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Jenny Lewis, una nerd a Nashville

Le perle di saggezza della cantautrice: la vita che ti prende a calci nel sedere, il tour con Harry Styles, il Fight Club con Beck, il revival anni ’90, la reunion dei Rilo Kiley, il nuovo album ‘Joy’All’

Foto: Bobbi Rich

Non è una vera donna del Sud, Jenny Lewis. E lei lo sa. «Siamo onesti», dice in collegamento su Zoom. «Sono una ragazza ebrea della Valley trapiantata a East Nashville. Non sono una fuorilegge, manco per niente». È vero: dal 2017 Lewis si divide fra Los Angeles e il Tennessee, dove vive, e l’unica legge che infrange è quella che vieta di fumare erba. Sta persino lontana dai cavalli e dai falò. «Sono la più nerd e la più fifona di tutta Nashville».

Il suo nuovo disco Joy’All è un po’ il suo Nashville Skyline per via delle melodie dolci e del tripudio di pedal steel. È prodotto da Dave Cobb, il pezzo da novanta di Nashville noto per il lavoro con Jason Isbell, Brandi Carlile e Sturgill Simpson. È nato in parte nel furgone di Lewis, mentre lei se ne andava in giro a caccia di pezzi d’antiquariato. C’è persino una canzone intitolata Giddy Up (l’«hop» di incitamento al cavallo, ndr). Mentre parliamo la cantante snocciola perle di saggezza come se fosse una di lì, che ti parla da una sedia a dondolo, in veranda. «Da qui puoi guardare lontano», dice. «Davvero, puoi montare in groppa al tuo pony e partire».

In Puppy and a Truck nel 2021 cantavi: “I miei 40 anni mi stanno prendendo a calci in culo / E me li consegnano in un bicchiere da margarita”. Ti senti ancora così, come se i tuoi 40 anni ti prendessero a pedate nel sedere?
Eh sì. Ma anche i 20 e 30 anni m’hanno presa a calci in culo. È il karma. Ogni decina d’anni succede qualcosa d’importante nella mia vita e io ho un crollo, ma resisto. Ecco, ora la gente potrà sempre sapere quanti anni ho, perché canto che “ho 44 anni nel 2020”. Quindi basta fare il conto. Comunque, in un certo senso, Puppy and a Truck è la risposta a un verso di Rise Up (With Fists!!) del mio primo disco solista, Rabbit Fur Coat: “E ti sveglierai che hai 45 anni”. Allora mi sembrava un roba distante nel tempo, avevo 30 anni quando l’ho scritta. Col passare del tempo, cantandola dal vivo pensavo: “Oh oh, siamo arrivati a 35 anni”. E adesso siamo a 47.

Hai scritto Puppy and a Truck mentre partecipavi a un workshop online di songwriting condotto da Beck. Com’è stato?
È stata la prima canzone che ho scritto per Beck. Credo che abbia colpito in particolare gli ultraquarantenni del gruppo. Fra i partecipanti c’erano artisti straordinari, ma funziona un po’ come in Fight Club, dove la prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club. Non voglio assolutamente sminuire gli altri, ma c’erano artisti molto bravi che si sono ritirati. Se la sono fatta addosso, quindi solo pochissime persone si sono presentate a tutti gli appuntamenti. Si trattava di una sfida tipo “scrivi una canzone al giorno per sette giorni”, con Beck che dava consigli. Tutti scrivevano e registravano e lui caricava i brani su SoundCloud.

Hai davvero comprato un furgone e un cagnolino: ti è cambiata la vita?
Ero in una situazione pesante. Da più di un anno vivevo isolata, in quarantena, dovevo trovare qualcosa che mi spingesse a uscire di casa. Il furgone mi ha permesso di farlo. Non ho figli, ma il cane mi ha allargato e di molto gli orizzonti: ho la responsabilità di una creatura, devo prendermi cura di un altro essere vivente. È stata una bella lezione. Sarà una cosa ovvia, ma non avevo idea di come fosse. Sognavo di avere un lupo bianco e mi sono ritrovata con un cockapoo.

Il tuo album precedente, On the Line, sembrava catartico. In questo sembra che tu ti diverta.
Questo è una piccola preghiera rivolta a me stessa, in un certo qual modo. C’è molta tristezza nel disco, ma è anche pieno di gioia e non ci si prende troppo sul serio. Avevo bisogno di qualcosa del genere per superare gli anni più bizzarri della nostra vita. Canto di un sacco di relazioni, ma più suono queste canzoni e più mi rendo conto che in realtà hanno a che fare col mio rapporto con me stessa e la mia forza interiore. Il fatto di avere un titolo positivo come Joy’All attira la gente più che se lo avessi chiamato Death in the Valley o chissà come.

Giddy Up mi fa sentire sballata.
Io lo ero di brutto quando l’ho scritta. Il testo dice: “Quando sono da sola mi faccio solo del male / Baby lo senti? Ma quando siamo insieme / Ci diciamo cose così dolci / Baby ne ho bisogno”. Era ciò che provavo nel 2020 e nel 2021. Il bridge è il punto di forza della canzone. Arriva da una registrazione fatta col telefono: ho inciso quella linea vocale nel bagno di casa mia, alle tre del mattino. Dave voleva conservare quel tipo di intimità. C’è un sacco di roba dentro il pezzo. Se sei single in questo momento, parla di quella sensazione, c’è un riferimento ai De La Soul e al #MeToo. C’è tanta carne al fuoco, in questa canzone, ma sta a voi districarvi fra i significati.

C’è tanta roba anche in Love Feel, come quando canti “PCP e Mary Jane / Marvin Gaye, Timberlake”. Cosa vuoi dire?
È nata durante un workshop di composizione. Il compito che ci era stato assegnato era di scrivere un pezzo che contenesse più cliché che potevamo. L’intero brano in pratica è una lista di frasi che si trovano in tutte le grandi canzoni country a cui ho aggiunto un po’ di umorismo: Timberlake è solo uno scherzo. Ma la maggior parte di quella roba compare in pezzi country di successo.

Quando hai aperto per Harry Styles ti sei esibita di fronte a 20 mila persone che non conoscevano la tua musica. È stata una sfida divertente?
Ero pronta ad affrontarla. A quel punto ero stata chiusa in casa da sola quasi per un anno e mezzo ed ero un po’ nervosa all’idea di trovarmi in mezzo a tanta gente. Non proprio come artista, ma più che altro a livello umano: dovevo imparare di nuovo a socializzare. Sembrava quasi il più grande tour DIY di tutti i tempi, perché vivevamo nelle nostre rispettive bolle. Non c’era la stampa nel pit, nessuno nel backstage: sembrava quasi di essere tornati ai vecchi tempi, quando andavamo in tour con i Rilo Kiley prima che arrivassero gli smartphone, e sembrava una dimensione molto intima, nonostante fosse un tour molto grosso.

Ero libera di fare quel che volevo. La prima sera, all’MGM Grand di Las Vegas, che è la città dove sono nata – i miei genitori hanno suonato in quell’hotel e lì ho visto molti incontri di boxe – ero sul palco e c’era una passerella gigante davanti a me. Mi sono detta: sarà meglio che tu faccia quella passerella, non puoi perderti quest’occasione. Per un anno e mezzo era già tanto se camminavo nel corridoio di casa mia, a Nashville, quindi ho pensato che fosse il momento di pavoneggiarsi un po’.

Ha passato del tempo con Harry?
Non esattamente. Ci siamo incrociati nei corridoi e cose del genere, ma portavamo la doppia mascherina e ogni giorno ci sottoponevamo a tampone. Un giorno a San Diego ho avuto un falso positivo: suonavamo in quel posto che si vede in Almost Famous, nella famosa scena in cui sono sul molo fuori dal locale. Ho rischiato di non potermi esibire a causa di un falso positivo. È stato un periodo movimentato e in un certo senso mi manca, perché era tutto molto semplice in fondo: non importava se la gente non era interessata, ero solo felice di poter cantare le mie canzoni.

Ti racconto una storiella divertente: durante la pandemia, sono andata a casa di Ringo Starr per fare i cori in una sua canzone (si tratta di Here’s to the Nights, ndr). Portavamo le mascherine e lui mi ha chiesto come stavo. E io: «Mi sento come se per la prima volta in vita mia fossi al sicuro». E Ringo, con un accento di Liverpool perfetto, mi ha risposto: «Io vorrei tanto essere nei guai». Scusa se ho tirato in ballo Ringo. So che forse è un po’ troppo.

Foto: Bobbi Rich

Secondo te cosa non hanno capito degli anni ’90 i ragazzi più giovani?
Fortunatamente, sembra che le sopracciglia folte siano tornate di moda. Io non mi strapperei più le sopracciglia come facevo negli anni ’90, perché poi non ricrescono più. Eppure questo era il look che andava… Non ci credo, sono qui a parlare degli anni ’90, come se fossi una giornalista di VH1.

Comunque, ora tutto è a portata di mano. È più facile trovare dischi rari e arrivare a capire chi sei. All’epoca essere una hipster era un duro lavoro. Dovevi andare in un negozio di dischi e chiedere: «Ehi, cos’è questo disco che c’è su?». E quelli dentro alzavano gli occhi al cielo: «Sono i Pavement. Non conosci i Pavement?». Rispondevi di sì, ma mentivi spudoratamente. E loro: «Che disco dei Pavement ti piace?». È così che scoprivi Wowee Zowee, per dirne uno. Dovevi metterti in gioco, fare domande e scovare la roba figa. Io ero iscritta al Sub Pop Singles Club. Bisognava darsi da fare.

Ci sarà mai una reunion dei Rilo Kiley?
Sono aperta all’eventualità. Devono solo esserci la giusta alchimia e il giusto tempismo. Credo che per suonare di nuovo quelle canzoni dovremo esserci tutti, perché è questa la magia dell’essere in una band. Tutto dipende dalle quattro persone che ci sono in una stanza e dall’energia che si crea fra loro.

A proposito di reunion, continuo a sentire voci che parlano di un sequel di In campeggio a Beverly Hills. È vero?
Non lo so. È vero? Se lo è, nessuno mi ha avvisata.

Dove pensi che potrebbe essere, ora, il personaggio di Hannah Nefler che interpretavi?
Probabilmente da qualche parte a Beverly Hills. Era una tipa piuttosto equilibrata, mi pare che fosse la più giudiziosa di tutti. Piuttosto dove sarà Freddy Nefler the Muffler Man?

Come sarebbe tornare a recitare?
Ne è passato di tempo, per citare gli Staind. Ma lo farei se Ryan Murphy fosse coinvolto in qualche modo.

Da Rolling Stone US.

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