevo continuamente, ero ossessionato».

L’occasione della vita ancora non si presenta, ma le cose cominciano a muoversi, JP si fa notare per la voce che molti paragonano a quella di Otis Redding, al punto che Bimeni diventerà, negli anni successivi, la voce della tribute band ufficiale del soulman americano. «Non riuscivo a trovare la mia voce. Le cose sono cambiate nel momento in cui ho messo di sentire i dischi di Redding: ero semplicemente troppo influenzato da lui».

Tra gli altri, lo nota una giovane Amy Winehouse, anche lei ancora ben lontana dall’essere star. «C’era questo locale jazz a Londra dove una sera venne Amy Winehouse a sentirci. Arrivò sulla nostra ultima canzone, chiedendo di potersi unire alla jam. Non era ancora famosa, mi disse di essere un po’ nervosa, la tranquillizzai. Chiesi al manager del locale se ci fosse spazio per un pezzo in più, ma mi disse di no. Amy mi informò di aver lasciato il suo numero di telefono sulla nostra guest list per poter esser ricontattata, ma non avevamo una guest list, aveva dato il numero alla persona sbagliata. Le dissi che non era grave, che ci saremmo incontrati nuovamente lì: io avevo appena avuto il mio primo figlio, e la mia ex premeva perché tornassi a casa. Non la vidi più».

Le cose per JP si muovono nella sfera privata, con un matrimonio e due figli, ma dal mondo della musica le soddisfazioni non sono ancora molte. «La band con la quale stavo suonando collassò. Ero depresso. Un produttore italiano che vive a Londra, Roby Meola, si prodigò per registrare il mio primo EP a nome Mudibu. Finalmente avevo della musica mia e grazie a questo sono stato invitato a suonare in varie contesti, anche in occasione di un anniversario dell’UNHCR, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Al primo EP ne segue un secondo, questa volta cantato in kirundi, la lingua del Paese che ha lasciato nel 1994 e dove è tornato solo tre volte. «Feci un pezzo e la cosa finì lì. Poi cominciai a ricevere e-mail e messaggi da tutti, finché mio fratello mi spiegò che la canzone era diventata un successo in Africa. Ad oggi, ancora, non so come sia accaduto». Il successo inaspettato lo spinge a provare ad iscriversi a un contest per musicisti di origine africana, dove si qualifica secondo.

Dopo la carta del soul, JP tenta quella del rock, entrando a far parte dei Lost Child. «Il gruppo funzionava e così decidemmo di iscriverci alla classica battle of the bands. Arrivammo secondi dietro a un incredibile ensemble giapponese. Ancora una volta secondo. Mollai progressivamente anche questa band. In seguito, fui invitato a cantare a un matrimonio, la sposa lavorava alla Universal, mi venne offerto di cantare in una nuova band, i Saints Patience. Suonavamo nei circuiti rock e tutto andava alla grande, anche se impiegammo quattro anni per incidere il nostro debutto, Weather the Storm. Poi tutto si fermò di nuovo».

Foto: Alessandro Botticelli

Come in una favola rock, l’amico di un amico ha bisogno di un cantante. Solo che quell’amico sta negli Speedometer e deve andare a suonare in un festival in Spagna. Da headliner. «Ci incontrammo all’aeroporto, non li conoscevo, non avevamo mai fatto prove assieme. In quel momento scoprii che saremmo stati gli headliner. Pensai di non farcela».

Poi il successo arriva davvero. Nella forma di Free Me, disco inciso assieme ai madrileni Black Belts che dalla mattina alla sera – o quasi – trasforma Bimeni in una star. In Italia viene invitato da Jovanotti al suo Beach Tour («incredibile, non avevo mai suonato di fronte a 100.000 persone»), per poi ritrovarsi in un programma di successo come Propaganda Live in un Paese che, per usare un eufemismo, ha sempre avuto un rapporto alquanto complicato col soul. Suona a Lecce, al Sud Est Indipendente, e in Sardegna, al Mamma Blues di Nureci. «Un paesino di 102 persone, poi diventate 103 perché è nato un bambino. Conoscevano i miei pezzi, era una roba incredibile, anche i ragazzi. È stata una grande emozione, mi sono messo a piangere».

È il momento della consacrazione, non sono in Italia. «L’ultimo anno è stato incredibile, come avere sette marce, non cinque. In qualche modo sapevo che il successo sarebbe arrivato. Ricordo di aver pianto quando ho sentito il disco finito. Mi son sentito fortunato. Ho pensato, se muoio adesso va bene, sarò felice così. Ho dovuto imparare come stare on the road, come gestire la fatica, sopratutto all’inizio, quando non facevamo altro che suonare, data dopo data, sera dopo sera. Ho dovuto imparare ad essere resiliente. È stato fantastico, e devo dire di non aver ancora digerito il tutto, mi sento come un bambino, felice e stupito di quel che sta accadendo. Mi sento fortunato e, nonostante tutto quel che ho vissuto, non posso lamentarmi. Allo stesso tempo, mi sento colpevole, perché quando torno a casa vedo persone che non hanno niente, non hanno opportunità, nessuna via d’uscita. E se c’è qualcuno che merita qualcosa, sono queste persone, gente che ha perso tutto: la casa, la terra, la famiglia».

Sabato 12 ottobre JP Bimeni e i Black Belts sono stati protagonisti di un concerto all’Auditorium Flog di Firenze in occasione dei quarant anni della rassegna Musica dei Popoli. Il cantante – con le sue inevitabili bretelle – e la band hanno reso giustizia alla storia della musica soul, reinterpretandone gli stilemi in chiave classica e credibile. Bimeni tornerà in Italia nuovamente in novembre, la tournée europea terminerà a fine dicembre. Poi di nuovo in studio, per dare seguito a Free Me.

«Ero praticamente morto. Mi è stato regalato del tempo extra e ho scelto di godermelo, facendo esattamente ciò che voglio, facendo quel che mi fa stare bene. Così ho scoperto che il sentimento dell’amore è l’unico che permette di viaggiare leggeri».

Altre notizie su:  JP Bimeni