Joe Walsh: La mia vita negli Eagles | Rolling Stone Italia
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Joe Walsh: La mia vita negli Eagles

Il chitarrista ci racconta come è sopravvissuto ai suoi amici John Belushi e Keith Moon e ci spiega perché la band di “Hotel California” era una dittatura democratica che funzionava

Foto: Stampa

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Qual è la parte migliore e la peggiore del successo?
Non ho mai dovuto lavorare in fabbrica, e questa è una benedizione. La parte peggiore sono le distrazioni: soldi, donne, feste. Quando sei giovane è facile perdere la prospettiva. A un certo punto ho iniziato a credere davvero di essere ciò che la gente pensava io fossi: una rock star pazza. Sapete, Life’s Been Good, quella storia lì. Quella vita mi ha strappato alla mia arte. Io e un’intera generazione di ragazzi abbiamo preso parte a una corsa sfrenata, eravamo dei mostri da festa. Rimanere vivi è stata una vera sfida.

Molti dei tuoi amici–Keith Moon, John Belushi–non ce l’hanno fatta. Tu come sei riuscito a sopravvivere?
Ci penso ogni giorno. La gente mi chiede se credo in Dio, e io rispondo che un po’ sono costretto, perché sono ancora qua. Non avevo pianificato di vivere così a lungo.

Quali sono le tue regole di vita?
La famiglia prima di tutto. Ho passato anni solitari: ero io contro il mondo, ma ora ho una famiglia che si prende cura di me, e io mi prendo cura di loro. Ho anche imparato a non imprigionare le emozioni. E a non mandare mail quando sei incazzato. O meglio: le puoi scrivere, ma non mandarle. Perché il giorno dopo tutto sarà passato, ma tu penserai: “Oh, man, l’ho fatto di nuovo. Che coglione che sono”.

Il miglior consiglio che hai ricevuto?
Un monaco buddista mi disse di stare attento a ogni respiro. “Se lo farai, vivrai ogni momento. Risparmierai tempo e magari scoprirai qualcosa dal passato, o riuscirai a addentrarti nel futuro e potrai scrivere il copione del tuo domani”. Inoltre medito. Godersi l’attimo è tutto.

Chi sono i tuoi eroi?
Les Paul è stata una delle persone più fighe del pianeta. Ha inventato le chitarre che portano il suo nome, e la registrazione musicale per come la conosciamo. Subì un incidente d’auto e gli dissero: “Non suonerai più”, perché aveva rotto le braccia in quattro punti diversi. Si sedette e iniziò a suonare, dicendo: “Non c’è problema, sistematemi il braccio in questo modo. Avanti con l’ingessatura”.

Quale consiglio avresti voluto ricevere riguardo all’industria musicale, prima di iniziare la carriera?
Mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi dicesse: “Fai attenzione a questo business”. Pensavo fosse solo una forma d’arte. Per l’industria musicale, invece, chi ruba di meno è onesto. E poi, non firmare nulla. Ancora oggi finisco nei casini per cose che ho firmato a 23 anni. Qualcuno avrebbe dovuto dirmi: “Guarda, puoi anche essere un idiota, ma cerca di essere un idiota furbo”.

Qual è l’acquisto più folle che hai mai fatto?
Ho sempre avuto una fantasia: “Comprerò una terra e vivrò lontano da tutto. Andrò a caccia come Ted Nugent e intaglierò il legno con le mie mani”. Così, quando ho preso le prime royalties dagli Eagles, ho trovato una fattoria da 300 ettari, con un laghetto, in Vermont. Ma poi ci dovevo vivere, ed era dura. Dovevo svegliarmi alle cinque, perché c’era un sacco di roba da fare. E intagliare non era divertente. Gli inverni non lo erano. Non trovavo nessuno che volesse prendersi cura di quel posto, e l’ho venduto. Certi posti sono migliori, se rimangono delle fantasie.

Qual è il tuo libro preferito?
L’uomo illustrato, di Ray Bradbury. Lo lessi per la prima volta a 10 o 11 anni. Ti risucchia. Dentro ci sono almeno otto libri: ciascuno riguarda uno dei tatuaggi che un personaggio ha sul corpo, che di notte prendono vita. Un’immaginazione incredibile, un capolavoro!

Suonerai con gli Eagles nelle prossime settimane. Deve essere agrodolce senza Glenn Frey.
Ci sono un sacco di sensazioni che si mischiano in me, ma penso proprio che staremo bene.

Deacon, il figlio di Glenn, ora fa parte della band. Come se la cava?
Alla grande. Non se la mena: arriva e fa il suo. Mi piacerebbe che noialtri fossimo tutti così.

Hai definito gli Eagles “una democrazia con due dittatori”. È stato difficile per il tuo ego?
Be’, sono io a essere entrato nella loro band. Sì, era una dittatura democratica. Mettevamo le decisioni ai voti, poi Frey e Don Henley facevano quello che volevano.

Nel 1980 hai corso per le presidenziali americane. Se avessi vinto, avresti fatto meglio di Donald Trump?
Certo, basta il buon senso. Non penso che Trump sappia governare, e nemmeno gli importa. Non combinerà granché. Io so com’è fatta un’organizzazione che deve prendere decisioni delicate. Gli Eagles erano così. Ma noi i nostri impegni li abbiamo sempre portati a casa

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