Joe Lynn Turner ha due o tre cose da dire sui Rainbow e i Deep Purple | Rolling Stone Italia
Il sostituto

Joe Lynn Turner ha due o tre cose da dire sui Rainbow e i Deep Purple

Intervista al cantante che ha sostituito Ronnie James Dio e Ian Gillan ed è stato «coperto di merda»: la follia di Ritchie Blackmore, gli intrighi dei manager e di Candice Night, i fan conservatori. E sì, anche il parrucchino: «Non lo ammettono, ma lo portano anche David Coverdale e Gene Simmons»

Joe Lynn Turner ha due o tre cose da dire sui Rainbow e i Deep Purple

Joe Lynn Turner con Ritchie Blackmore ai tempi dei Deep Purple, 1991

Foto: Niels van Iperen/Getty Images

Ronnie James Dio e Ian Gillan sono due dei cantanti più amati nella storia dell’hard rock. Dopo aver cantato classici dei Rainbow e dei Deep Purple come Man on the Silver Mountain e Smoke on the Water, era difficle immaginare che qualcuno potesse sostituirli degnamente. Quando hanno mollato le due band, Ritchie Blackmore è andato a bussare alla porta dello stesso cantante: Joe Lynn Turner.

Turner è stato dal 1980 al 1984 il frontman dei Rainbow, che con lui hanno centrato successi come Stone Cold e Street of Dreams. Nel 1990 è entrato nei Deep Purple per l’album Slaves and Masters e il relativo tour. I fan non erano ben disposti nei suoi confronti, il disco non ha venduto granché ed è stato stroncato dalla critica. Gillan è tornato nella band poco dopo la fine del tour, per restarci.

«I fan faticano a conciliare ciò che sono abituati a sentire con qualcosa di nuovo», dice Turner in collegamento via Zoom dalla sua casa nell’Europa orientale. «Non importa chi tu sostituisca o come canti, se non percepiscono quella sensazione familiare ti mettono in croce. E io sono stato crocifisso più volte».

Da ragazzo amavi i Rainbow e i Deep Purple?
Soprattutto i Deep Purple. Però conoscevo Dio dai tempi in cui suonavamo nei club. Ronnie veniva da Cortland, New York. Ci esibivamo negli stessi locali a Utica e Cortland e in altri posti nel Jersey e nel Connecticut. C’era un circuito e finivi per conoscere gente come Ronnie quando era negli Elf o Lou Gramm quando era nei Black Sheep.

Quando sei entrato in contatto con Ritchie?
Stavo in un monolocale nel West Village ed ero a corto di soldi, cercavo ingaggi e andavo alle audizioni con la chitarra in spalla. Un giorno squilla il telefono. Era un tipo chiamato Barry. Solo più tardi ho scoperto che era Barry Ambrosio, l’assistente personale di Ritchie. All’inizio non mi ha detto chi era, faceva solo un sacco di domande. Pensavo che fosse l’amico di un amico che mi faceva uno scherzo. Diceva: «Ti piacciono i Deep Purple? Ti piace Ritchie Blackmore?». E io: «Senti, adesso riattacco perché è ridicolo. Chi sei?». E lui: «Sono Barry, l’assistente personale di Ritchie. Lui è proprio qui e vuole parlarti». A quel punto Ritchie ha preso il telefono: «Ehi, amico, ti va di venire a fare un provino?». Ancora non gli credevo, perciò m’ha detto: «Senti, ti metto in contatto con Colin Hart, il tour manager, che ti darà i dettagli». Colin mi ha procurato un biglietto del treno ed è venuto a prendermi a Syosset, Long Island, per raggiungere lo studio dove c’erano Ritchie e Roger [Glover]. Dopo cinque o dieci minuti, mi hanno fatto entrare e cantare. Il resto è storia.

Eri agitato?
Certo, ma da una parte avevo un gran bisogno di un ingaggio e dall’altra fortunatamente non mi rendevo conto di quanto fosse importante. A un certo punto mi hanno proposto canzone nuova intitolata I Surrender. Ho chiesto di cambiare alcune cosete. «Fai come vuoi», m’hanno riposto e allora l’ho cantata a modo mio. Ho poi ricevuto i complimenti dell’autore del pezzo Russ Ballard, che mi ha detto che la performance era meravigliosa e che avevo inserito cose diverse, ma mica mi ha accreditato come co-autore. Amen. È stato così che li ho convinti, anche per il fatto che sapevo scrivere. Ho sempre con me un bloc-notes e scrivo di continuo testi, poesie, o come li vuoi chiamare. Molti dei brani che mi hanno proposto erano in una fase primordiale, perciò ho dovuto inventare melodie e testi sul momento.

Rainbow - I Surrender (Official Video) Remastered Audio UHD 4K

Come ti hanno comunicato che avevi ottenuto il posto?
Una mezz’ora o tre quarti d’ora dopo, Roger e Ritchie hanno annuito, un bel segno. Ritchie è arrivato con due birre, me ne ha allungata una e ha detto: «Hai il lavoro, se lo vuoi». Se lo voglio? Ne avevo bisogno. Dovevo giusto tornare in città a prendere dei vestiti. Ma Ritchie dice «no, resti qui, ti sistemiamo in un albergo con Roger, devi iniziare a scrivere. Se hai bisogno di qualcosa come jeans e magliette, te li compriamo noi». E questo è quanto. Non sono mai tornato indietro (ride).

Stiamo parlando del disco che avevano iniziato con Graham Bonnet, il cantante che hanno avuto per un breve periodo dopo Dio, giusto?
Sì, su I Surrender c’era la voce di Graham, anche nei cori e in tutto il resto. Ho rifatto tutto col mio stile che è un po’ più soul e roots. A loro è piaciuto molto. Anche a Ballard, ovviamente, visti poi i suoi commenti. All’inizio pensava che fosse una canzone da scartare.

Tutti sostengono che in quel periodo Ritchie voleva ottenere un suono moderno e radiofonico come quello dei Foreigner. È vero?
Vero, voleva entrare in classifica. Ritchie è Ritchie, fa quel che gli pare. Voleva un approccio più commerciale e accessibile. Uno dei suoi gruppi preferiti sono gli ABBA. Ama la melodia. Me l’ha detto esplicitamente: «Guarda, stiamo cercando questo approccio: meno Dungeons & Dragons e più concretezza. Vogliamo parlare alla gente».

Graham Bonnet è durato solo l’arco di un album e poi è stato cacciato. Non hai avuto paura che potesse accadere anche a te?
Certo, non si è mai sicuri di nulla, ma mi ci sono gettato anima e corpo. Ritchie è uno che vuole le cose fatte in un certo modo e te lo dice in faccia. Ci sono stati scontri, frizioni, ma c’era rispetto reciproco e, quando scrivevamo, lo facevamo mettendoci al servizio della sua visione. Non dimenticherò mai quello che è successo su Street of Dreams. La storia l’ho letteralmente sognata. È una cosa molto personale e ancora oggi sono sposato con la ragazza del pezzo. Sono arrivato in studio mentre Ritchie stava cercando di suonare l’assolo di chitarra. Mi ha detto: «Non ci riesco, la tua voce mi intimidisce». M’ha spiazzato. Allora sono andato a prendere un paio di birre dal frigorifero. Gli ho detto: «Edda, amico, vai lì e suona le melodie che ti va, ché sei bravissimo». All’improvviso, c’è stato un rumore fortissimo. Un fulmine aveva colpito l’asta sul tetto dello studio di Copenaghen, in Danimarca. Si sono spente tutte le luci e siamo rimasti a luce di candela. «Porca puttana», ci siamo detti. Sai, eravamo appassionati di quella roba legata alla magia nera. È un segno, ho detto. Lui è entrato in studio e, a lume di candela, hanno fatto partire un generatore per stabilizzare la velocità dei registratori a bobina, sai, se ci sono sbalzi di corrente il suono viene compromesso. È entrato, ha suonato, è uscito e le luci si sono riaccese. Che atmosfera magica. Commovente. Era un segno, ne eravamo certi.

Rainbow -- Street Of Dreams [[ Official Video ]] HD

Negli anni ’80 l’industria musicale stava cambiando grazie a MTV. L’elemento visivo stava diventando fondamentale. Provavi sentimenti contrastanti a tale proposito?
Be’, sì. Non siamo mai stati entusiasti di fare i video. Per farcene girare uno dovevi costringerci con la forza. Volevamo stare in tour e basta, dei video non ce ne poteva fregare di meno. Però li dovevi fare altrimenti eri fuori dal giro. Non avevamo idea di cosa stessimo facendo, quando abbiamo girato quello di I Surrender. Per quello di Street of Dreams abbiamo interrotto un tour per un giorno. Ci hanno portati in uno scantinato e hanno girato le scene di ipnosi, per poi costruirci su una storia. Non ci interessava granché, anzi, nulla. Forse sbagliavamo perché tutte le altre band, i gruppi hair metal, non facevano altro che mostrare belle ragazze con culi sodi e tutte quelle altre stronzate. A noi non andava.

Se un video andava bene, finivi nelle case di tutti i ragazzi di periferia d’America. Era il miglior strumento di marketing al mondo, per una band.
Davvero, ma ora non è più così. Quando c’erano i Mötley Crüe, i Ratt, i Bon Jovi e tutti gli altri, i video erano il massimo, erano importantissimi. A noi non è mai interessato e forse abbiamo perso un treno. Ma non ce ne pentiamo. Siamo rimasti fedeli alla musica.

I tuoi ultimi concerti con i Rainbow sono stati in Giappone, nel 1984. Ricordi l’ultima serata al Budokan?
Più o meno. Ricordo il viaggio di ritorno. È stato in quel momento che ho saputo che volevano rimettere insieme i Purple. Stavo incidendo un album da solista per la Elektra, volevano farmi diventare il nuovo rubacuori rock o qualcosa del genere. Roy Thomas Baker lo produceva, il budget era di un milione di dollari. Roy è un personaggio, ho storie di ogni tipo su di lui. Io e Ritchie ci siamo promessi che avremmo rimesso insieme i Rainbow. L’idea era prendersi una pausa per poi tornare insieme. È stato [l’ex manager] Bruce Payne a metterci l’uno contro l’altro.

Rainbow - Spotlight Kid live Budokan

Mentre stavi coi Rainbow, avevi sentore che i Purple si sarebbero riformati?
Certo, perché no? Ero contento di fare un passo indietro, avevo un album da solista in uscita, avevo il mondo in pugno e l’eventuale fine dei Rainbow non mi preoccupava affatto. Anzi, ero felice che una delle mie band preferite tornasse in pista.Nel mio piccolo, ho contribuito facendo un passo indietro e lasciando che la cosa accadesse. In seguito io e Ritchie abbiamo scoperto di essere stati presi in giro, completamente buggerati. Tipico dei manager.

In che modo sei stato preso in giro?
Bruce ha detto a Ritchie che io volevo andarmene per seguire la carriera da solista, che non volevo più far parte dei Rainbow. Ritchie ci è rimasto male e in seguito me l’ha riferito. A me invece Bruce ha detto che Ritchie voleva riunire i Purple. Devi capire una cosa. La gente ancora oggi mi chiede se sono in contatto con Ritchie. Ma sai, è come un matrimonio: quando finisce, non  chiami più la tua ex. Eravamo amici, partner, colleghi. Questo non significa che le cose restino per sempre così. Eravamo tutto sommato amici, compagni d’armi per così dire.

È buffo se pensiamo che nel 1983 Ian era nei Black Sabbath e cantava Smoke on the Water a ogni concerto. Tu eri nei Rainbow, nello stesso anno, e facevi la stessa canzone quasi tutte le sere. Strano no?
(Ride) È folle. Era una cosa incestuosa. Quando leggo queste interviste di cantanti che ne hanno sostituiti altri, penso: anche Gillan era un sostituto!

E hai ragione. Ha rimpiazzato un altro cantante sia nei Deep Purple, sia nei Black Sabbath.
Il nostro albero genealogico è pieno di gente che viene e che va. Non dimenticherò mai quel che m’ha detto Don Airey: «Forse dovremmo aprire una casa di riposo per i membri dei Rainbow/Purple, servirebbero tipo 300 stanze».

Ho letto da qualche parte online che in quel periodo si parlava di un tuo ingresso nei Bad Company e nei Foreigner. È vero?
Sì, poco prima di ricevere la chiamata per i Purple sono andato a New York per un provino coi Foreigner. Erano i componenti originali della band. Avevo incontrato Mick [Jones] al China Club e lui mi aveva detto: «Senti, Lou [Gramm] è un po’ malmesso in questo momento e tu hai una voce incredibile, vieni a trovarci». Mi sono presentato e loro erano entusiasti. Ma [Bud] Prager, un altro manager che ora è morto, era un figlio di puttana. Ho ottenuto il posto, ma lui m’ha preso di mira. Cercava di intimidirmi, anche fisicamente. Ma io venivo dal Jersey, da New York, non reggevo stronzate del genere. Ero un ragazzo di strada, piccolo ma attaccabrighe. «Toglimi quelle cazzo di mani di dosso!», gli ho detto. Non gli è piaciuto. Due giorni dopo Mick mi ha chiamato e mi ha detto che Lou aveva saputo che avevo fatto il provino e che sarebbe rientrato nel gruppo, «e poi Bud Prager non ti sopporta». L’avevo capito, anch’io non sopportavo lui. Cinque o sei anni dopo, un mio amico era nell’ufficio di Prager. Ha fatto il mio nome e Prager ha di matto con lui, e questo solo perché aveva fatto il mio nome. Mi serbava ancora rancore. Era un pazzo.

E i Bad Company?
Mick mi ha detto che i Bad Company stavano cercando un cantante. Paul Rodgers è il mio cantante preferito. Ha anima, stile, estensione, atteggiamento, feeling. Lo adoro. Sono cresciuto con lui. Prima ancora di riuscire a chiamarli, ho ricevuto una telefonata da Colin Hart che mi proponeva di andare nel Vermont a fare un provino per i Deep Purple. Conoscevo Ritchie e Roger [Glover] e i Purple erano la mia band preferita, per cui ci ho provato. Ho guidato fino in Vermont dove stavano registrando in un resort sciistico abbandonato. Adoravano fare questo genere di cose, trovare case infestate e roba del genere. Sono entrato, Ritchie mi ha visto e ha iniziato a suonare Hey Joe. Abbiamo fatto una jam per una mezz’oretta. Ho stretto la mano a Jon [Lord] e a Ian [Paice], che non avevo mai incontrato. Jon ha iniziato a suonare questo pezzo di tastiera, che è poi diventato The Cut Runs Deep dall’album Slaves and Masters. In quel momento ho tirato fuori dalla mia sacca magica il testo del ritornello. Quelle sono rimaste le parole della canzone.

Prima del tuo arrivo erano in trattative con Jimi Jamison dei Survivor.
Jimi era un mio buon amico, pace all’anima sua. Non mi sono sentito in colpa, sapevo anche che Terry Brock era in lizza. Alla fine mi hanno detto che il posto era mio perché sapevo cantare, ma anche scrivere. Ritchie voleva portare i Purple fin dov’erano arrivati i Rainbow. Da qui nasce Slaves and Masters, che è una sorta di album dei Deep Rainbow. Insomma, sembra più un disco dei Rainbow che dei Purple.

Deep Purple - The Cut Runs Deep (Slaves and Masters 02)

Vi siete divertiti a inciderlo?
Parecchio. Credo che sia uno dei dischi preferiti di Ritchie. Ho appena visto un frammento di video, su YouTube, in cui dice che Slaves and Masters è fantastico. Bisogna prenderlo per quello che è, un tentativo di entrare in classifica. Solo che all’epoca stava arrivando il grunge e il tempismo è stato pessimo. Non è stato un bene nemmeno per i fan più accaniti dei Purple, che non erano pronti a sentire roba del genere. Alla fine volevano tutti il ritorno di Gillan o di Dio. È un grosso problema che alla gente non piaccia il cambiamento, fa resistenza al cambiamento.

Se da teenager hai amato i Deep Purple, e Machine Head e Made in Japan sono stati fondamentali fino a divenire quasi parte di te, ti ci aggrappi di brutto.
Vero ed è quel che è successo. Il fan club, Highway Star, mi ha attaccato duramente. Ma per quello che era e per quello che Ritchie voleva, Slaves and Masters era fantastico. La produzione era ottima, la scrittura eccellente, le interpretazioni ottime e Ritchie ha suonato benissimo. Ma la gente non voleva un disco come noi volevamo che fosse. Ian Paice ha detto in un’intervista che ero io il collante che ci teneva uniti. «Senza l’ingresso di Joe nella band, Ritchie se ne sarebbe andato». E loro non sarebbero mai tornati insieme per fare un album orribile come The Battle Rages On. Che, tra l’altro, ha venduto meno e si è piazzato peggio di Slaves and Masters, pensa un po’.

Dimmi della preparazione di quel tour coi Deep Purple. Una cosa è fare un disco, ma andare in giro, suonare le vecchie canzoni e affrontare i fan è diverso.
Come no. Eravamo convinti di aver fatto un grande disco, ci piaceva suonare i pezzi nuovi. sapevamo che dovevamo fare anche certi classici, che peraltro adoravo. Sono un fan da una vita, non c’è niente di male nel provare a farlo bene.

Eri disposto a cantare pezzi di tutti i periodi del gruppo, anche quelli dell’era Glenn Hughes.
Ma certo. So che certi cantanti si rifiutano di farlo, forse non sono in grado o forse sono solo egocentrici. Ma io sono un interprete, così ho deciso di cantarli a modo mio, tentando di rispettare lo spirito originale. Perché non avremmo dovuto suonare quelle canzoni? Solo perché c’ero io nel gruppo? Sarebbe piuttosto stupido da parte mia, egoista e arrogante. Morale: m’hanno ricoperto di merda.

Eri nervoso nei primissimi show?
Di brutto. C’era gente che chiedeva dov’era Gillan. Erano le stesse persone che vedevano i Rainbow e dicevano «rivogliamo Dio!». C’ero già passato quindi me ne sono fregato. Mio padre, che Dio lo benedica, mi disse: «Joe, se vuoi fare questa cosa, devi avere la pelle dura. Devi essere un guerriero. Non puoi lasciarti influenzare da ciò che la gente pensa o dice, che si tratti della parrucca, delle canzoni o di altro. Devi fare quello che fai, come vuoi, e vivere la tua vita». Non farsi influenzare è stato uno dei migliori consigli che mi abbia mai dato.

Eri il frontman di una band micidiale: tu e la formazione Mark II dei Purple. Che c’è di meglio?
Già, sono davvero fortunato. Sono grato, orgoglioso e onorato di aver partecipato a questa storia. È stato emozionante, un sogno che si è avverato. Porca puttana, è una gran cosa. Spesso non ci penso, perché di solito non mi guardo alle spalle, cerco di andare avanti. Ma quando mi volto indietro, mi dico che è un gran bel risultato.

Avete suonato nel periodo della Guerra del Golfo, quando molte band cancellavano i tour europei.
Quando le bombe hanno iniziato a cadere eravamo a Zagabria. La gente era entusiasta. «Siete venuti da noi, non avete paura». Non suono per i politici, sono tutti arroganti. Lo so bene, avendo viaggiato per il mondo, avendo incontrando presidenti e personalità varie. Io suono per la gente, non per gli ideologi o per sostenere le bugie che vengono dette alla gente perché creda una certa cosa. Sono oroglioso di quel che abbiamo fatto. Parlavamo con i traduttori che ci accompagnavano, chiedevamo loro cosa stesse succedendo. Per esempio, andare in Russia con Yngwie è stata un’esperienza incredibile. Era la seconda Glasnost e abbiamo fatto 22 concerti, 11 a Mosca e 11 a Leningrado. Abbiamo avuto più di 23 persone persone ogni singola sera. Sono venuti in massa. È piaciuto moltissimo. Se guardate Live in Leningrad, che è un video fantastico perché la band era caldissima e precisa, vedrete che sono impazziti. È stato un evento che mi ha cambiato la vita.

Hai capito durante il tour dei Purple se i fan europei accettavano ciò che stavate facendo più degli americani?
Difficile a dirsi, visto che impazzivano sempre tutti, non ricordo una sola serata andata male.

Deep Purple - Slaves And Masters Tour (Live at Budapest Sports Hall 1991) FullSet

L’ultimo spettacolo dei Purple con te è stato in Israele. Ricordi quella sera?
Sul Lago di Tiberiade. Prima dello spettacolo io e Ritchie eravamo sulla riva, nella hospitality, e dicevamo cose vagamente blasfeme tipo «quel lago laggiù è dove Gesù camminava sulle acque». Poi sono entrato in un bagno chimico e una fila di luci è caduta sopra di me. E Ritchie: «Le luci sono cascate proprio sul bagno chimico dove eri tu. È meglio che tu chiuda quella cazzo di bocca» (ride). Il pubblico è stato fantastico quella sera, molto disponibile. Erano tutti felici per la musica, non erano lì per giudicarmi.

Avevate già iniziato a lavorare al seguito di Slaves and Masters?
Sì.

E a che punto eravate?
Mettiamola così. Il brano One Man’s Meat [da The Battle Rages On] era in origine Stroke of Midnight, scritto da me e da Jim Peterik dei Survivor. A Ritchie piaceva molto, era davvero alla Deep Purple, con un grande riff blues. Ho sentito dire che lui, più avanti, la faceva suonare attraverso l’impianto di amplificazione quando c’era Gillan, per farlo arrabbiare, perché era una canzone fantastica. L’ho anche inserita nel mio album solista Second Hand Life.

Come ti hanno comunicato che eri fuori dalla band e che sarebbe tornato Gillan?
Ha ordito la cosa Bruce, che era un tipo piuttosto subdolo. Me l’ha dovuto dire Colin Hart. Lui ci faceva da mamma, da carnefice, da agente di viaggio. Ancora oggi vi dirà che a lui toccavano i lavori belli e quelli sporchi. Mi ha detto: «Joe, figliolo, devi fare le valigie perché non hanno più bisogno di te». E io: «Sono fuori?». «L’hai detto tu, non io. Ma ti aiuto a fare le valigie». Gli ho chiesto  il motivo. «Non me lo dicono mai il motivo». Gli ho detto che non mi importava, tipo: «A questo punto, anch’io sono incazzato con tutti. Non mi piace come stanno andando le cose, troppe stronzate in ballo, questa non è una band dice ci si guarda le spalle a vicenda, dove ci si prende cura l’uno dell’altro». Gli ego erano giganteschi. Era un finale triste e deludente, ma sapevo che sarebbe arrivato. E sapevo che era una questione di soldi. Anche Ritchie, appena ha potuto, se n’è andato. Ha preso i soldi e se l’è svignata.

Un paio di anni dopo l’uscita di Slaves and Masters, Jon Lord ha rilasciato delle interviste in cui è stato molto critico nei confronti dell’album e del tuo periodo nella band. Ti ha infastidito la cosa?
Mi ha dato fastidio perché è stato ipocrita… mi dispiace, volevo bene a Jon, ma è stato ipocrita nei miei confronti. C’era solo una canzone che non gli piaceva, Love Conquers All. Quasi si rifiutava di suonarla. Io ero in cabina di regia e lui ci stava mettendo in difficoltà. Ho premuto il pulsante del talkback e gli ho detto: «Jon, cazzo, perché non suoni per bene questa canzone e lasci che mi occupi io del resto?». Non credo l’abbia apprezzato, per via dell’anzianità, dell’ego e tutto il resto, che Dio l’abbia in gloria. Ma quella canzone è diventata molto popolare e lo è ancora oggi. La gente la chiede. Non porto rancore a nessuno, ma ho dovuto accettare certe cose per far parte della band. Era un dare e avere.

Quando Ritchie ha rimesso in piedi i Rainbow, nel 2016, perché non c’eri? Ti hanno chiamato?
Te lo spiego in breve. Mesi e mesi prima, il mio amico Barry Summers, che ha fatto il film in 3D dei Guns N’ Roses, voleva fare la stessa cosa per la reunion dei Rainbow. Io ero spesso al telefono con Carole [Stevens], la manager di Ritchie, che è la madre di Candy [Night]. È stata lei a convincere Ritchie che volevo metà di tutto e che chiedevo milioni di dollari. Ne ho parlato con Rick Franks di Live Nation, che allora era il numero uno. Abbiamo fatto una teleconferenza con altri quattro o cinque agenti e all’improvviso ho sentito: «Pronto, sono Rick Franks». E poi il silenzio. Era come se fosse entrato il re. Io manco sapevo chi fosse. Mi ha detto: «Joe, se riesci ad avere il consenso di Blackmore, ti proporrò 164 date all’anno. Ti farò avere i posti migliori nei cartelloni dei festival. Sarai special guest. Scegli tu. Bla bla bla. Perché la tua idea di una reunion è perfetta». Volevo chiamare Doogie White. Volevo chiamare Graham Bennet. Se Ronnie James Dio fosse stato vivo, l’avrei chiamato. Volevo che tutti gli ex membri facessero un bel concerto di due ore, due ore e mezza. Molte persone, tra cui mia moglie, che ha la metà dei miei anni, amano i dischi, ma non ci hanno mai visti live. Volevo organizzare una cosa così.

E poi?
Barry mi ha dato l’ok. Ho avuto il via libera da Rick. Ho cercato di convincere Carole, ma lei è una maniaca del controllo: chiunque te lo potrebbe confermare. Ho saputo da una fonte molto affidabile, un insider, un produttore, quello che lei andava dicendo di me. Raccontava un mucchio di balle. Mi hanno offerto una paga, ho chiesto una percentuale, lei ha mandato a monte tutto quanto. A quanto pare, Candy ha trovato questo cantante [Ronnie Romero] su YouTube, ha convinto Ritchie a ingaggiarlo e l’hanno pagato una miseria. Ecco qua il vostro cantante sostitutivo: quel tizio non ha mai scritto una sola canzone. E hanno chiamato quella band Rainbow. Non erano i Rainbow manco per un cazzo. Era una truffa. Ritchie, facendo quello che avevo in mente io, avrebbe guadagnato più soldi di quanti ne abbia mai fatti con lei.

I fan sono rimasti molto contrariati. Non volevano vedere dei turnisti, volevano i veri membri del gruppo.
Lui aveva i Blackmore’s Night come band. Ho visto dei video. Non c’era passione, non c’era niente. Era tutto piatto, inutile. E Ritchie non ha neppure suonato bene. Sulla stampa l’ho accusato direttamente di aver distrutto il nome della band ed è vero. Io dico quello che penso.

Stroke of Midnight - M

Cosa pensi della scelta di Ritchie, negli anni ’90, di abbandonare l’hard rock per dedicarsi al folk-rock medievale?
Ho sempre saputo che gli piaceva quel genere di musica. Adorava un quartetto tedesco che suonava nei castelli in cui alloggiavamo. Era un grande fan e li seguiva dappertutto. Non mi ha affatto sorpreso che abbia iniziato con i vestiti e tutto il resto, era una sua passione. Diceva sempre di essere nato nel XVI secolo e di non appartenere a questo mondo. Ti voglio raccontare una storia su Candice (ride). Durante le registrazioni di Slaves and Masters, in Florida, stavamo facendo una partita di calcio di beneficenza con lo staff di una stazione radio locale. Dopo la partita, mentre mi toglievo le scarpe da ginnastica e mettevo tutto nella borsa sportiva, è arrivata una ragazza, mi ha salutato, mi ha fatto un sacco domande e a un certo punto ho capito che pensava che io fossi Ritchie. «Scusa, come ti chiami?». E lei: «Candy». L’ho squadrata per bene e le ho detto: «Scommetto che sei dolce come una caramella» o qualcosa di ugualmente maschilista. «Io non sono Ritchie, sono il cantante. Ritchie è di là, sta facendo un’intervista». Si è scusata ed è andata da lui. Questo è tutto. Ah, mi ha anche chiesto: «Che tipo di musica gli piace?». E io: «Sincero? Roba rinascimentale».

E la storia va avanti, dopo decenni.
Del resto lei ha sempre desiderato essere una cantante famosa.

Possono fare la musica che vogliono, ma per molti rockettari è una follia, la loro.
Nessuno ha mai detto che lui fosse sano di mente (ride). Genio e follia sono separati da una linea sottile e credo che lui l’abbia oltrepassata.

Quando è stata l’ultima volta che hai parlato con Ritchie faccia a faccia?
Anni fa, forse all’inizio degli anni ’90.

Cosa pensi della formazione attuale dei Deep Purple?
È cambiata di nuovo e per una buona ragione. La moglie di Steve [Morse, il chitarrista] è molto malata. Penso che lui sia una persona splendida perché le è stato vicino e l’ha aiutata ad affrontare il tumore. Speriamo che ce la faccia. E Simon McBride è un chitarrista brillante. Il punto è proprio questo, ci sono state tantissime incarnazioni dei Deep Purple, per cui che problema ha tutta la gente? Perché non chiudono quella cazzo di bocca e si godono la musica per quella che è? Non riesco a capirlo.

Di recente hai fatto notizia quando hai parlato per la prima volta della calvizie precoce che ti affligge fin da ragazzo, causata dall’alopecia. Perché hai deciso che era giunto il momento di affrontare pubblicamente l’argomento?
Non ho mai cercato di nasconderlo, era un segreto di Pulcinella, ma ai tempi i capelli erano importanti (ride). Stavo cercando di emergere in questo settore e i capelli erano fondamentali. La mia unica opzione, dopo essere stato vittima di bullismo a scuola, era indossare un parrucchino, una parrucca, un posticcio, chiamalo come vuoi. Mi è servito. Mia moglie mi ama così, mi sono accettato come sono. Ho detto: e che cazzo, sto facendo un album metal, ho un aspetto più brutale in questo modo. Forse era destino. Dio opera in modi misteriosi. Bene così. Quando farò uno spettacolo classico dei Deep Purple/Rainbow, mi metterò i capelli finti perché è così che la gente mi conosce. Ma quando faccio Belly of the Beast, me li tolgo. È una cosa teatrale. Il 98% dei musicisti di oggi indossa parrucche o parrucchini, che si tratti di David Coverdale o di Gene Simmons o di chiunque altro. Non vogliono ammetterlo: non importa, non m’interessa. Ma io ho smesso di farlo. E sono libero di fare ciò che voglio. Se voglio mettere una parrucca, lo faccio. Se non voglio, non lo faccio. Ho il controllo e gli altri non hanno alcun potere su di me. Devo dire che è una bella sensazione visto che tutto ruotava intorno alla parrucca. La gente chiedeva: «Hai la parrucca!». E la voce? E la scrittura delle canzoni? Non è quella la roba che dovrebbe contare di più? Non è importante quello che hai sulla testa, ma quello che hai dentro la testa.

Joe Lynn Turner 2023 - Live in Moscow (1930 Club,09.03.2023)

Speri che i veri Rainbow possano andare in tour, un giorno, e tornare sul palco con Ritchie dopo tutti questi anni?
Succederà quando l’inferno si congelerà, come hanno detto gli Eagles. Ma sai una cosa? Io con loro ci suonerei. Puoi sempre fare pace con la tua ex moglie e dire: dai, usciamo a cena una sera, che male c’è? Non provo astio. L’odio è un’emozione negativa, è un cancro che ti divora da dentro. Io di odio non ne provo. Sono grato per tutto quello che mi è stato dato e per il lavoro che ho fatto. Sto bene. Sono a mio agio in qualunque situazione. Fatemi una proposta.

Da Rolling Stone US.

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