Jeff Tweedy, il mondo in una canzone | Rolling Stone Italia
I miei amici Wilco

Jeff Tweedy, il mondo in una canzone

Come diventare uno scrittore, vedi il nuovo ‘World Within a Song’ che è un po’ il suo ‘Filosofia della canzone moderna’, pubblicare dischi con la band come l’imminente ‘Cousin’, tenersi lontano dagli oppioidi, fare a pezzi Bon Jovi e seguire il consiglio di Rick Danko: «Sembri disperato, continua così»

Jeff Tweedy, il mondo in una canzone

Jeff Tweedy

Foto: Sammy Tweedy

Jeff Tweedy non aveva alcuna intenzione di mettersi a scrivere libri. «Un giorno però un agente ha pensato che avrei potuto mettere giù qualcosa che valesse la pena di essere letto. È successo quasi per caso». È nata così Let’s Go (So We Can Get Back), la fortunata autobiografia del 2018. Un paio d’anni dopo il rocker ha scritto un secondo best seller, How to Write One Song, in cui incoraggiava i lettori ad essere creativi. E ora con World Within a Song: Music That Changed My Life and Life That Changed My Music (che negli Stati Uniti uscirà il 7 novembre), Tweedy punta alla tripletta.

Ogni capitolo del libro è dedicato a una canzone commentata approfonditamente da Tweedy. C’è di tutto, dallo spiritual tradizionale Satan, Your Kingdom Must Come Down fino a Bizcochito di Rosalía. E poi ci sono storie di vita, dall’infanzia nel sud dell’Illinois agli esordi degli Uncle Tupelo, fino ai quasi 30 anni passati alla guida dei Wilco. Tutto questo si traduce in un saggio agrodolce e appassionato.

«Scrivere significa ricordare», dice. «È un modo forte per recuperare, dentro di te, cose a cui altrimenti non arriveresti, cose nascoste nella memoria».

Mentre si costruiva una carriera parallela come scrittore, Tweedy non ha certo smesso di far musica coi Wilco, anzi. A un anno e mezzo dal doppio Cruel Country, la band pubblicherà il 29 settembre Cousin, il 13° album in studio. Prodotto dalla visionaria gallese dell’art pop Cate Le Bon (per la prima volta, in più di dieci anni, hanno coinvolto un collaboratore esterno in questo ruolo) è un disco pieno di strumenti inusuali, sfumature narrative ed emozioni profonde.

«Adoro i suoi album e col tempo siamo diventati amici», dice Tweedy, che ha incontrato Le Bon per la prima volta quando è stata ingaggiata per suonare al Solid Sound festival dei Wilco, nel 2019. «Siamo entrambi inclini a scavare, a fare a pezzetti le cose per poi rimetterle insieme… l’album suona molto Wilco, ma non credo che somigli a nessun altro nostro disco. Dopo tanti anni è l’obiettivo da raggiungere».

Qual è il miglior consiglio che ti hanno dato in vita tua?
Ai tempi degli Uncle Tupelo ero all’Arkansas Traveler Tour di Michelle Shocked e The Band. Stavo provando e all’improvviso Rick Danko è salito sul palco e mi ha detto: «Sembri disperato, dovresti sempre suonare così, non perdere questa cosa». È uno strano modo di comunicare un concetto che condivido. Penso che volesse dire che la gente deve sentire che ci tieni: non che sei disperato nella vita, ma che hai voglia di comunicare, di entrare in contatto. È per questo che cantiamo, no?

Nel libro parli delle hit di adesso che ti piacciono, da Billie Eilish a Rosalía. Ti tieni aggiornato sui nuovi artisti?
Non sono uno curioso di natura, ma voglio alimentare questa parte perché è fondamentale nel mio lavoro. Voglio continuare a emozionarmi di fronte a qualcosa di imprevedibile. Ma poi, oggi puoi continuare a scavare nel passato e scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo. Da ragazzo avrei ucciso per avere qualcosa del genere: leggi di un disco e puoi sentire subito come suona. È un modo per onorare il ragazzino che è in me.

Foto: Peter Crosby

Qual è l’acquisto più stravagante che hai mai fatto?
Ho l’abitudine di innamorarmi di un certo strumento, ma non lo sento veramente mio finché non ne compro uno uguale. Quindi ho molti doppioni. È per la paura che col tempo le chitarre si rompano o cambino. È una cosa piuttosto frivola.

Sembri un po’ il personaggio di Bob Odenkirk in I Think You Should Leave: «Il triplo è meglio».
Esattamente: sono io. Credo di avere tre Gibson Dove del ’68.

Tornando per un attimo al libro, c’è anche un capitolo su una canzone che non sopporti, Wanted Dead or Alive dei Bon Jovi: «Questa canzone fa schifo e non dovrebbe piacervi». Che succederebbe se dovessi incontrare Jon Bon Jovi?
L’ho già incontrato. E comunque non è la prima volta che dico qualcosa di negativo su di lui. Una volta ho partecipato a un programma televisivo, in Canada, dove mi hanno detto: «Jon Bon Jovi dice che Steve Jobs ha ucciso la musica». Io ho replicato: «Jon Bon Jovi ha ucciso la musica». Me l’hanno servita su un piatto d’argento: come avrei potuto non approfittarne? Poi, quando l’ho incontrato, gli ho confessato questa cosa, nel caso avesse visto la trasmissione. In realtà, un po’ come nel resto del libro, parlo di me. Sono io che non capisco cosa dia alle persone quel tipo di sicurezza che le porta sempre a essere tanto ambiziose.

Da giovane eri scettico nei confronti della religione, in età adulta ti sei convertito all’ebraismo. Che ruolo hanno le tradizioni e le credenze ebraiche nella tua vita, oggi?
Nella nostra famiglia siamo sostanzialmente laici, però celebriamo le festività principali e i Seder. È una comunità da cui ci sentiamo accolti e una congregazione che dà ha una sensazione di calore alla famiglia. Quando abbiamo dovuto affrontare situazioni pesanti, come la diagnosi di cancro di mia moglie, è stato importante avere una rete di sostegno che andasse oltre i soli amici.

Quando mia moglie gestiva un club, chiunque fosse ebreo, in una band, automaticamente si sentiva a proprio agio e poteva intonare le stesse preghiere insieme a lei. E pensavo: «Io che cosa ho di simile? La sigla dell’Isola di Gilligan?».

Sei sobrio da quasi 20 anni, da quando sei stato in rehab per una dipendenza da antidolorifici, nel 2004. È qualcosa a cui pensi?
Tutti i giorni. È una cosa che si deve sempre tenere sotto controllo. Ma non è così dura: la sensazione di essere sull’orlo del precipizio si è attenuata notevolmente, nel corso degli anni. Ora provo un dolore fortissimo, perché ho un’osteoartrite molto grave alle anche, ma ogni giorno mi ripeto quanto sono fortunato a sapere che se iniziassi a prendere degli oppioidi forse non ce la farei a controllarli. So a cosa andrei incontro e quindi posso accettare il dolore. Nell’ultimo periodo ci ho pensato parecchio. Mi capita di fare certi sogni sulle droghe che non facevo da tempo. E mi sento fortunato perché riesco a ricacciare quei pensieri al loro posto.

Nel libro si parla molto di dolore emotivo. Scrivi di come è essere un ragazzo sensibile che “sente tantissime cose in maniera intensa”, in un mondo che “continua a fottersene”. Da adulto le cose sono diventate più facili? Come affronti la crudeltà del mondo?
Non voglio abituarmici. Ho solo imparato a prendermi più cura di me stesso e a darmi più possibilità di sopravvivere. Voglio essere utile. Voglio fare cose buone. Voglio fare cose che mi facciano sentire di meritare quel che ho. Ho delle responsabilità per via di ciò che faccio: sono una delle pochissime persone al mondo che, per vivere, possono fare ciò che amano. Come si fa a non sentirsi in obbligo di restituire qualcosa, in cambio?

Ten Dead, nel nuovo album dei Wilco, sembra parlare dei titoli tragici che si leggono dopo una sparatoria di massa.
È qualcosa in cui siamo immersi. Non è una dichiarazione politica, è più un tentativo di descrivere il panorama psicologico con cui credo che la maggior parte delle persone che conosco si stia confrontando. Viviamo in una realtà in cui senti dire: «Grazie a Dio sono meno di dieci morti». È sconvolgente.

Bob Dylan è uno dei tuoi eroi. L’anno scorso ha pubblicato un libro con una struttura simile al tuo, scrivendo di una serie di canzoni e del significato che hanno per lui. L’hai letto?
Avevo già pianificato di scrivere questo libro, per cui ero un po’ nervoso quando è uscito il suo. L’ho letto, ma non aveva affatto lo stesso spirito… non mi è parsa un’idea simile alla mia. A essere sincero, mi ha un po’ deluso. È molto dylaniano: ti accoglie e ti respinge allo stesso tempo, in qualche modo. Dentro c’erano cose che sembravano scritte dal tizio che lo aiutava per Theme Time Radio Hour (il produttore del programma, Eddie Gorodetsky, il cui curriculum include anche Due uomini e mezzo e Dharma & Greg, è accreditato come consulente per il libro di Dylan, nda).

Restando in tema di cantautori leggendari, nel libro suggerisci che Stevie Wonder potrebbe scrivere un nuovo inno nazionale per sostituire The Star-Spangled Banner. È una grande idea, ma perché non lo fai tu?
(Ride) Be’, tu chi preferiresti che lo scrivesse, me o Stevie Wonder?

Da Rolling Stone US.

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