Jeff Mills: «Il mio ‘Metropolis’ parla alle emozioni nate durante la pandemia» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Jeff Mills: «Il mio ‘Metropolis’ parla alle emozioni nate durante la pandemia»

Il guru della techno porta a Milano e Bari una nuova sonorizzazione del film di Fritz Lang. Lo racconta in questa intervista in cui parla anche di Elon Musk, appropriazione culturale e futuro della musica

Jeff Mills: «Il mio ‘Metropolis’ parla alle emozioni nate durante la pandemia»

Jeff Mills

Jeff Mills. Foto: Jacob Khrist

In principio correva l’anno 2000, quando uno dei clash creativi più inevitabili e in qualche modo logici finalmente avveniva: uno degli esponenti più rigorosi, carismatici e al tempo stesso visionari della musica techno, Jeff Mills, decideva di mettere le mani su Metropolis di Fritz Lang, creando l’abito sonoro per un film che proprio per visionarietà technologica ha fatto a dir poco epoca. Ok, ci si era già misurato Moroder nel 1984, ma in una visione distopica e feroce la techno millsiana diventava l’abito perfetto, definitivo.

Di definitivo però nel mondo di Mills non c’è nulla visto che, come ci spiega, è «un continuo processo di transizione». Già ritoccata nel 2008, la sua colonna sonora per Metropolis guadagna in questo 2021 una nuova versione, che promette di essere una notevole dipartenza e riscrittura rispetto alle precedente: sarà presentata in anteprima mondiale assoluta a Milano l’1 luglio (al Circolo Magnolia) e a Bari il giorno successivo (alla Casa delle Arti).

In questa lunga chiacchierata fatta di molti concetti analitici e di prese di posizione mai banali, Mills parla di questo e di molte altre cose: l’idea di futuro continua ad appassionarlo come non mai. Ma al tempo stesso, nelle ultime battute di questa chiacchierata, fa capolino un finale a sorpresa: un ritorno all’innocenza, a quando si era bambini, nel momento in cui la missione è compiuta.

Cosa dobbiamo aspettarci da questa nuova versione della sonorizzazione di Metropolis? Non è la prima volta che metti mano alla versione originale, datata 2000: hai l’impressione di essere arrivato a dare una forma definitiva al tutto, o non escludi invece in futuro di metterci ancora mano, modificandola ed evolvendola?
In effetti quella che sentirete a Milano e Bari è la sonorizzazione di Metropolis nella sua terza versione. L’impulso a rilavorarci sopra è nato dopo tutto quello che abbiamo vissuto con la pandemia: qualcosa che socialmente ha scosso il mondo. Questa nuova versione è più profonda, più emozionale ed anche meno didascalica delle precedenti. Questo perché credo che oggi le persone siano reduci da un anno, un anno e mezzo di profonda introspezione e di confronto con stesse; ad esempio, credo che per molti il confrontarsi con l’idea di morte non sia mai stato così vicino ed attuale. Ciò che abbiamo vissuto credo ci segnerà in tanti. Ho pensato quindi fosse giusto provare a creare qualcosa che parlasse a questa serie di emozioni.

Sul fatto che in futuro possa ri-adeguarla o meno, bisogna essere consapevoli che la nostra vita è un continuo processo di transizione. Un processo che tra l’altro si svolge per accumulazione. Più conoscenza, certo; ma anche più soldi/bisogno di sicurezza, più felicità/infelicità. Se sei abbastanza fortunato, arrivi a un punto in cui ti senti soddisfatto del bagaglio acquisito, delle conoscenze e abilità che hai fatto tue: ecco, lì in quel momento inizierai a desiderare una vita più semplice, simile a quella che avevi da bambino – quando erano gli altri a prendersi cura di te.

La prima versione della tua sonorizzazione di Metropolis è del 2000: nell’arco di 21 anni, che effettivamente non sono pochi, cosa è cambiato di più: tu come persona, la tua musica o il mondo in generale?
Cosa è cambiato dal 2000… Beh: molte cose sono cambiate. Ma le modifiche più significative sono state quelle nel campo politico e sociale: se le forze conservatrici sono sempre state ostacolo per un progresso reale e diffuso della società, bisogna però dire che mai come con Trump hanno trovato un appoggio istituzionale così solido. Questo però ha generato, per contrapposizione, una spinta davvero forte ad interrogarsi su alcuni temi fondamentali – dando in questo modo anche delle risposte molto dure e dirette alla domanda sul chi siamo e sul dove vogliamo veramente andare come società. Sono due processi distinti, il chi siamo e il dove vogliamo veramente andare. Credo che al momento siamo ancora nella fase preliminare delle teorizzazioni in entrambi i casi. Ma in un futuro nemmeno troppo lontano sono convinto che noi, ovvero le persone che hanno un po’ più di preparazione, di sensibilità e di consapevolezza, avremo il dovere di agire in modo più concreto, per arrivare a una idea e a una pratica di società che rappresenti davvero un avanzamento.

Parlando di futuro, la techno è una musica concepita proprio con l’idea di futuro come stella polare, è nelle sue radici fondanti. Ormai però parliamo di un genere che ha quasi quarant’anni di vita: non sono pochi. Basti pensare al fatto che chi ha visto nascere e svilupparsi la techno, negli anni ’80 e nei ’90, vedeva la musica di allora di trenta o quarant’anni prima come qualcosa da dinosauri, superato, antico, e ora ad avere quattro decenni di vita è invece proprio la techno.
Ma in realtà quarant’anni non sono poi così tanti. Anche perché è tutta l’industria musicale ad essere relativamente giovane, visto che possiamo fissarne la nascita con quando le partiture stampate hanno iniziato ad essere distribuite in ampia scala per il mondo – parliamo quindi degli anni ’20 del secolo scorso. Se pensiamo al rock’n’roll, nasce negli anni ’40 con grandi come Chuck Berry e Little Richard; ma è solo alla fine degli anni ’60, con Jimi Hendrix, che ha avuto una prima, radicale evoluzione. Quello che intendo dire è che spesso ci vogliono almeno un paio di generazioni prima che un genere musicale possa fare un salto di qualità e una evoluzione significativi, capisci? Lo stesso Miles Davis, anno di nascita 1925, la rivoluzione sonora di Bitches Brew l’ha compiuta solo nel 1969, non prima. La musica è una entità sfaccettata, non semplice da inquadrare, e lo è anche per chi afferma di esserne un grande esperto ed appassionato. C’è un errore di fondo che vedo spesso fare, e che condanno fermamente: vedere la musica come qualcosa che conquista. L’effetto implicito è quello di vedere la musica come una gara, qualcosa con vinti e vincitori, conquistatori e conquistati, e questo è profondamente sbagliato. Ragionare in questo modo ci impedisce di capire cosa sia la musica nella sua vera essenza, cosa possa rappresentare nelle nostre vite. Quindi ecco: penso sia davvero sbagliato ragionare in termini di dinosauri o, al contrario, di unicorni.

Fino a che punto lo sviluppo della tecnologia comunicativa e interazionale fra le persone che ha dominato lo scenario negli ultimi due decenni, ovvero internet, ha influenzato una musica che proprio dallo sviluppo della tecnologia nasce, ovvero quella elettronica? E fino a che punto è stata una influenza benefica? Chiesto poi in altri termini: se per assurdo internet non fosse esistito, oggi la techno suonerebbe in modo diverso?
Credo in realtà che internet non abbia cambiato più di tanto le cose. O almeno, non ancora. Chi consuma musica ancora oggi preferisce rivolgersi ai grandi distribitori – etichette, grandi network – invece che direttamente agli artisti. Certo, la circuitazione via internet della musica ha fatto anche danni: danni che rischiano di essere profondi se non addirittura permanenti, rendendo molto più facile e normale l’uso della musica come mero strumento promozionale, che si tratti della promozione di una persona o di un prodotto. In generale però non credo che l’avvento di internet abbia particolarmente cambiato la parabola della musica techno nello specifico, stando alla tua domanda.

La techno è molto più influenzata da progetti come lo Space X di Elon Musk, con tanto di atterraggio su Marte, o come l’uso della tecnologia per stabilire la presenza di vite aliene piuttosto che da quanto viene retribuito uno stream su una piattaforma. Concentrandoci poi sull’aspetto più specifico della produzione, ancora oggi si tratta per lo più di usare una tastiera o di utilizzare dei software: nulla che non si facesse già prima dell’avvento di internet e ti dirò, software a parte nulla in linea di massima che non si facesse già quando la musica classica iniziava a nascere in Europa attorno al V secolo. Al tempo stesso però sono convinto che proprio in questo secolo avverranno dei radicali mutamenti, che cambieranno le pratiche creative in modo profondo, dando vita a una evoluzione molto marcata. Esistono già delle speculazioni teoriche in tal senso, alcune menti particolarmente brillanti hanno già in testa idee molto affascinanti; manca la realizzazione pratica. Il nostro compito, da artisti e da persone sensibili, è quello di favorirla.

Ma quanto ti interessa il sistema della comunicazione via social, quanto ne analizzi cioè l’impatto e il modo in cui ha cambiato il modo di agire delle persone e pure degli artisti? E quanto invece è semplicemente qualcosa che devi portare avanti, come canale promozionale, senza pensarci troppo, e finita lì?
Oggi per un artista è assolutamente necessario lavorare attraverso i social network. Se vuoi davvero raggiungere un pubblico più vasto, è una strada inevitabile. Io però continuo a vedere i social come un prologo a un cambiamento futuro più grande e più importante. Internet, sotto molti punti di vista, sta aiutando a disvelare meglio alcuni meccanismi dell’industria creativa. Ma è ancora presto. L’industria come forza egemone della società, se ci pensi, è durata poco più di cinquant’anni, forse giusto la Seconda guerra mondiale ne ha allungato un po’ la vita, ma non di tanto. L’era di internet è ancora agli albori. In quanto tale, dobbiamo quindi ancora imparare a conoscerla e a gestirne gli aspetti più problematici. Ti faccio un esempio molto concreto: ci rendiamo conto che non siamo ancora riusciti a proteggere la proprietà intellettuale di chi produce musica, in questa nuova fase?

Foto: Jacob Khrist

A proposito di protezione e appropriazione: si parla di questi tempi molto di appropriazione culturale. Lo sguardo più critico che si sta sviluppando in tal senso potrebbe per caso andare a toccare pure techno e house, come contesti tacciabili appunto di pratica di appropriazione culturale? Non c’è il rischio che una sensibilità e rigidità eccessiva su questi argomenti danneggi la musica stessa e la sua libertà creativa?
Se fosse possibile normare e regolamentare concretamente le idee e le espressioni creative, forse questa potrebbe diventare una discussione da affrontare; ma nel momento in cui vige ancora il principio della libera circolazione delle idee, ogni tentativo di affrontare questa problematica risulterebbe secondo me vano, inutile. Io credo che vadano molto più protette le persone che la musica la creano, piuttosto che la musica in sé: è lì che vanno indirizzati gli sforzi. Anche perché la musica resterà un’espressione rilevante fra l’umanità solo fino al momento in cui dirà cose che abbiano un significato, un impatto vivo.

La tua etichetta, Axis, recentemente ha fatto uscire un disco di un artista italiano, Raffaele Attanasio. Ce ne puoi parlare? E, allargando l’obiettivo, che rapporto hai con l’Italia?
Sì, siamo felicissimi di aver dato alle stampe un album fantastico come Nuovo futuro di Raffaele Attanasio: è un incrocio tra jazz ed elettronica che è anche molto influenzato dalle radici geografiche dell’autore, nel Sud Italia. Sono anche felice che ci sarà la possibilità di tradurre dal vivo questo progetto, dopo tutta la stasi imposta dalla pandemia. Fra pochi giorni uscirà per Escape Velocity/Axis anche l’album di Giri, che è di Napoli.

Per quanto riguarda invece me stesso, il mio rapporto con l’Italia è veramente di lunga data: ho iniziato a suonare da voi ancora all’inizio degli anni ’90, e ormai sono davvero centinaia le volte che mi sono esibito da voi. Non bastasse questo, già da adolescente devo dire che la disco italiana era ben presente nei miei ascolti e nelle mie passioni musicali.

Se dovessi riassumere in tre release la tua imponente carriera e identità musicale, quali citeresti?
Molte lune fa (nel 2003, nda), feci uscire una serie in tre parti di vinili intitolata See The Light. La grafica di copertina era molto semplice, tre diverse tonalità di verde; ma la musica credo davvero condensasse tutto quello che avevo compreso almeno fino a quel momento di cosa significasse musica per me: quanto sia cioè una esperienza profonda, un’esperienza che per investigarla e comprenderla realmente può volerci talora una vita intera – magari anche solo per comprenderne la mera superficie. Le tre uscite si sono succedute con, come scelta grafica, una tonalità di verde progressivamente sempre più scura. A voler dimostrare che più scendo in profondità, più sono in grado di vedere la luce.

Altre notizie su:  Jeff Mills