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Josh Homme: «Le Desert Sessions sono un mixtape senza confini di genere»

Il frontman e chitarrista dei Queens of the Stone Age racconta il suo progetto più libero e affascinante, tornato dopo 16 anni con un menu a base di strani personaggi, electro-rock e disco-funk ironica

Josh Homme dei Queens of the Stone Age ha organizzato la prima Desert Session nel 1997. Un anno dopo aver lasciato la band chiave dello stoner rock Kyuss, ha invitato membri di Monster Magnet e Soundgarden, tra gli altri, e con loro ha improvvisato una jam a Joshua Tree, California. Ha poi organizzato con regolarità altre session registrando tutto quel che veniva suonato. Il risultato sono i 10 volumi delle Desert Sessions pubblicati fino al 2003.

 

Oggi, dopo una pausa di 16 anni durante la quale è stato occupato con i Queens of the Stone Age e i Them Crooked Vultures e a produrre Iggy Pop, Homme ha riunito un ensemble inedito per due nuovi volumi usciti di recente: Volume 11: Arrivederci Despair e Volume 12: Tightwads & Nitwits & Critics & Heels. Tra i suoi ospiti ci sono Billy Gibbons, Les Claypool, Jake Shears (Scissor Sisters), Stella Mozgawa (Warpaint), l’attore Matt Berry, Matt Sweeney e l’enigmatico Töôrnst Hülpft, la cui identità è un mistero. La musica spazia dall’electro-rock (Move Together) alla disco funk ironica (Chic Tweetz). Homme dice che il progetto è stato rigenerante.

 

«Le Desert Sessions sono una forma di ricarica creativa», racconta a Rolling Stone in una conversazione telefonica da casa sua. «Era da un po’ che cercavo di organizzarla, questa cosa, ma ci sono stati vari ostacoli. Poi ho capito che il momento giusto sarebbe stato alla fine del tour con i Queens of the Stone Age. Ho pensato che sarebbe stato un bel modo per ricaricarmi. Ecco che cosa mi ha spinto a farlo stavolta».

È facile organizzare le Desert Sessions?
Devi prenderti un minuto per spiegare l’idea, tipo: andiamo nel deserto e improvvisiamo musica, non è che ci sballiamo e facciamo una lunga jam. Si va da Joann o Michaels a fare provviste e ci si chiude a lavorare. L’idea è creare una specie di mixtape che va oltre le barriere fra generi musicali. Ci vuole un attimo per spiegarlo.

Qualcuno ti ha mai detto no in questi 22 anni di session?
Sì, quando le date non coincidevano con il loro calendario di impegni. Ci sta, non è che mi chiudo in stanza e mi metto a piangere per il loro no.

Come crei un’atmosfera? Accendi dell’incenso e via?
Sì, ci mettiamo tutti rilassati nelle nostre camicie hawaiane (ride, nda). La chiave è non cercare di forzare le cose. L’obiettivo è essere te stesso e collaborare con gli altri. Magari qualcuno si presenta alle 8 di sera e trova qualcun altro che sta suonando e non è detto che si conoscano. Quando si lavora assieme, investendo tempo ed energia, è facile fare amicizia. E il giorno dopo a colazione di quella persona sai più di quanto tu sappia di amici che conosci da vent’anni. Per raggiungere un qualche risultato devi essere aperto, metterci un po’ di te, inseguire l’ispirazione. È contagioso.

Com’è stato collaborare con Billy Gibbons stavolta?
Lo conosco da tempo, non è uno che entra in una stanza e ti dice cosa non gli piace, il che è ottimo. È un complice, uno con cui puoi parlare delle tue scoperte, delle cose che ami. È un pezzo che abbiamo questo bel rapporto.

La persona che possiede lo studio, Dave Catching, è una specie di Cupido che mette assieme le persone. Un giorno ho detto: “Passami quel looper e fallo partire. Lo accende e parte il loop di Move Together, la canzone che ho scritto con Billy. Era un punto di partenza. Billy era fuori dallo studio che guardava il panorama e beveva una Modelo. Ha sentito quella base e ci ha cominciato a cantare sopra senza nemmeno sapere come sarebbe diventata la canzone. Ha sentito la melodia e il resto tutto assieme ed è stato bello osservarne l’espressione mentre ascoltava la musica che avevo rielaborato. Quella canzone è un buon esempio del fatto che in queste Desert Sessions non c’erano regole, non siamo rimasti fedeli ad alcun stile.

E com’è andata con Les Claypool?
Sono sempre stato un suo fan. I Primus, la sua creatura, sono eccentrici. E ha suonato con Tom Waits, un bel salto, non c’è che dire. Ha la capacità di suonare sempre in modo vitale, è incredibile. L’unico modo per imparare qualcosa è collaborare. E non ho bisogno di suonare su ogni singola canzone per godermi l’esperienza.

Ci sono canzoni su cui non suoni?
Sì, ad esempio Something You Can’t See. Avevo bevuto un po’ quella sera ed ero andato a letto presto. Quando sono arrivato in studio la mattina dopo, la canzone era pronta. La prima reazione è stata: wow, forse dovrei bere e squagliarmela più spesso, che è poi il motivo per cui è Jake Shears a cantare nel pezzo. Alla fine ho suonato il basso, ma quel che più conta è l’argomento della canzone, è Jake che canta dei suoi momenti di solitudine e confusione in quanto gay e lo fa su quello che a me sembra un pezzo rock da radio FM. Non è una combinazione che viene fuori tanto spesso. Ho suonato il basso, ma avrei portato il tè pur di partecipare a una cosa come quella.

Parliamo di uno dei collaboratori più strani. Com’è nato il personaggio di Töôrnst Hülpft?
Veramente è una persona reale (ride, nda). Ho pensato che Töôrnst fosse arrivato con Matt Berry, che è arrivato lo stesso giorno di Stella. Dopo un’ora e mezza gli ho detto: “Wow, dove hai conosciuto questo tizio?”. E lui: “Non l’ho portato io”. Non so quanto tu conosca Matt Berry, ti posso dire che il suono della sua voce mi affascina. In quanto al fatto che Matt non ha portato Töôrnst… è arrivato con Stella in realtà. C’è stata un po’ di confusione perché stavamo registrando – la canzone è venuta fuori in un quarto d’ora – ed è stato uno dei momenti più interessanti delle session. Oh oh, mi sono detto, abbiamo invitato in studio un perfetto sconosciuto.

Quella è una canzone importante, a modo suo. Vai nel deserto, fai una jam e spesso il risultato è pretenzioso. Non è facile non prendersi sul serio, fare qualcosa di volutamente stupido e orecchiabile, rischiare. Ci voleva un brano infantile, orecchiabile, ridicolo e sciocco.

Ok, ma cosa puoi dirci di Töôrnst Hülpft? È una persona reale?
Beh, è una strana persona arrivata in studio con Stella perché, credo, hanno un amico in comune. Era disposto a fare qualcosa di davvero ridicolo e quando uno sconosciuto tira fuori una cosa del genere… Lo dico da fan dei Ween, e come ho detto, la voglia di fare qualcosa di idiota… mi sono divertito molto.

Su Reddit c’è chi è convinto che sia lo pseudonimo di Trent Reznor o Dave Grohl. È affascinante. 

(Ride) Beh, credo che questo mistero sia una delle vere gioie delle Desert Sessions.

Visto che abbiamo nominato Dave Grohl, che succede ai Them Crooked Vultures? 

La cosa assurda è che tutti vogliamo fare un altro album dei Vultures, ma abbiamo ruoli nelle nostre band, e in tutta onestà, dipende soprattutto da Dave – visto che ha fatto partire il progetto dicendoci “Ehi, volete provare questa roba?” – che ha un ruolo preciso nei Vultures. Io ho le mie cose a cui pensare e questa non mi compete. Ma sono sempre pronto a suonare nei Them Crooked Vultures. Non inseguo la cosa, capisci?

Sì, ma hai organizzato le Desert Sessions…

Beh, ho detto “inseguire”. Io ho solo invitato delle persone, se qualcuno mi avesse detto no non avrei risposto: “Beh, dovresti ripensarci”. Credo che il libero arbitrio sia un aspetto fondamentale delle Desert Session.

Io incrocio le dita e spero che i Vultures facciano qualcosa di nuovo.
Anch’io. Credo che alla fine queste cose succedono quando devono succedere, non sono uno che forza le cose. Fai musica con altri perché ne hanno tutti voglia, non per rispondere a un bisogno o per disperazione. Credo sia il modo migliore per incontrarsi e collaborare.

È passato quasi un anno dal tour dei Queens of the Stone Age. Avete suonato al tributo per Chris Cornell e insieme a Jack White. A che altro stai lavorando? 

Mia moglie Brody è impegnata in un sacco di cose e ho questi tre nanetti che abitano a casa mia e mi piace passare del tempo con loro. E francamente, credo che a volte la cosa migliore che puoi fare è stare fermo e goderti la vita, non partecipare e osservare l’orizzonte, cercare un luogo che non ti è famigliare e andarci.

Che cosa intendi? 

La chiamo non-domanda & non-offerta. Se c’è abbondanza di uno stile, non hai certo bisogno che mi metta a suonarlo anche io. Mi piace andare dove non va nessuno, se possibile. È un buon punto di partenza. Al momento, però, mi sono messo da parte, guardo le cose e per un po’ mi godo la musica da fan.

Sono passati un paio d’anni da quando sei finito su tutti i giornali per aver preso a calci un fotografo. Che cosa hai imparato da quell’esperienza?
Beh, quello è un episodio insignificante rispetto a tutte le cose che faccio nella vita. Il caso è stato ingigantito, la gente si è fatta un’idea e non c’era questa grande necessità di sentire la mia versione dei fatti, quindi non ho detto nulla. E non vedo perché dovrei farlo adesso.

No? 

Di tutte le cose che faccio, pensi che questa mi definisca? Non credo.

Non hai detto nulla all’epoca ed è passato del tempo, pensavo volessi parlarne.
Beh, se avessi voluto, l’avrei fatto. E insomma, la gente si fa un’idea e poi se ne dimentica, e quello che è davvero successo non ha importanza in un mondo in cui le opinioni si infiammano. Non era una cosa così grossa come sembrava, non ha significato granché nella mia vita.

Beh, possiamo parlare ancora un po’ se vuoi. Potresti spiegare le tue ragioni, ma dici di non volerlo fare.
Esatto.

È un po’ paradossale.
Non lo è affatto.

Ok, passiamo oltre. 

Sto aspettando.

Per concludere: credi che porterai le Desert Sessions in tour, in un modo o nell’altro?
Sarebbe divertente, ma demistificherebbe il tutto, lo renderebbe troppo simile a quello a cui la gente è abituata. Sai, ci sono tante questioni logistiche da affrontare per creare un contesto rilassato e protetto. Ma non voglio fare il leader della band che dice: “Ok, ragazzi, iniziamo le prove”. Non è questo il punto. In più, è bello quando la gente pensa “sarebbe forte vedervi dal vivo” e non può farlo. È un buon esercizio, ogni tanto, lasciare le cose come stanno e non forzarle a diventare qualcosa di diverso.

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