John Fogerty ha reinciso una ventina di pezzi tra i più noti della sua band per Legacy: The Creedence Clearwater Revival Years, una mossa alla Taylor Swift che in realtà non è che l’ultima tappa di un lungo percorso fatto riprendersi quei brani. Per anni Fogerty è stato coinvolto in aspre battaglie legali col discografico Saul Zaentz, proprietario del catalogo dei Creedence. L’episodio più clamoroso di questa lunga guerra? Quando Zaentz lo ha citato in giudizio (senza successo) accusandolo di avere plagiato se stesso visto che il pezzo del grande ritorno di Fogerty negli anni ’80 The Old Man Down the Road era troppo simile a Run Through the Jungle dei Creedence.
Due anni fa Fogerty è finalmente tornato in possesso dei diritti editoriali delle canzoni che ha scritto per i Creedence, una vittoria che ha vissuto come una liberazione dopo decenni in cui si è sentito come un «prigioniero di guerra» e in cui era talmente alienato dal suo passato da rifiutarsi di suonare quei pezzi dal vivo. È stato Bob Dylan a fargli cambiare idea, avvertendolo che se non avesse ripreso a cantare Proud Mary, la gente si sarebbe convinta che era di Tina Turner.
Hai recuperato i diritti editoriali delle canzoni dei Creedence Clearwater Revival solo due anni fa. È stato un lungo percorso…
Sono l’autore di quelle canzoni e ne sono sempre stato orgoglioso, ma dal punto di vista legale ed economico, e anche della consapevolezza del pubblico, le cose non sono andate bene. Ricordo di aver letto una volta una recensione su di me, da qualche parte in Europa, in cui si diceva che non sono un nome affermato. Ed è vero da molti punti di vista. È stato frustrante non avere quella riconoscibilità, perché i Creedence Clearwater Revival ero io.
Sapevo che erano pezzi buoni e ho continuato a pensarlo anche quando è andato tutto storto dopo lo scioglimento dei Creedence. Lo sapevo, eppure mi sentivo uno straccio. Racconto spesso della Rickenbacker che ho riavuto indietro. È un fatto simbolico. Ora lo capisco ma all’epoca, quando la regalai, no. Perché mai dare via la chitarra che avevo suonato a Woodstock, su cui avevo scritto delle canzoni, che avevo usato in tante incisioni, ad esempio in Up Around the Bend? L’ho regalata a un ragazzino di 12 anni che mi aveva chiesto se avessi una chitarra da dargli. Ero talmente depresso che pensavo di poter dare via tutti i miei problemi e ricominciare da capo. Ma non era così semplice.
Cos’hai imparato di quelle canzoni, tutti questi anni dopo, quando le hai reincise?
Non immaginavo che avrei dovuto scavare tanto a fondo. Non è come cantare Proud Mary in concerto. In un certo senso, si trattava di tornare ad avere 23 anni, ricordare com’era la radio allora, cosa succedeva nel mondo, ritrovare insomma lo spazio interiore in cui mi trovavo quando ho scritto Proud Mary. Sono tornato con la testa e il cuore a quell’epoca. Julie (la moglie, ndr) ha detto che lo si capiva dall’espressione che avevo sul viso. Dopo mesi di lavoro, ho maturato un rispetto e una consapevolezza molto più profondi di quello che ho fatto nel ’68 o nel ’69 e che in un certo senso è paragonabile ai Beatles. Anzi, io non avevo altri due ragazzi con cui scrivere.
Come sei riuscito all’epoca a tirar fuori tutta quella musica incredibile pubblicando tre album classici solo nel 1969?
Alla fine del 1968 pensavo a Suzie Q e mi dicevo: sono una one hit wonder. Ero ossessionato in modo maniacale. Restavo sveglio tutte le notti, scrivevo canzoni tutto il giorno, pensavo costantemente a cosa fosse meglio per la band. Sono riuscito a fare quei tre album lavorando più duramente di chiunque altro, un po’ fare due o tre lavori, due o tre turni.
I contrasti con i tuoi ex compagni dei Creedence sono noti. Ma c’era qualcosa di speciale in quel gruppo di persone o pensi che avresti potuto farcela anche accompagnato da qualsiasi altro trio di musicisti?
Non basta prendere uno a caso e metterlo a suonare, l’ho imparato da bandleader, è un terno al lotto. Quando i miei due figli sono entrati nella mia band è scattata subito la magia. È una questione biologica. Shane e Tyler hanno esattamente il feeling che cerco. E ovviamente questo valeva anche per Tom (Fogerty, il fratello e membro dei Creedence morto nel 1990, ndr). Anche se era limitato come chitarrista – non aveva tecnica, né anni di lezioni alle spalle – era dotato di un gran senso del ritmo, sapeva suonare parti ritmiche eccezionali. Lo stesso per Doug (Clifford, il batterista, ndr) e Stu (Cook, il bassista, ndr).
Si trattava in sostanza di cercare di far capire loro cosa andavo cercando. Quei dischi sono stati fatti da quattro persone, una combinazione non si è più ripetuta. Quindi sì, quei quattro esseri umani erano unici. Può sembrare un modo indiretto di dare loro credito, ma non è quello che voglio fare. Il marchio che abbiamo messo su quei dischi è nato naturalmente, perché le intenzioni erano giuste: volevamo raggiungere quel luogo misterioso lassù in cielo. E ci siamo arrivati.
Da bambino, nel 1953, fantasticavi di essere in una band e di essere nero. È incredibile se pensi a quanto razzismo c’era in America a quel tempo.
Non è diverso da quando hai 9 anni e immagini di essere un giocatore di baseball, magari Willie Mays. La musica che amavo nei primi anni ’50 era l’R&B, era la più autentica, pura e profonda. L’idea del razzismo non mi sfiorava proprio. Quasi tutti i miei eroi nello sport e nella musica erano neri. Ho fatto un’eccezione per Elvis, ma non per Pat Boone. Ain’t That a Shame rifatta da Pat Boone era la cosa più stupida che avessi mai sentito.
Ti sei mai chiesto se avessi il diritto di cantare il blues o, come hai fatto coi Creedence, una pezzo come Cotton Fields di Leadbelly?
Sono consapevole di essere un bianco della classe media. È una domanda che aleggia ancora oggi. Quando ho scritto Proud Mary ho iniziato subito a cantare “boinin’” (al posto di burning, ndr) e “toinin’” (al posto di turning, ndr) senza manco sapere il perché. Molti anni dopo, ascoltando Howlin’ Wolf, l’ho sentito usare un’espressione simile e mi sono detto che forse è da lì che l’avevo presa. La cosa mi sembrava legittima perché era sincera. Chi lo fa in modo ruffiano o stupido è da prendere a schiaffi, e vale per tutti, anche se fossi io a farlo.
È ovvio a questo punto che le tue canzoni vivranno per sempre. Questo, in qualche modo, influenza il modo in cui pensi alla morte?
(Ride forte) Oggi, guardando la tv, ho visto una serie di spot medici in cui alla fine dicono cose tipo: «Gli effetti collaterali possono includere diarrea e morte». Potrebbe essere una canzone, Diarrhea and Death. Devo ammettere che non ho mai fatto caso all’orologio, per così dire, o alla fine del campo da gioco. Ma arrivi a 80 anni e pensi che è un numero che fa paura. In quanto alle mie canzoni, ho sempre saputo che sarebbero durate a lungo. Nel momento stesso in cui ho scritto Proud Mary – ed è stata la prima volta che mi è successo – ho guardato la pagina e ho pensato: oh mio Dio, ho scritto un classico.
Torniamo al 1969. Pochi musicisti hanno vissuto un anno del genere. Hai pubblicato gli album Bayou Country, Green River e Willy and the Poor Boys. Dopo le cose sono diventate dure. Com’è possibile che tu abbia concentrato così tanta creatività in quei 12 mesi fino ad esaurirti?
C’è una ragione per cui ho fatto quei tre album in quell’anno. Alla fine del 1968 non c’era nulla di sicuro per i Creedence Clearwater Revival. Il nome mi sembrava più forte della band. Era un nome di livello mondiale, ma la band non lo era ancora. Eravamo ancora un gruppo da jukebox che suonava nei locali della California settentrionale. Dopo Suzie Q mi sono detto: c’è voluto tanto per arrivare qui, ora ho solo cinque minuti per fare il passo successivo, perché presto i riflettori passeranno ai Led Zeppelin o a qualcun altro, sarà finita se non tiro fuori qualcosa ora, adesso. Mi sono detto letteralmente: «John, devi farcela solo con la musica». Guardandomi attorno non c’era nessuno nel mio orizzonte. Ero in mezzo all’oceano a bordo di una canoa e non c’era nessuno che potesse aiutarmi. Dovevo cavarmela da solo.
La voce non ti ha mollato, riesci ancora a fare i pezzi nelle tonalità dell’epoca. Come fai a cantare in quel mondo senza distruggerti le corde vocali?
Non la rovini se urli in modo musicale, controllato, senza sforzo. Ma se sei così preso dalla passione da riversare tutti i tuoi problemi nella voce, allora puoi distruggerla e piuttosto in fretta, mi è successo un’infinità di volte. Un’altra cosa che capita, soprattutto a chi è nervoso e tiene dentro le preoccupazioni come me, è che ti prende lo stomaco. Molti si beccano ulcere. Prima ancora, il reflusso. Senza cure e informazioni mediche, non ti accorgi che mentre dormi risale e ti colpisce le corde vocali. La mattina dopo ti svegli e parli che sembri Wolfman Jack. Mi è successo spesso negli anni ’90 e lentamente ho imparato a controllare la dieta e a restare più calmo.
Come ti piacerebbe essere ricordato?
Un tempo pensavo di dover nascondere la musica brutta che avevo fatto, le cose realizzate quando non stavo bene. Mi vergognavo di me stesso. Ero alcolizzato. L’alcol governava la mia vita. Ero infelice e non c’era luce nella mia vita. Mi vergognavo delle cose che facevo e di me stesso. La svolta è stata quando ho incontrato Julie. Ne sono uscito con l’aiuto di una persona meravigliosa. In quel periodo cercavo solo di sopravvivere. Mi sentivo come un prigioniero di guerra. E la guerra era contro Saul Zaentz. Era come essere in una cella di isolamento con le luci sempre accese, senza poter dormire. Per non impazzire, per combattere mi tenevo occupato, ma le canzoni che incidevo erano senza vita, come bloccate nel tempo, rigide, prive di gioia. Se le riascolto non mi piacciono, mi fanno ricordare come mi sentivo.
Oggi mi considero l’uomo più fortunato al mondo. Sono vissuto abbastanza a lungo da incontrare la persona giusta che mi ha fatto sentire fortunato per i giusti motivi. Perché la vita vera, la realtà è più importante di qualsiasi carriera. E la benedizione è che Julie è entrata a far parte della mia carriera di cui ci occupiamo assieme. Questo direi: sono un musicista che ha amato la musica e che ha cercato di rispettarla per una vita intera.
Da Rolling Stone US.













