Jet: «Ecco che cosa significa passare dai pub di Melbourne ai palchi dei Rolling Stones» | Rolling Stone Italia
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Jet: «Ecco che cosa significa passare dai pub di Melbourne ai palchi dei Rolling Stones»

Nel 2003 'Are You Gonna Be My Girl' era ovunque. A fine mese l'album che la conteneva, 'Get Born', verrà ristampato. Abbiamo chiesto a Nic Cester di raccontarci la storia del disco e di quell'epoca

Jet: «Ecco che cosa significa passare dai pub di Melbourne ai palchi dei Rolling Stones»

Da sinistra, Cameron Muncey, Chris Cester, Doug Armstrong e Nic Cester: i Jet nell'ottobre 2002

Foto: Martin Philbey/Redferns

Era il mese di settembre del 2003 quando giungeva sul mercato Get Born, l’esordio sulla lunga distanza di una band di australiani giovanissimi votati allo spirito del rock’n’roll più sanguigno ed esuberante. Non che i Jet fossero gli unici sulla piazza, ma la loro visibilità fu da subito altissima in virtù di un singolo trascinante che, nel giro di poche settimane, divenne un vero tormentone: Are You Gonna Be My Girl.

In occasione dell’uscita di una ristampa expanded del disco (due CD più un DVD coi videoclip tratti dall’album, su etichetta Cherry Red) abbiamo fatto due chiacchiere con Nic Cester – che della band è chitarrista e cantante e vive in Italia da qualche tempo – per farci raccontare come un gruppo di ventenni sia passato, all’improvviso, dai pub alle grandi arene e come sia nato il pezzo che ha sancito il grande successo dei Jet (spoiler: anche se tutti rimarcano una certa somiglianza con Lust for Life, Iggy Pop non c’entra), ma non solo.

Ho letto una tua vecchia dichiarazione in cui dicevi che la band che ti ha spinto a iniziare a suonare è stata quella degli You Am I. Me ne parli?
Quando ero ragazzo, il grunge era molto di moda. Io però sono cresciuto in una famiglia e in una situazione molto serena, tranquilla, anche agiata se vogliamo, per cui il grunge mi sembrava un fenomeno troppo lontano dalla mia realtà. Non mi parlava. Ma in Australia c’era questa band, gli You Am I, che era a capo di un movimento rock/pop/dance con sonorità più indie, meno ruvide e spigolose. E anche i loro testi parlavano di situazioni molto più vicine al mio vissuto, che avevano molto più senso per me e per la mia sensibilità. Loro mi hanno ispirato moltissimo.

Vedo che sono ancora in attività, ma qui da noi non sono esattamente noti, anzi…
Sì, suonano ancora. Però sono un fenomeno al 100% australiano. Diciamo, per fare un confronto con l’Italia, che loro in Australia possono essere l’equivalente di ciò che sono gli Afterhours qui.

Però a onor del vero non mi pare di sentire molte influenze indie rock alla You Am I nel sound dei Jet.
In effetti io da ragazzino ascoltavo i dischi classici, mi sono formato con quelli. Tutti i miei amici sentivano il grunge, mentre io me ne stavo a casa a far girare gli album dei miei genitori, roba tipo Beatles, Rolling Stones, Cat Stevens, Stevie Wonder… quindi mi rifacevo più a quelle cose.

È innegabile anche l’impronta degli AC/DC nel dna dei Jet, soprattutto nelle prime cose. Li ascoltavi?
Onestamente no. O meglio: sì e no, nel senso che non ero un fan, ma gli AC/DC in Australia sono letteralmente ovunque. Non è neppure necessario comprare un loro disco (ride), la loro musica è nell’aria. Devo dire, però, che i momenti più duri, chitarristici, dei Jet sono farina del sacco di mio fratello Chris. Io sono sempre stato più pop e soul come impostazione e gusti… per capirci, io ero influenzato più da band come Small Faces, Kinks, cose londinesi e British degli anni ’60.

Il rock australiano, in tutte le sue declinazioni, ha regalato molte band pazzesche: Radio Birdman, Saints, Hoodoo Gurus, Rose Tattoo, Beasts of Bourbon, Men At work, INXS, Wolfmother… l’elenco è lunghissimo. Praticamente tutte hanno però una specie di minimo comun denominatore, un “quid” che ti fa dire: ok, questo gruppo è australiano. Secondo te cosa è questo fattore?
Non lo so spiegare razionalmente. Però forse abbiamo qualcosa, nella cultura australiana, che ci porta a essere anti-establishment e si riflette nel rock. In fondo noi siamo cresciuti con l’idea di essere una colonia dell’Inghilterra e credo che questa cosa abbia creato in tutti noi una specie di senso di ribellione all’autorità, di reazione al potere (ride). E anche nel primo disco dei Jet credo ci sia un po’ di questo elemento, magari non tanto musicalmente, ma l’atteggiamento che avevamo in quegli anni – soprattutto mio fratello – era quella.

Tu e Chris, a quanto so, lavoravate nella fabbrica di vostro papà. Sono curioso: cosa facevate?
Eravamo in un reparto dove si creavano le spezie per la cottura e il condimento del pollo e delle carni.

È un campo particolare, decisamente.
Sì, vedi stiamo parlando del ramo di origine italiana della mia famiglia. Mio papà ha iniziato con una polleria, in Australia; però era un negozio particolare perché vendeva cose un po’ inusuali come quaglie, fagiani, carni che erano percepite come esotiche dagli australiani. Riforniva anche diversi ristoranti importanti: era considerato una specie di pioniere nel campo della ristorazione nel Paese, perché proponeva cose dal gusto più europeo, particolare, che erano viste come raffinate, gourmet. Poi ha ingrandito l’attività, passando anche al confezionamento dei vari tagli di carne per la vendita, fra le altre cose.

Esattamente da che parte d’Italia arrivava tuo papà?
Papà è nato in Australia. Invece i miei nonni sono partiti dall’Italia negli anni ’50: nonno Ercole era di Pordenone e nonna Maria di Treviso. Ho ancora dei parenti nel Nordest, loro ora producono prosecco (ride), nella mia famiglia si sono sempre occupati di cibo e vini. E di musica. Non puoi nemmeno immaginare le feste che facevamo a casa nostra, in Australia: c’era mio nonno che suonava la fisarmonica, talmente pieno di Lambrusco che quasi gli usciva dagli occhi (ride)!

I Jet hanno iniziato con l’EP autoprodotto Dirty Sweet. Come andarono le cose?
Eravamo giovanissimi davvero. A un certo punto abbiamo avuto la possibilità di fare una residency in un pub di quelli molto working class di Melbourne e per un mese ci abbiamo suonato ogni venerdì sera. Il primo venerdì forse c’erano 20 persone al massimo, poi man mano è venuto sempre più pubblico e la quarta settimana c’era una coda lunghissima fuori, perché non entravano tutti. Così decidemmo di registrare: era la nostra prima esperienza in uno studio. Incidemmo quattro brani in quattro ore, in una maniera molto punk. Facemmo tutto molto rapidamente perché non avevamo budget.

E da lì, se non erro con una recensione molto positiva dell’EP su NME, è iniziato tutto.
Vedi, in quel periodo c’era un grande ritorno del rock e del rock’n’roll, andava di moda. E piacevano anche tanto le band “esotiche” che arrivavano da luoghi meno usuali: Nuova Zelanda, Svezia, Paesi scandinavi, Australia. Avevamo tutto quello che serviva in quel momento. Eravamo giovani, australiani, entusiasti e siamo diventati una specie di incarnazione dell’ideale romantico dei ragazzi che venivano da un posto lontano e ancora suonavano la rock’n’roll music.

Infatti avete subito avuto un contratto discografico importante con la Elektra, praticamente dall’oggi al domani. E tutto è cambiato.
Per farti un’idea, ti dico solo che il nostro primo vero tour è stato come band di supporto ai Rolling Stones. Non avevamo nemmeno ancora finito di registrare l’album Get Born, eravamo in studio al lavoro, e abbiamo ricevuto una chiamata in cui ci offrivano di aprire per gli Stones.

Loro come sono stati con voi? Avete interagito?
Sì, abbiamo avuto contatti e loro erano molto simpatici. Mick Jagger passava in camerino a salutarci e anche Ron Wood veniva da noi: io sono sempre stato un suo grande fan, mi piacevano tantissimo i Faces. L’anno dopo siamo stati invitati ad aprire per loro in un tour europeo… eravamo anche diventati molto amici dei ragazzi che si occupavano della security per gli Stones: erano tutti australiani.

Anche le vostre vite si sono ribaltate completamente, immagino.
Del tutto. Ti dico solo che mio fratello ed io siamo usciti dalla porta di casa dei nostri genitori per andare a registrare il disco a Los Angeles e da quel momento non ci siamo più fermati. Io un paio di mesi dopo ho comprato un appartamento in città a Melbourne, mentre Chris non è proprio più tornato: lui si è fermato a L.A. e ci vive ancora adesso.

Devo dire che, ripensandoci ora, forse tutto è accaduto troppo velocemente: io avevo 20 anni e da un giorno all’altro il mio mondo è esploso. Con tutti i cliché che puoi immaginare: eravamo dei ventenni australiani che improvvisamente avevano successo e ne abbiamo combinate davvero di tutti i colori. Tutto quello che ti può venire in mente… tutto (ride). Sono stati anni molto, ma molto divertenti e non ho mai avuto nostalgia della mia vita precedente.

Jet - Are You Gonna Be My Girl

Parliamo di Are You Gonna Be My Girl: era onnipresente, è finito persino nelle pubblicità e nei videogiochi. Ma ora, ad anni di distanza, cosa pensi di quel brano?
Non è facile rispondere. Da una parte la canzone mi rende molto orgoglioso, ma dall’altra costituisce anche una specie di grande ombra da cui è difficile allontanarsi. Però soprattutto direi che ne vado fiero: in fondo quel brano ci ha aperto tutte le porte, ci ha fatto conoscere nel mondo, mi ha dato la possibilità di viaggiare per tutto il pianeta, mi ha permesso di comprare una casa qui in Italia… quindi ha cambiato la mia vita ed è davvero importante.

Quando la scrivevi avresti mai immaginato che questa canzone sarebbe diventata un successo così grande?
No, no, assolutamente. Ricordo ancora la prima volta che abbiamo suonato il brano live: non era neppure finito, mancava il testo e io inventavo le parole al momento, sul palco. Il riff somiglia molto al pezzo di Iggy Pop Lust for Life, ma io quando ho scritto la canzone, in realtà, stavo cercando di fare una specie di copia di My Generation degli Who. Non mi passava nemmeno per la mente Lust for Life: questa è la verità (ride).

Qual è il tuo pezzo preferito di Get Born, se ne hai uno?
È da sempre Come Around Again, per due motivi: è il primo che ho scritto insieme al chitarrista Cameron Muncey e, soprattutto, c’è uno special nel brano che – a mio parere – è davvero uno degli highlight del disco. Mi piace sempre suonarlo e cantarlo.

Dopo esservi sciolti nel 2012, siete tornati e avete fatto un po’ di concerti nel 2017/2018. Adesso qual è lo status del gruppo, esattamente? Siete in pausa?
Non posso parlare per gli altri, ma mi sento cambiato, sotto tanti aspetti. Mi sento molto lontano, ora, da quella band e da quel genere di musica. Chi può dirlo… magari fra un paio d’anni potrebbe muoversi qualcosa sul fronte dei Jet, ma in questo momento no: io sto vivendo la mia nuova vita artistica da solista, partecipando a progetti diversi (Nic Cester & Milano Elettrica, The Jaded Hearts Club, nda), e sento che sto crescendo. Per cui non mi sembra giusto tornare indietro proprio adesso. E poi credo di dovere fare per forza nuova musica. Non voglio finire come quelle band o quegli artisti che si trovano a risuonare i pezzi che hanno scritto quando avevano 20 anni. Riceviamo sempre proposte per fare dei tour in America, anche molto ben pagati, ma onestamente non lo ritengo giusto: mi sembra una cosa un po’ cheap.

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