C’è chi la musica la scrive per il presente e chi la compone guardando al futuro. Jean-Michel Jarre rientra in questa seconda categoria. Da quasi mezzo secolo il francese sperimenta con l’elettronica come arte totale, tra onde sonore e show fatti di architetture luminose, concerti nei deserti e spettacoli urbani davanti a centinaia di migliaia di persone. Torna in Italia per un doppio appuntamento: Venezia il 3 luglio e Pompei il 5, due scenari che Jarre vuole accendere ancora con la indagine fatta di suoni immersivi aperti al futuro.
Nell’ambito della rassegna Beats of Pompei suonerà nell’anfiteatro dove nel 1971 i Pink Floyd registrarono il loro leggendario live senza pubblico (è uscito al cinema l’anno successivo). Stavolta ci sarà il pubblico e sarà un viaggio che promette di essere l’ennesima esperienza da ricordare. Ce lo siamo fatti raccontare in anteprima.
Come si prepara un live in un luogo del genere, oggi?
Suonare a Pompei, come a Piazza San Marco a Venezia, è un po’ come rendere realtà un progetto sci-fi. Per una ragione precisa: dimentichiamo che un posto come Pompei è stato costruito e ideato da persone rivoluzionarie. In termini di acustica hanno fatto un miracolo. Pensa che una persona al centro dell’anfiteatro può parlare senza microfono ed essere ascoltata a 360 gradi. Hanno creato il Dolby Atmos 2000 anni fa, in un certo senso, parlo dell’idea di immersione dal punto di vista visivo e audio. Penso che il modo migliore per rendere omaggio a questo tipo di luogo sia arrivare con lo stesso approccio dirompente: intelligenza artificiale, uso del 3D, suoni immersivi, architetture laser e luci per essere alla pari con l’innovazione del luogo. Che non deve essere considerato una reliquia del tempo, ma qualcosa di collegato, appunto, alla fantascienza. È interessante vedere che in molti film di genere i designer si ispirino a scenari che ricreano questo tipo di architetture, tra cui la stessa Venezia, il gotico, le cattedrali, gli anfiteatri romani. Sì, c’è fondamentalmente molta storia architettonica italiana quando si pensa di immaginare qualcosa che viene dal futuro.
I Pink Floyd suonarono senza pubblico in un live rimasto nella storia. Stavolta ci sarà: cosa desideri che la gente percepisca in uno scenario così particolare?
È una domanda interessante perché, sai, le emozioni umane non progrediscono. Quello che volevi creare migliaia di anni fa come musicista o pittore è lo stesso di oggi o di domani. Il rapporto con l’amore, con la vita, con la morte, con la solitudine, con le emozioni umane di base. Quello che evolve sono gli strumenti e la tecnologia che usiamo per esprimere queste emozioni. Duemila anni fa usavi gli strumenti di quell’epoca, un secolo e mezzo fa arrivò l’elettricità, oggi il presente è l’intelligenza artificiale. Ma quello che spero e voglio mostrare in questo spettacolo completamente nuovo, perché davvero è qualcosa che non ho mai fatto prima, è usare una tecnologia all’avanguardia per creare quello che definirei un surplus di emozioni. Per me la musica elettronica è organica, sensuale, tattile. È come mettersi ai fornelli: cucinare elementi, cucinare forme d’onda, in modo molto italiano e francese, molto latino. Non è una cosa astratta.
Hai già suonato in scenari decisamente particolari: ai piedi di un vulcano, delle Piramidi d’Egitto, di fronte alla Torre Eiffel. È una fuga costante dalla routine? Una sfida spirituale?
Non penso sia davvero una fuga dalla routine, quello che mi spinge è la curiosità. Perché faccio ancora concerti oggi, dopo alcune cose che ho fatto, considerando l’età che ho? Perché non sono interessato a ripetermi. Qualunque cosa fai come artista, in un certo senso, è il tuo stile. Sono sempre stato interessato alle cose nuove, che sì, diventano ovviamente sfide. Per un artista non dovrebbe essere una vera domanda, perché penso sia il motivo per cui lo si diventa. È strano quando vedo musicisti che si ripetono facendo lo stesso tour ogni cinque anni. Anche l’idea di andare in tour non mi interessa molto. L’ho fatto, ripetendo esattamente le stesse cose ogni giorno, di luogo in luogo, finendo per dimenticare persino la città in cui mi trovavo. Per questa serie di spettacoli la mia idea è la stessa di sempre: sto cercando di fare su misura il concerto di Venezia, che sarà diverso da quello di Pompei. La ragione è semplice: l’ambiente è differente. E si parte sempre da lì.
Hai menzionato l’IA. Con l’intelligenza artificiale che fa musica al posto delle persone, cosa ne resta dell’autenticità?
Ogni rivoluzione può essere considerata una minaccia perché per definizione non sappiamo cosa succederà e di conseguenza dobbiamo stabilire nuove regole. La domanda che mi fai è la stessa che quelli del mondo del teatro facevano all’inizio del cinema: «Questi tizi che si muovono sullo schermo non sono attori, perché un attore è qualcuno dal vivo su un palco con un pubblico vero». E il cinema è diventato la forma d’arte principale. Lo stesso è successo con l’elettricità o la musica registrata. Quando è nata la musica registrata gli editori che vivevano pubblicando spartiti su carta dicevano: «Sarà la fine dei concerti, la gente resterà a casa ad ascoltare i dischi». Sappiamo che la musica registrata ha invece sviluppato l’industria dei concerti. È sempre la stessa storia. Ogni rivoluzione dirompente è vista come minaccia. È nel dna delle persone pensare che ieri era meglio, domani sarà peggio.
Quello che sto presentando al MEET di Milano con Promptitude è un esempio perfetto di come sfidare l’IA in modo poetico, mostrando cioè che il rapporto tra i prompt per l’intelligenza artificiale e il modo in cui la nutri ha un collegamento diretto con quello che vuoi creare. Ho controllo totale sull’AI che uso per questo progetto. È esattamente come un sintetizzatore. Ha lo stesso potenziale di esprimere sentimenti ed emozioni di un sintetizzatore, di un tam-tam o di un violino. L’emozione è creata dalla persona dietro lo strumento, non dallo strumento in sé.
Se avessi una DeLorean per tornare al tuo primo grande live a Place de la Concorde nel ’79, cosa porterebbe su quel palco?
Porterei tutti i miei giocattoli di oggi. Tutti quanti. Ma me ne servirebbe una in formato camion (ride). Ho molto rispetto per la tecnologia di ogni epoca, e sono stato fortunato e privilegiato a vivere tre rivoluzioni diverse. La prima, quando ho iniziato, era la rivoluzione della musica elettronica: i sintetizzatori, l’analogico, l’elettricità. La seconda è stata l’emergere dell’era digitale. La terza è l’intelligenza artificiale. E penso che sia anche la rivoluzione più dirompente ed eccitante: credo che i giovani artisti, invece di aver paura, dovrebbero abbracciare l’AI il prima possibile per creare l’hip hop, il rock, la techno e l’electro del futuro.

Foto: François Rousseau
Tuo padre Maurice era un compositore premio Oscar. Avete mai parlato di cosa significhi scrivere musica che dura nel tempo, che resta al tempo stesso contemporanea e futuristica dopo 30 o 40 anni?
Non proprio. Le colonne sonore erano il suo territorio, io ho sempre fatto concerti e album. Ma un collegamento c’è: ho sempre pensato che la mia musica, quando la eseguo in posti come Pompei o Venezia, possa diventare la colonna sonora del film o della storia che la gente può creare, ascoltando e vivendo un concerto. Sto creando probabilmente la traccia visiva della mia musica, piuttosto che fare la colonna sonora di una pellicola. Sono stato uno dei primi a integrare tanti elementi visivi nelle performance e su questo sono anch’io stato molto influenzato dall’Italia, dall’opera, dove improvvisamente i musicisti volevano lavorare con falegnami, pittori, scenografi per creare un’arte totale. È quello che mi interessa e che spero di condividere con il pubblico in questi spettacoli.
Guardando ancora più avanti, c’è un sogno musicale che devi ancora realizzare?
Sono sempre stato interessato a esplorare nuovi modi di esprimere e creare musica. Ricordo che durante i miei esordi incontrai Federico Fellini, mi disse una cosa che mi sorprende ancora oggi: «Jean-Michel, ho sempre pensato di fare un film diverso ogni volta. Ora, guardando indietro, mi rendo conto di aver fatto sempre lo stesso film». È assolutamente vero, per ogni artista. Prendete i Beatles, i Coldplay, i Massive Attack, Kanye West: stanno tutti dicendo la stessa cosa. È quello che chiamiamo stile. È la definizione di chi sei, qualunque strumento usi. Quello che proporrò negli show in Italia sarà una declinazione di quello che faccio, ma con strumenti nuovi, del 2025. Sempre e comunque con la mia voce.