Jon Spencer alla Latteria di Brescia: «Abbiamo fatto quello che dovevamo, cioè rock’n’roll» | Rolling Stone Italia
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Jon Spencer a Brescia: «Abbiamo fatto quello che dovevamo, cioè rock’n’roll»

Una conversazione con il frontman della Jon Spencer Blues Explosion nella sua versione rilassata e saggia dopo le date in Italia

Jon Spencer Blues Explosion in concerto alla Latteria Molloy di Brescia - Foto di Antonio Siringo

Jon Spencer Blues Explosion in concerto alla Latteria Molloy di Brescia - Foto di Antonio Siringo

All’indomani di un concerto alla Latteria Molloy di Brescia, Jon Spencer è nella sua versione rilassata e saggia, quella che è estremamente raro vedere durante i concerti in questione. Il leader della band che ha fatto dell’energia sul palco una propria missione è l’uomo giusto con cui parlare, ancora prima che dell’album No Wave uscito qualche mese fa, di musica live e di come sia arrivata al centro della musica in quest’epoca. Lui lo aveva capito prima.

Jon Spencer Blues Explosion in concerto alla Latteria Molloy di Brescia - Foto di Enzo Curelli

Come ti recensiresti, per lo show di ieri sera?
Un concerto eccitante. Dinamico. Pieno di passione. Il che vuol dire che abbiamo fatto quello che dovevamo, cioè rock’n’roll.

Vi riesce sempre?
Ah, no, a volte non funziona come dovrebbe, anche se noi diamo sempre tutto, ci tengo a ripeterlo ogni volta. Il nostro atteggiamento è sempre quello di una garage band che debutta, e usa tutta la sua ossessione per comunicarla pubblico. Però, essendo anche professionisti con qualche anno di carriera, quando qualcosa per qualche motivo non va per il verso giusto, lo capiamo e cerchiamo di fare dei cambiamenti in corsa che si adattino al particolare pubblico o situazione. Ma in definitiva, se come noi ti prendi dei rischi, tipo non avere mai una setlist definita, ci sta di non avere sempre la stessa reazione.

E a quel punto?
Prendo atto e mi dico che la prossima volta non succederà. Anni fa me la sarei menata, ma invecchiando diventi più gentile con te stesso. Del resto, non ho sbagliato niente. E anche se ho sbagliato, so che solo l’1% del pubblico se ne accorge.

Tu sei di una generazione che comunque credeva molto negli album – e per farli avete usato anche dei produttori importanti. Ma quando hai iniziato a pensare che il live act potesse essere più importante?
Io ho sempre amato sia gli album che i concerti, e amo gli album tuttora, sono molto importanti per una band, tuttora compro vinili in continuazione. Ma devo ammettere che la vera sincerità del rock, il canale che parte dal cuore dell’artista e arriva a quello del pubblico, l’ho sempre individuata nel concerto. Non parlo solo di rock’n’roll in senso stretto, io credo che James Brown, Black Flag e tanti nomi del mondo hardcore così come i primi grandi del rhythm’n’blues avessero quel fervore. Ora il live è al centro del music business solo perché è il modo di fare soldi, punto.

Il vostro ultimo album No wave era dedicato a una scena musicale di parecchi anni fa, in effetti precedente anche alla formazione dei Jon Spencer Blues Explosion. Hai nostalgie di qualche tipo, per la musica com’era prima e come non è più?
Ho diverse risposte.

Beh, bene.
Per quanto riguarda l’album, è una specie di tributo a casa nostra, a un momento di intensità musicale incredibile che ha consacrato New York come luogo in cui la musica diventava arte. Ruolo che ha mantenuto anche dopo, basta pensare all’avvento dell’hip-hop. Poi, per quanto riguarda le nostalgie, posso dire che mi manca la scena underground degli anni 80 pre-Nirvana.

Jon

E nel post-Nirvana cosa è successo?
Coi Nirvana è finito il vero underground indipendente. Quello fu un periodo molto importante per me e mi manca. Il che non significa che sia qui a dire che il rock è morto o altre stupidaggini, c’è sempre qualcuno che si fa avanti, nuove band innamorate della musica, nuovi artisti con qualcosa da dire e con il cuore per dirlo. Ci sono band che si sono sciolte e mi mancano, ci sono musicisti che sono morti e mi mancano molto, ma il rock’n’roll va avanti e sorprende e fa stare bene la gente.

È la tua verità definitiva sulla musica?
Beh, è una cosa che ripeto spesso quando parlo di musica – e io parlo SPESSO di musica, non necessariamente nelle interviste.

Cos’altro ti trovi a ripetere spesso?
Che il duro lavoro e la voglia di fare vera musica pagano sempre.

Chi è il tuo eroe musicale, alla fine?
Ne ho tantissimi, da James Brown a Chuck D dei Public Enemy, da Mark E. Smith a Iggy Pop…

Dai, UN nome.
Va bene: Rufus Thomas. Ha fatto musica per tutta la sua vita, musica fuori da ogni schema eppure rimanendo sempre fedele a se stesso. Vorrei vivere come ha vissuto lui ma sarà durissima.

E fuori dalla musica?
Dovrei dire Marie Curie, per mandare un messaggio serio.

Non sei tenuto.
Però un po’ sì, perché la scienza in America è messa in crisi da una manica di disperati che ne negano le conquiste. Comunque ammetto di non conoscere il suo lavoro tanto quanto quello di Stanley Kubrick.

Quale film, sugli altri?
2001 Odissea nello spazio. Quando lo vidi da piccolo ebbe un impatto enorme su di me. Anche per l’uso incredibile della musica: Kubrick ha insegnato agli altri registi a raccontare con la musica.

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