Jennifer Gentle: «Ogni opera d’arte è psichedelica» | Rolling Stone Italia
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Jennifer Gentle: «Ogni opera d’arte è psichedelica»

Intervista lunga a Marco Fasolo: il nuovo album ‘Jennifer Gentle’, le possibilità offerte dalla canzone pop, la scoperta di Syd Barrett, l’omaggio a Joe Meek, la passione per i film horror

Jennifer Gentle: «Ogni opera d’arte è psichedelica»

Marco Fasolo dei Jennifer Gentle

Foto: Lorenzo Firmi

Pensavo che saremmo stati insieme mezzora e invece l’intervista con Marco Fasolo, voce, pensiero, visione, penna dei Jennifer Gentle, è durata più di due ore. Non fosse stato per una forma di ritegno professionale, probabilmente, staremmo ancora parlando di canzoni, di filmacci e film d’autore, di quanto tutto quello che è arte sia multiformità, grandiosa possibilità di immediatezza e ricerca.

Il nuovo omonimo disco dei Jennifer Gentle è uscito da poche settimane per La Tempesta ed è senza dubbio la più grande opera pop italiana da diverso tempo a questa parte. Un manuale di come si scrivano grandi canzoni, citando e avvolgendosi nei velluti della storia della grande musica che ha attraversato il mondo e, al tempo stesso, di quanto sia sempre importante divertirsi facendo di testa propria.

In un’Italia che, sempre più, fatica a dare spazio a musica che non usi la lingua italiana e che si avvalga di strumenti e suggestioni sconfinate, i Jennifer Gentle sono una perla da salvare da vent’anni esatti a questa parte. I primi italiani ad aver firmato con l’etichetta Sub Pop, al lavoro con Jarvis Cocker, inseriti nelle compilation del mensile inglese Mojo e insomma parte del grande universo del pop mondiale tenendo sempre presente che i confini sono una faccenda irrilevante, non esistono e che forse neppure questa Italia esiste.

Il titolo di questo disco corrisponde al nome della band, noi che scriviamo usiamo l’orrenda formula didascalica del self titled, qualcosa che nella storia è sempre un po’ segno di un nuovo passo, di una rifondazione. Vale anche in questo caso?
Normalmente quando finisco un disco ed è pronto per essere consegnato mi viene sempre un titolo, perché vedo il titolo come un contenitore, esattamente come il titolo di un libro ne riassume l’essenza, questo vale, io credo, anche per i dischi. Questa volta ci sono stato un po’ sotto, ci ho pensato un po’ e non riuscivo a trovare un titolo che riuscisse a  contenere tutti gli ingredienti di questo lavoro. Mi sembrava tutto restrittivo e non volevo al tempo stesso usare una title track, per cui ho capito a un certo punto che alla fine, secondo me, il nome qui era proprio questa assenza di un nome, questo vuoto era il contenitore giusto. Non volevo sottolineare qualcosa di particolare, ma non scegliere un nome mi sembrava il gesto perfetto per includere tutto.

Peraltro mi chiedo: esistono ancora i Jennifer Gentle? Dopo tutte queste formazioni cambiate di continuo è come se Jennifer Gentle fosse il più che altro il nome di una macchina musicale, tipo un intonarumori che manovri tu.
Ci sono due Jennifer Gentle, quello che sono io, cioè il mio progetto, o comunque un progetto nato fin dall’inizio per assecondare le mie idee balzane e poi c’è quello che avviene sul palco dal vivo, è un’altra dimensione: non meno vera, non meno importante, ma diversa. Lì si può parlare di gruppo, che è cambiato tanto nel tempo, ma che continua a portare avanti una visione molto precisa. Per il resto no, effettivamente come dici tu non siamo un gruppo, sono io il regista di questo film a episodi o di queste visioni, io che muovo quella macchina. In studio allargo un po’ il personale oltre a me.

Mi ha colpito una certa compattezza di quest’album, che potenzialmente potrebbe essere il frammento di un disco ancora più lungo, dove le canzoni non finiscono mai, ma semmai finiscono una nell’altra.
Ha molto senso e credo si possa ricondurre a un concetto per me fondamentale a cui accennavo prima, cioè l’idea della visione: in base a questa visione mia poco cambia se io scrivo cinque brani in un pomeriggio o dieci nell’arco di cinque anni, in qualche modo, in qualunque modo, i pezzi sono uniti da questa mia visione, da questa estetica e voglia di narrare non sempre la stessa cosa, ma cose che provengono tutte dalla stessa viscera, dallo stesso nucleo ben definito. Il mio immaginario è sempre lì in quel nucleo e quello che tu dici mi interessa e mi affascina perché queste canzoni in origine erano più di 17, io poi ne ho scelte 17 e le ho messe in scaletta, in un ordine che ovviamente ne cambiava la percezione; volevo proprio che il risultato finale fosse un racconto, non una raccolta di canzoni. Sono pezzi scritti in un periodo di tempo non breve e sono anche molto diversi tra loro, sono viaggi distinti nella mia mente, insieme raccontano qualcosa di unitario quindi ci sta questa cosa che dici, sono assolutamente d’accordo, il lavoro è stato proprio quello di rendere unitarie queste diverse sfaccettature.

Ti piacciono le definizioni “musica psichedelica” o “pop psichedelico” applicate a quello che scrivi? Le trovo un po’ riduttive e forse abusate, a te non sembrano un po’ una gabbia polverosa?
Mi sembra e mi è sempre parsa una scorciatoia, come tutte le etichette d’altronde, ma in questo caso sì, mi puzza davvero un po’ di vecchio. Sia chiaro, io ascolto sempre i soliti quindici dischi da quando sono bambino, che poi sono i classici, sono i Beatles, i Pink Floyd, i Queen, Captain Beefheart, i Beach Boys, Mozart, Bartók. Sono dischi che non riesco a esaurire, quello che io riesco a ottenere e anche a imparare da ogni singolo ascolto di ognuno di quei soliti vecchi dischi al momento non si è ancora esaurito per cui non ho motivo di abbandonare questi ascolti. Sono come uno che ama il cinema e studia cinema e continua a guardare Quarto potere. In alcune cose di Mozart e in Bartók per me ci sono una quantità di elementi psichedelici che possono superare di gran lunga quello che di psichedelico c’è in The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd e in tutto quello che viene comunemente definito psichedelico.

La psichedelia infatti andrebbe più che altro considerata in senso ampio, come un tipo di slancio e non come una delle tante griglie imposte come accade tipicamente con le definizioni.
Esattamente. Infatti a me la psichedelia ridotta a un genere fatto di pantaloni a zampa e capelli lunghi magari neppure troppo puliti non interessa, è roba che non ha niente a che fare con me. Se con psichedelia intendiamo uno sguardo che va oltre una porta che normalmente è chiusa e invece io voglio aprire, allora mi sta molto bene usare questo termine. Ma pensiamoci: quale opera d’arte non apre quella porta se è di buona qualità, a prescindere dal fatto che si tratti di un film, di un brano musicale, di una scultura? In questo senso, in quanto visionaria e naturalmente psicotropa, ogni vera opera d’arte è psichedelica. Se si parla di genere, chitarre col fuzz e trip non me ne frega assolutamente nulla, sono anche una persona sobria dal punto di vista chimico.

Mi pare un disco che è insieme luminosissimo (penso a brani come My Beautiful Girl) e rarefatto, persino oscuro (My Inner Self),  ci sento il sunshine pop, ma pure il Lennon di One Day at a Time, in definitiva lo definirei come un’esplorazione pop quasi enciclopedica che attraversa molti mondi sonori.
Questa è una delle cose più belle che tu mi potessi mai dire, perché secondo me la canzone pop ha proprio questo potere, pochi ultimamente – cioè diciamo pure negli ultimi 30 anni – decidono di avventurarsi in certi territori, ma la canzone pop ha la fortuna di offrire possibilità multiformi. Se tu lavori a una melodia cioè la cosa che rende principalmente una canzone pop tale, puoi fare avanguardia aggiungendoci la ricerca. Io sono affascinato dalle canzoni che possono essere di fatto memorabili, memorizzabili, accessibili, ma allo stesso tempo aliene, non del tutto decifrabili. Mi piace essere semplice, ma spaccarmi la schiena facendo un lavoro assurdo per un risultato di ricerca che si traduca in una precisa immediatezza.

Che poi, come diceva Umberto Saba, nella rima fiore amore, cioè nella più semplice, nella più immediata, stanno al tempo stesso l’incanto e le difficoltà maggiori.
Esatto, a me piace che quella cosa, quella rima, abbia molte chiavi di lettura, generi, visioni che forniscano almeno un’alternativa alla realtà che esiste. A me diverte parlare delle cose che non sono direttamente connesse alla realtà, cose che fuori dal contenitore Jennifer Gentle di norma non troveresti. La fortuna che ha un creativo, io credo, qualunque cosa faccia, è quella di poter creare qualcosa che non può esistere in altri modi. Quello che cerco di fare nel mio piccolo senza clamore è provare a muovermi nella direzione di dare tutto questo a qualcuno che mi ascolta.

L’altro giorno parlavo con un amico ed è uscita questa cosa di voi che siete un po’ uno dei molti figli che Syd Barrett ha messo al mondo sulla Terra. Mi pare un’immagine barrettiana, lirica e precisa. Non c’è articolo che ti riguardi in cui, per ovvie ragioni, il suo nome non venga menzionato e peraltro è uscita una compilation per Mojo per i quarant’anni di The Madcap Laughs e voi avete fatto If It’s in You. Mi racconti come vi siete conosciuti tu e Syd?
Una delle botte più incredibili della mia vita, secondo me ero alle medie, era il periodo in cui mi ero fissato con i Pink Floyd, a una festa di compleanno questo mio amico probabilmente tramite il padre, aveva questa cassetta di Relics, il best of delle prime cose dei Pink Floyd e mi chiedevo chi fosse questo cantante che a un certo punto non ha più cantato, allora mi sono informato e ho scoperto che non ha avuto una storia molto felice e che dopo i Pink Floyd aveva fatto dei dischi da solo che ovviamente mi sono subito andato a comprare. Per me è stato come ascoltare le cose più belle dei Beatles e le cose più belle di Mozart contemporaneamente, ho scoperto un vero mondo, quando ho ascoltato la sua musica da solista e ho mosso quel definitivo passo nella sua interiorità, è stato come se fossi entrato un po’ nel suo cervello. Questo vorrei che succedesse sempre a qualcuno quando ascolta non il mio disco ma un disco. Quella sensazione di interesse inesauribile e di fame come quando conosci una persona interessante e la guardi negli occhi mentre ti parla e vuoi saperne di più, vuoi sempre di più. Questo si può avere anche dal pop più mainstream o almeno si potrebbe, io adorerei accendere la radio e trovarci pezzi di facile comprensione e di incredibile supefacenza di intenti. Per molto tempo il pop ha avuto questa capacità, questa cosa è esistita e mi piacerebbe esistesse ancora.

Io vorrei però parlare anche di un altro padre, che ho individuato e di cui non si parla mai, ma che è uno dei grandi maestri e mostri, a mio avviso della storia della musica e dell’immaginare la musica: Joe Meek, a cui nel disco credo tu dedichi un brano segretamente, cioè Love You Joe.
Che meraviglia! Non siamo in tanti. Non era per nulla ovvio accorgersene e sono contento perché quello è assolutamente un omaggio. Marco Damiani, mio manager fin dall’inizio del progetto Jennifer Gentle e mio compagno di mille avventure musicali, mi ha passato davvero molte cose, tra cui, ne sono quasi certo, Joe Meek. Quando poi sono stato a Hollywood la prima volta ho comprato una sua raccolta e ho persino partecipato a un documentario che non so se sia mai uscito, c’era anche Matthew Bellamy tra gli intervistati e io avevo fatto la colonna sonora: un documentario tutto su Joe Meek. Ti rendi conto? Hanno sonorità uniche le sue produzioni e peraltro lui ha questa grande attenzione alla morte, al macabro, all’esoterico, che mi attrae tantissimo.

Nel disco c’è anche un pezzo che si chiama Argento e sembra uscito da una delle sue migliori OST, un altro omaggio.
Sì, perché amo Dario Argento, lo trovo un genio assoluto, un maestro, e non ci rendiamo conto di una cosa, ce l’abbiamo noi, in Italia. Cose come Suspiria, Profondo rosso… ma ci rendiamo conto? Comunque a proposito: Joe Meek andava a registrare nei cimiteri, sulle tombe perché diceva di saper registrare le voci degli spiriti e poi metteva questi rumori e queste voci nelle sue produzioni, un cosa fantastica, no? E comunque devi dire a Rolling Stone che vorrei tanto intervistare Argento.

Joe Meek era un fanatico della dimensione casalinga, tu pure, mi verrebbe da pensare, come hai lavorato a questo LP?
La scrittura per me sì, è sempre a casa, non in tour, non in albergo, non in furgone. Mi sembra di essere più nel vuoto nella dimensione privata. Poi la registrazione avviene in studio, in studi dove magari poi mi fermo per anni, in questa struttura dove ho registrato quest’album nel frattempo ho fatto anche il mio lavoro di produttore con I Hate My Village e Bud Spencer Blues Explosion. Sono come studi itineranti che si creano e smantellano all’occasione. Vorrei avere un nido in futuro, per poi poterci stare il meno possibile. In questo momento poi ho proprio questo grande desiderio di stare sui palchi, uscire, andare.

Foto: Lorenzo Firmi

Hai parlato della produzione di alcuni lavori di cui ti sei occupato e mi verrebbe da pensare che anziché domandarti se questo ha cambiato il tuo modo di lavorare al tuo stesso materiale sarebbe bello ragionare su quanto tu sia da sempre produttore di te stesso.
Infatti, è proprio così. Sono sicuramente produttore di me stesso, a un certo punto ho voluto crescere in questo aspetto, svilupparmi sotto il profilo di quel Marco produttore, in questi anni senza pubblicare volevo lavorare su quella mia parte, avendo scadenze, arrangiando o scrivendo parti per altri, cucire sartorialmente su di loro i miei suoni e i loro. Questo mi ha permesso di diventare più sicuro, veloce, fantasioso e di allargare lo sguardo sulle mie scelte, lavorare con strumentazioni che da anni reputavo giuste proprio per il mio disco. Il disegno a monte era dunque quello di imparare con loro a fare qualcosa per quello che poi sarebbe diventato il mio disco che ora è, più degli altri che ho scritto e inciso, proprio come lo volevo io.

Perché secondo te è sempre più difficile per una produzione italiana che però sceglie l’inglese affermarsi in Italia – oggi molto più di quando avete iniziato anche se, appunto, i Jennifer Gentle hanno un percorso di affermazione molto più importante all’estero rispetto all’Italia
La verità è che non c’è più un’Italia, non c’è più la musica di Modugno o quella di Battisti che già era un’Italia esplosa. La differenza a monte per me non è chi canta in italiano o chi in inglese. La differenza è chi mette sul piatto la propria unicità e la propria specificità cantando anche in inglese o in italiano o come vuole. Modugno infatti lo cantano ancora in metro a New York, a dimostrazione che se sei un mostro non ci sono confini. Alcuni scelgono di non scommettere, di non fare una scelta di unicità. La difficoltà c’è a suonare in inglese, c’è poca curiosità da parte degli ascoltatori, ma c’è anche poca diversità proposta e se tu non offri nulla di speciale, di nuovo, di forte è ovvio che le persone siano poco incuriosite.

Ad ascoltarti alcuni potrebbero parlare di riferimenti lontani nel tempo, le cose più vicine che ci si sentono sono Grandaddy, direi Spiritualized, e qualche altro episodio sporadico, cosa c’è di nuovo che ti esalta, se c’è?
Mi sono innamorato dei Broadcast, in particolare di Haha Sound, dove la componente joemeekiana è fortissima tra l’altro. Alla fine è un disco del 2003, non è recentissimo, ma mi ha fatto perdere la testa. Mi sono dispiaciuto infinitamente quando Trish Keenan è morta, l’ho conosciuta a Carpi e le ho lasciato una copia di The Midnight Room e abbiamo chiacchierato, poi le ho stretto la mano. Una visione la sua voce, il gusto della produzione: tutto mi ha fatto impazzire. Poi guarda, devo dirti che io non ho mai tanto ascoltato in modo compulsivo la musica, se ho un’ora libera mi guardo un film, alla fine mi suggestiona molto di più il cinema se poi devo tradurre quella suggestione in mia creatività. Oltre ad Argento amo Fellini, Welles, Bava, Polanski ma anche il cinemaccio, devo dire. VHS e sangue rappreso nei film horror, noir, gialli sono stati la mia formazione.

Leggi?
No, non ho mai letto un libro credo, a parte i racconti di Edgar Allan Poe e La città del sole di Campanella a loro connessi. Non riesco a stare fermo con gli occhi immobili su una cosa piatta. Mi piacerebbe però che qualcuno, anzi, qualcuna mi leggesse libri mentre io sorseggio del brandy in poltrona. Lo sai? Mi piacerebbe proprio tanto.

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