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Jeff Tweedy è un libro aperto

Il folk come conforto dalla pandemia, il passato e il futuro dei Wilco, esercizi e trucchi per scrivere, i dischi improvvisati e finiti in archivio. Intervista a uno dei più grandi autori della sua generazione

Jeff Tweedy è un libro aperto

Jeff Tweedy

Foto: Sammy Tweedy

Jeff Tweedy ama fare musica ogni giorno, ma ultimamente si è distratto un po’. «Con le elezioni faccio fatica a concentrarmi», spiega in diretta Zoom dal Loft di Chicago, lo studio di registrazione dei Wilco. «Non si riesce a suonare la chitarra e controllare FiveThirtyEight allo stesso tempo».

Detto questo, Tweedy sta vivendo un periodo incredibilmente produttivo. Ha appena pubblicato un nuovo disco solista, Love Is the King, pieno di folk delicato, pezzi country e lampi d’elettricità. L’ha registrato al Loft dopo che il tour primaverile dei Wilco è stato cancellato causa pandemia. All’inizio di ottobre ha pubblicato How to Write One Song, il seguito della biografia del 2018 Let’s Go (So We Can Get Back). Il libro è pieno di storie che rivelano com’è cambiato il suo processo creativo negli anni e suggerimenti pratici per far venire fuori il cantautore che avete dentro, tra cui un esercizio per scrivere testi con una “scala delle parole” di aggettivi e nomi male accoppiati, oppure un altro che prevede di sfogliare un libro mentre si canta una melodia.

Per Tweedy, che ha 53 anni, scrivere canzoni ogni giorno è una via di mezzo tra un lavoro d’ufficio e l’esercizio spirituale. «È un bisogno molto concreto», dice. «Quando lo faccio mi sento meglio, perciò cerco di non mancare neanche un giorno. È una specie di esercizio fisico». I colpi di genio non arrivano tutti i giorni, ma la cosa importante è continuare con regolarità. «A volte mi sembra un lavoro di piccola manutenzione, ma l’idea di mettermi nelle condizioni di trovare l’ispirazione mi entusiasma».

Abbiamo parlato con Tweedy di tutto: il catalogo dei Wilco, da Summerteeth (1999) a Schmilco (2016) e oltre; il suo approccio alla scrittura dei dischi; la solidarietà per il movimento Black Lives Matter; le prossime elezioni.

Nel libro scrivi che scadenze e paletti possono aiutare il lavoro creativo. Vale anche per la quarantena? 

Ci sto senza drammi in quarantena. Ho uno stile di vita pre-pandemico. Lavoravo in modo disciplinato e isolandomi anche prima. Adesso però non so quando finirà. Per la prima volta in vita mia non so quando tornerò in tour.

Hai registrato il nuovo album con i tuoi figli Spencer e Sammy. Quando erano piccoli hai mai pensato che dopo 20 anni sarebbero stati nella tua band?
Mai. Spencer ha iniziato a suonare la batteria molto giovane e si è capito subito che aveva un talento naturale. Non ho mai pensato che avrebbe provato a farne una professione, ma mi è sempre piaciuto suonare con lui. Sammy non ha mai avuto interesse negli strumenti che abbiamo casa, almeno finché non è diventato teenager. Credo sia perché era una cosa che faceva suo fratello maggiore, forse l’ha messa da parte per avere un po’ di autonomia, una sua personalità. Ma alla fine ha ceduto al canto delle sirene dell’attrezzatura che trovava in giro.

Un sacco di gente, adesso, cerca di fare attività creative casalinghe con i figli. Che consigli daresti? Come si fa a conciliare la creatività con la didattica a distanza e il cambio dei pannolini? 

Un modo di vedere la cosa è che possiamo passare del tempo con i più grandi creativi al mondo: quei piccoletti che ogni giorno improvvisano a livelli virtuosi. Trovare modi sempre diversi per interagire col mondo. Averli in giro mi ispira.

Nel libro ci sono diversi suggerimenti. Per esempio, pensare continuamente alla quantità ideale di tempo che secondo voi è necessaria per fare qualcosa è solo un impedimento, una scusa per non iniziare. In altre parole, se pensate: «Posso fare questa cosa in 5 minuti», alla fine ne impiegherete 10, perché vi perderete. E l’obiettivo non dev’essere necessariamente fare qualcosa di fenomenale. L’importante è iniziare.

Nel disco ci sono molte parti di chitarra elettrica, più del tuo solito. Come mai sei tornato a quello strumento? 

Beh, ne ho suonata di chitarra elettrica, forse più di quanto possa sembrare, ma è vero che l’ultima volta in cui ho suonato quasi tutte le parti principali è stato con A Ghost Is Born. Ha senso perché l’ho registrato in uno dei momenti più difficili della mia vita fuori dalla musica, poco prima che andassi in ospedale per rimettermi in sesto. Credo che nel mio modo di suonare la chitarra elettrica ci senta l’influenza del mondo esterno. È lo strumento che uso quando non so che cosa dire di preciso, ma provo comunque sensazioni forti.

Nei dischi dei Wilco dopo A Ghost Is Born non hai suonato tanti assoli. Forse non volevi tornare a quella parte della tua vita? 

Come ho detto, ho suonato molto di più di quanto si possa pensare. Ci sono un sacco di cose che suona Nels (Cline, l’altro chitarrista dei Wilco, nda) che non potrei mai fare, e ce ne sono tante nei dischi post A Ghost Is Born. E sono convinto che il focus sia dove dev’essere, cioè sul suo modo di suonare.

Ho dovuto fare una scelta perché era frustrante non poter essere sia il chitarrista elettrico, sia il songwriter che scrive, canta e suona l’acustica. Il ruolo del chitarrista elettrico somiglia maggiormente a quello di un commentatore. Non riuscirei mai a fare le due cose insieme sul palco, onestamente. Fare un disco in quarantena mi ha permesso di farlo un po’ di più.

I Wilco nel 2001. Foto: Paul Natkin/Getty Images

A novembre uscirà una versione deluxe di Summerteeth dei Wilco. Quanto tempo avete passato sul vecchio materiale? 

Non tanto in realtà. Abbiamo un grande team che si occupa degli archivi insieme al produttore Cheryl Pawelski. Anche Spencer ha ascoltato molti demo. Ha trovato una vecchia scatola di cassette. Ha dato un grande contributo. Io ho ascoltato tutto un paio di volte.

È stato interessante ascoltarlo col senno di poi. Ho trovato una band davvero brava a fare una cosa che non volevo fare più (ride). C’è una band che aveva trovato un suono, ai tempi di Being There, e che si presentava come un gruppo rock’n’roll dissoluto. Io volevo più spazio per crescere, mi sembrava che le altre band facessero così.

Pensi di essere riuscito a risolvere parte della tensione tra i diversi tipi di musica che potevano suonare i Wilco? 

Beh, ora i Wilco sono una band completamente diversa. È un ensemble costruito per avere più libertà nel fare certe cose, ma anche per andare in direzioni impossibili per la band di Summerteeth. È stato il nostro obiettivo per un sacco di tempo, ben prima di quel disco. Mi piace l’idea di un universo che contenga sia Flamin’ Groovies che i Can, per dire le prime due band che mi vengono in mente. Volevo poter attingere più liberamente alla mia collezione di dischi.

Te l’ho chiesto perché ascoltando le tue ultime cose sembra che tu sia più a tuo agio col folk, come se non avessi più bisogno di andare in altre direzioni.
È possibile. Ma penso anche che se qualcun altro avesse tirato fuori roba strana come Ode to Joy o Schmilco la gente si sarebbe stupita di più. Voglio dire, la gente si aspetta cose simili da noi, non c’è più la sorpresa che c’era ai tempi di Summerteeth.

Quali sono le stranezze di Schmilco che non sono state notate? 

(Ride) Common Sense è una delle cose più strane che abbiamo fatto. Ha una forma che non ha molto a che fare con quel che la gente considera folk. Anche Locator non mi sembra un brano così semplice. Allo stesso tempo, Jesus, Etc. è classica per suoni o struttura. La gente dà tante cose per scontate nei dischi associati allo sperimentalismo. Non mi è mai piaciuta questa cosa. E c’è un’altra parola che mi fa andare fuori di testa, “mellow” (tranquillo, pacato, ndt). Mi arrabbio quando qualcuno la usa per descrivere la mia musica. È come se non riuscissero ad alzare il volume dello stereo, qualcosa del genere. Ci sono molte più sfumature, non si può essere solo rumorosi, no? Non capisco che cosa vogliono dire. Conosco molta musica “pacata”, ma non è così che la descriverei.

A proposito di Jesus, etc., manca quasi un anno al ventesimo anniversario di Yankee Hotel Foxtrot, il disco più amato dei Wilco. 


A prescindere da tutte le cose da scorbutico che ho detto fino a ora, sono incredibilmente grato se qualcuno ascolta ancora i miei dischi. Non me lo sarei mai immaginato. O forse sì, ma era la più grande aspirazione della mia vita fare qualcosa che resti rilevante per la gente per un sacco di tempo. E non parlo solo di quel disco. Sono tanti, anche alcuni degli Uncle Tupelo, che sono rimasti nella vita degli appassionati più a lungo di quanto pensassi. Bella questa cosa.

Pensavi a cose del genere all’inizio della tua carriera? Cercavi di fare qualcosa che reggesse la prova del tempo? 

No. Non lo penso adesso, né ci pensavo allora. Aspiravo solo a fare un disco che venisse ascoltato da qualcuno. Cerco sempre e solo di scrivere la musica che vorrei ascoltare, non quella che ho già sugli scaffali.

So che stai lavorando a un nuovo disco dei Wilco in remoto. Come sta andando?
Gran parte del lavoro l’abbiamo fatto tutti assieme, all’inizio dell’anno. Abbiamo fatto delle session prima del lockdown e della cancellazione del tour. Quindi c’è già un po’ di musica. Ora faccio quel che faccio sempre, cioè mettere insieme un po’ di canzoni da mandare agli altri.

È eccitante. Siamo molto motivati, mi ispira l’idea di fare qualcosa all’altezza della sensazione di catarsi che proveremo suonando di nuovo di fronte a un pubblico. Voglio fare un disco rumoroso e pieno di gioia, un evento sonoro che renderà glorioso il momento in cui torneremo sul palco. Non so se succederà davvero, probabilmente sarà tutto più normale, però immagino la gente che corre ai concerti come a una diga che crolla. Immagino un disco che faccia questo effetto.

Foto: Annabel Mehren

Quest’estate hai fatto una proposta: volevi condividere parte dei diritti d’autore per pagare il debito ai neri americani. Hai chiesto ai tuoi colleghi di partecipare. Come sta andando?
Più lentamente di quanto sperassi. Ma sta andando avanti, sono ottimista. Pare che alcune organizzazioni metteranno in piedi piani simili in futuro.

Hai detto che era frustrante vedere che la tua proposta ha raccolto poche adesioni. È cambiato qualcosa? 

Non molto. Una manciata di persone mi hanno contattato. Il mio sogno era che una grande star, qualcuno con un profilo più alto del mio, mi contattasse o facesse sua l’idea senza darmene il merito. Ne sarei stato felice. Parlo di qualcuno con più influenza sull’industria. Ma mi sembra che tutti siano in attesa, vogliono vedere che cosa succederà. Non sono la persona più adatta a spiegare come sistemare questa situazione. In sostanza, mi sembrava che non ci fossero scuse per nascondere quello che stavo pensando del momento che viveva il Paese.

Sei determinato a continuare? 

Non ho mollato. Il mio impegno è sincero, così come il mio contributo finanziario. Andrò avanti. La triste verità è che finché non risolviamo il problema, il nostro Paese continuerà a vivere momenti del genere. Non è una cosa che sparirà senza lavorarci su, senza un impegno da chi ha beneficiato dalle strutture del suprematismo bianco che sono in questo Paese da tanto tempo.

Le elezioni presidenziali sono vicine. Sei ottimista?
Sì. Prima delle elezioni del 2016 mi sentivo male, ora no. Vengo dal sud dell’Illinois, un posto molto trumpiano e il mio sesto senso mi ha fatto capire prima degli altri che cosa stava succedendo in posti come quello. Nel 2016 era chiaro che la gente della mia zona avrebbe avuto difficoltà a votare Hillary Clinton. Era una prospettiva spaventosa e così mi sono convinto che non sarebbe successo. E invece è accaduto. Adesso non mi sento più così. Sono cauto, perché ricordo cos’è successo l’ultima volta. Ma non ho lo stesso terrore profondo per quello che prova la gente delle mie parti. Credo siano stanchi di questa situazione.

Joe Biden non è la mia prima scelta per un sacco di ragioni, ma quelle stesse ragioni mi fanno pensare che a oggi è la scelta migliore. Quando Obama ha vinto molta gente ha smesso di prestare attenzione, come se ogni problema si fosse risolto da sé. Credo che Joe Biden ispirerà anche chi non è d’accordo con lui, soprattutto i giovani.

Uno spot suggerisce che Biden è l’unico candidato che salverà la musica dal vivo dalla devastazione di quest’anno. Tu ci credi? 

Credo che un sacco di gente sarebbe ancora viva e che i locali non sarebbero in questa situazione se alla presidenza di fosse stata Hillary Clinton o qualcuno come lei. Purtroppo, credo che molti degli sforzi per mitigare la situazione più in fretta ormai siano impossibili. Torneremo a una qualche normalità più lentamente, ci spero almeno. Ma non so quanto ci vorrà prima che la gente si sentirà di nuovo al sicuro.

Ci si deve occupare dei locali piccoli e grandi. L’industria è devastata, ci vorrà del tempo per rimetterla in piedi. Ma una cosa è certa: non accadrà se verrà rieletto Trump. Ci sarà solo più negazionismo. Non so quale cazzo sia il suo piano. Non c’è nessun piano.

Torniamo a cose più leggere: un paio d’anni fa hai detto a un collega che ti eri fatto crescere i capelli per protestare contro Trump. Sono passati quattro anni e sono ancora lunghi. Li taglierai in caso di vittoria di Biden? 

No. L’ho già fatto alle elezioni di metà mandato, nel 2018. Non ho retto per tutti e quattro gli anni. Era un’idea stupida. Una reazione insufficiente per un problema molto più serio (ride). I miei capelli sono fuori dal gioco della politica. Non ne parlo più.

Nel 2017, quando hai pubblicato il tuo album solista Together at Last, hai detto che era il primo volume di una serie di session acustiche in cui avresti rivisitato le tue vecchie canzoni. Ci hai più pensato? 


Ho registrato un altro volume. Non ricordo la tracklist, ma è simile, attinge a tutti i progetti a cui ho lavorato. Non abbiamo ancora deciso quando pubblicarlo su dBpm. Ma il titolo c’è: Together Again.

Mi piace l’idea di poter suonare le mie canzoni da solo, con la chitarra acustica. Mi piace anche fare i concerti da solista. Cerco di arrangiare quasi tutto quello che scrivo in questo modo e mi piace documentarlo. È bello condividerlo con chi ha una certa familiarità con quelle canzoni o con chi preferisce musica più essenziale.

Il nuovo libro è ricco di storie fantastiche sulle origini inaspettate delle tue canzoni: Forget the Flowers è stata scritta pensando all’interpretazione di Johnny Cash, Company in My Back dalla prospettiva di un insetto a un picnic. E Muzzle of Bees?

Non ricordo esattamente da dove venga l’immagine al centro del testo, ma probabilmente è figlia di uno degli esercizi che descrivo nel libro. Un gioco surrealista per mettere sottosopra il linguaggio.

La melodia originale era improvvisata. Ai tempi chiamavamo quelle session fundamentals: montavamo il nastro e registravamo un intero disco nel tempo necessario ad ascoltarlo. Mi mettevo nella cabina dove registravo le parti vocali col mio quaderno e inventavo canzoni a caso. Gli altri mi accompagnavano e non avevano idea di cosa stessi parlando. Io non potevo sentirli e magari loro aggiungevano rumori con i sintetizzatori e cose del genere. Una volta finito lo ascoltavamo, facevamo il mix e lo mettevamo da parte.

Ne abbiamo fatti una dozzina prima di A Ghost Is Born. È un esercizio che serve a ricordarci che un disco può essere qualsiasi cosa, che non serve pensarci troppo. Era eccitante e divertente. Molte di quelle canzoni sono finite su A Ghost Is Born. Credo che ci fosse anche Less Than You Think e Muzzle of Bees è sicuramente nata in quel modo. Il punto era concentraci sul presente, su quello che stava accadendo, e non su quello che volevamo succedesse.

Scrivi anche dei testi nati da conversazioni, non devono neanche essere interessanti. Pensi di poterne scrivere una sulla base di quello che ci siamo detti fino a ora? 

Sì. Hai appena detto “Non devono neanche essere”, mi sembra un bel titolo. Potremmo pensare a un milione di cose che “non devono essere” e cominciare da lì.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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