Janelle Monáe & Lucy Dacus sono una la più grande fan dell’altra | Rolling Stone Italia
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Janelle Monáe & Lucy Dacus sono una la più grande fan dell’altra

Conversazione tra due artiste che parlano (di genere, fede, futuro e del perché alcuni dischi sembrano film) come se si fossero già incontrate. Forse non in questa vita, ma su una frequenza condivisa

Foto: Amy Harrity per Rolling Stone US

La luce del sole filtra dalle grandi finestre del Wondaland West, il rustico campus creativo di Janelle Monáe nascosto tra le colline sopra Hollywood, quando Lucy Dacus prende posto sul set. Le due artiste, con addosso blazer blu navy Thom Browne perfettamente coordinati, siedono una di fronte all’altra su poltrone di pelle consumata, immerse negli appunti che hanno scritto per la conversazione di oggi. Sono così concentrate che nessuna delle due si accorge che nella stanza è calato il silenzio, finché il dolce fruscio di Ankles, una canzone di Dacus tratta dal suo album del 2025 Forever Is a Feeling (recentemente ripubblicato in una versione ampliata), comincia a fluttuare nell’aria.

Dacus arrossisce sentendo la propria voce e decide di rompere quel silenzio. Si sporge in avanti, gli occhi accesi di curiosità. «Chi c’è sullo schermo del tuo telefono?», chiede. Monáe solleva lentamente il cellulare, quasi con reverenza. La schermata di blocco si illumina un ritratto in bianco e nero di Prince. «È così da sei o sette anni ormai. Non so se riuscirò mai a cambiarlo», risponde Monáe, avvicinando il telefono al cuore.

È un momento silenzioso, eppure rivelatore. Entrambe sanno cosa significa aggrapparsi a qualcosa che si ama: un’influenza, un sentimento, un mondo creato da loro stesse. Monáe, con i suoi cicli scintillanti di canzoni fantascientifiche e i suoi alter ego afrofuturisti, da tempo costruisce universi in cui la liberazione queer delle persone nere non è una fantasia, ma il fondamento (tanto per dire, ha appena annunciato la lineup completa dell’edizione più inquietante del suo festival Wondaween). Dacus invece, con testi lenti e una scrittura frammentaria da diario, disegna intere geografie emotive fatte di fede, dolore, memoria e perdita. Per più di un’ora le due parlano di paura, immaginazione e del piacere di lasciarsi andare: una conversazione intima intrecciata di rispetto e risonanza. Parlano come se si fossero già incontrate – forse non in questa vita, ma su una frequenza condivisa. Ma prima, Monáe vuole sapere qualcosa di più sul verso d’apertura della canzone-rivelazione di Dacus, Night Shift, dall’album Historian del 2018.

Monáe: “The first time I tasted somebody else’s spit, I had a coughing fit” (la prima volta che ho assaggiato lo sputo di qualcuno, ho avuto un attacco di tosse, ndr). Cosa volevi dire?

Dacus: Be’ speri che qualcosa sia fantastico, e poi, quando ci sei dentro, pensi: fa schifo. Non c’è chimica. Non c’è magia. È una delusione.

Monáe: È uno degli inizi di canzone migliori che mi vengano in mente, in assoluto.

Dacus: Spesso, quando scrivo, è semplicemente quello che è successo. La vita è poetica. Basta accorgersene. Immagino che valga anche per te: tendi a romanticizzare o a rendere poetiche le cose? Quanto spesso prendi spunto dalla tua vita per scrivere una canzone?

Monáe: Faccio ciò che è meglio per il protagonista dell’album. Vedo il film, vedo la scena, vedo il mondo. Vedo cosa indossa. So che tipo di marmellata preferisce sul toast. Mi costruisco un film in testa, o una scena che poi calo dentro una canzone, e scrivo un misto delle mie esperienze reali con questa versione futura di me stessa — o con una versione di un’amica, di una persona che amo o di un familiare che sto creando. Considero i testi come download. A volte non so nemmeno cosa significhino davvero, quale sia il loro senso, finché non sono là fuori nel mondo.

Dacus: Ti capita mai di sentirti come una tua stessa ascoltatrice? Di risentire le tue canzoni più tardi e relazionarti a loro come farebbe chiunque altro?

Monáe: Sì. È per questo che ho amato Historian. Mi piace quello che hai detto sull’essere una storica dei momenti: se non scrivi o non ne documenti, la gente non lo saprà mai. La penso in modo molto simile, posso diventare una spettatrice del mio film. Andrò a vederlo proprio come voi, e scopriremo le stesse cose insieme.

Dacus: Ho visto la tua collezione di vinili. C’è tantissima musica classica. Da bambina pensavo che la musica classica fosse noiosa. Tipo: è roba vecchia. Ma poi, crescendo, ho capito che è ancora una delle musiche più inventive e solide al mondo. Nella musica classica si costruiscono interi mondi solo con il suono. E questo lo sento molto nella tua di musica.

Monáe: In realtà non ascoltavo molta musica classica da piccola. Non ho iniziato a scoprire Rachmaninoff e Bach… Mi sono avvicinata di più alla composizione e all’orchestrazione grazie al mio amore per il cinema. Quando cercavo di capire che tipo di artista volessi essere, ascoltavo molti brani strumentali. Mi perdevo nella colonna sonora di Blade Runner.

«Non chiedetemi di reprimere la mia libertà solo per farvi sentire a vostro agio, ho passato molto tempo a disimpararlo»

Janelle Monáe

Dacus: Fai molte ricerche quando crei musica, o ti lasci semplicemente trasportare?

Monáe: Prendi The Age of Pleasure, per esempio, il mio ultimo album: ho studiato a fondo la mia comunità, la mia tribù, la mia famiglia. Quando uscivamo a far festa mi chiedevo: cosa stiamo ascoltando? Su cosa siamo tutti d’accordo? Che vibrazione, che frequenza condividiamo? E volevo fare un disco solo per noi. Cosa si prova quando Janelle Monáe si sente al sicuro? Cosa si prova quando le persone intorno a lei si sentono al sicuro? Persone nere e meticce, persone queer — quando non mettiamo al centro il caos, quando non mettiamo al centro chi non vuole vederci sorridere e divertirci — che aspetto ha tutto questo? E soprattutto, che suono ha?

Dacus: Parli spesso della tua sessualità e del tuo genere: sembra che si espandano nel tempo. Ora ti sei espansa al punto da essere tutto.

Monáe: Vedo la stessa cosa in te, soprattutto con questo ultimo progetto, che adoro. Ho amato il video di Ankles.

Dacus: Oh, è stato divertente da girare.

Monáe: Tu con quell’abito… Prima di tutto, eri splendida. Ma adoro quel personaggio. Vorrei vederlo emergere ancora, magari in una forma più lunga, in una storia.

Dacus: Tu possiedi davvero queste parti di te stessa, mentre io non so nemmeno se le ho. Devo interpretarle per vederle, attraverso la recitazione o altri tipi di scrittura.

Monáe: Aspetta, ma tu hai studiato cinema?

Dacus: Sì. Sento che quella è la mia natura, e che la musica è questa strana strada laterale in cui mi sono ritrovata per caso.

Monáe: È assurdo. Siamo la stessa persona?

Dacus: Be’, tu sei una regista. Sei, tipo, un’autrice.

Monáe: Non ho ancora finito di scrivere una cosa mia. Ci sto lavorando proprio adesso.

Dacus: Una sceneggiatura? Non devi per forza parlarne, ma sono curiosa.

Monáe: Be’, sì. In questo momento sto scrivendo una sceneggiatura.

Dacus: È fantastico.

Monáe: Il mio obiettivo è sempre stato scrivere, recitare, comporre la colonna sonora, produrre. Tante cose, lo so. Ma devo realizzare completamente un’idea, e so che non mi fermerò finché non ci riuscirò. Vorrei avere una specie di tubo da infilarmi nel cervello, perché il tempo che ci vuole… Hai l’idea, e per concretizzarla devi parlare con un’infinità di persone. Io invece dico solo: la vedo!

Dacus: Con il cinema, ci sono così tante altre persone coinvolte.

Monáe: Così tanti filtri. Già.

Dacus: È proprio quello il problema. Pensavo: accidenti, se continuo con il cinema dovrò parlare un sacco con i ricchi, dovrò convincerli che faranno soldi grazie a me. Mi sentivo demoralizzata. Mi odierei se contribuissi a un lavoro che ritengo dannoso per il mondo.

Monáe: Capisco. Ma lo vedo nei tuoi videoclip. Vedo le piccole sfumature. Seguo il personaggio. Entro nel mondo che hai costruito. Anche in Ankles, ho pensato: ha tutto senso. E anche il modo in cui usi le parole, è cinematografico. È quello che fa un regista.

Foto: Amy Harrity per Rolling Stone US; Total Look: Thom Browne; Gioielli: Nikos Koulis and Misho

Dacus: Grazie. Per me, quello che non ti fa smettere di ascoltare un album è pensarlo come un percorso attraverso le scene. Devi guadagnarti la fine del disco. Spesso le mie canzoni preferite sono verso la fine, perché è come se ponessi la domanda, iniziassi la ricerca e poi arrivassi a qualcosa. Ci pensi mai? Perché hai scene così intense, ambientazioni davvero vibranti che attraversi. Come tieni traccia di tutto?

Monáe: Non mi concentro sulla realizzazione di un album se non so già come voglio iniziarlo, quali atti ci saranno dentro e come finirà. Ho bisogno di conoscere il viaggio dell’eroe.

Dacus: Uh-huh.

Monáe: Devo sapere il punto di svolta, la chiamata all’azione, tutti gli elementi. E devo far emergere la confusione di questo personaggio in modo che si percepisca la sua trasformazione. Una volta che mi concentro su quello, tutte le canzoni fluiscono… A volte, però, le cose non si risolvono — e allora è un to be continued.

Dacus: Così è la vita.

Monáe: Già, è la vita. Non sempre le cose vanno come previsto. Ma devo saperlo prima di iniziare a tracciare la mappa.

Dacus: La mia prima ragazza al college mi diceva: «Adesso ci sediamo e tu guardi questi video musicali». Ricordo di aver visto il tuo videoclip per Q.U.E.E.N. con Erykah Badu. Per me è il migliore in assoluto. Lo faccio vedere a tutti i miei amici. Adoro il fatto che sei tu la tua stessa guest rapper. Il momento della rivelazione: ti prepari per un featuring e poi… sei ancora tu. È fantastico.

Monáe: Wow. Arrossisco… Stavo leggendo The Singularity Is Near di Ray Kurzweil prima di scrivere qualsiasi brano del mio primo album (The ArchAndroid del 2010, ndr). Parlava del test di Turing e di come, quando un’intelligenza artificiale riesce a ingannarti facendoti credere che stai parlando con tua madre e invece non è così, allora significa che la singolarità è arrivata. E guardando dove siamo oggi, il fatto che possiamo parlare con un chatbot… Non riesci più a distinguere una voce umana da quella di un’intelligenza artificiale. È sconvolgente quanto velocemente si muove la tecnologia, con un ritmo esponenziale.

Dacus: Volevo proprio chiederti di questo, perché 15 anni fa vivevi questa “vita da androide” a cui davi così tanto cuore. E ora sembra più vicino che mai il momento in cui gli androidi entreranno davvero nella nostra realtà.

Monáe: Sì. Sono già qui.

Dacus: Non lo so. Io, almeno, sono molto spaventata. Non sono a favore. L’intelligenza artificiale mi sembra un modo facile per le persone di sottrarsi alla fatica e al caos del convivere… Quando invece è proprio attraverso la difficoltà dello stare insieme che troviamo pace e benessere. Parte dell’essere a proprio agio, forse, è accettare che non si tratta solo di felicità continua. È imparare ad attraversare disaccordi e momenti duri.

Monáe: Nella vita reale.

Dacus: Esatto. È come quando ti strappi un piccolo muscolo per farlo diventare più forte.

Monáe: È un ottimo testo per una canzone: “You’re tearing the little muscles to get stronger”.

Dacus: Usalo.

Monáe: Mi piace. Ma ti capisco. Anch’io ho paura. Spero però che capiremo, come abbiamo fatto tante volte nella storia, che abbiamo comunque bisogno gli uni degli altri, nella vita reale. Dobbiamo fare tutto il possibile per restare con i piedi per terra e connetterci davvero: penso che ci farà bene, sul lungo periodo.

Dacus: Sì.

«È importante svegliarsi ogni giorno e chiedersi: mi sento più maschile o femminile oggi? Io voglio essere tutto, non credo che si debba scegliere»

Lucy Dacus

Monáe: Credo che anche la nostra salute mentale ne guadagnerà. Troppo isolamento fa male… Io sono un’introversa. E tu?

Dacus: Sempre di più, con il passare del tempo. Diciamo che sono sempre stata un’ospite. Invece mi sembra che tu sia quella che organizza le feste.

Monáe: Sì.

Dacus: Lo facevo pure io prima di trasferirmi qui. Sono la persona più introversa che abbia mai vissuto a Los Angeles. Vengo dalla Virginia e ho vissuto a Philadelphia per un po’. Le case in cui abitano erano, tipo, case aperte. Tornavo e trovavo qualcuno che festeggiava il compleanno senza nemmeno vivere lì.

Monáe: Per molto tempo… Sono cresciuta battista. Tu invece?

Dacus: Anche io battista.

Monáe: Sono cresciuta in chiesa. Non potevamo mostrare la pelle. Molte donne nella mia famiglia che erano state violate, quindi dicevano «copriti» come forma di protezione dagli uomini attratti da te. E ho dovuto disimpararlo. La mia libertà è importante. La mia autonomia corporea è importante, e la mia personalità non può essere soffocata in modo che tu uomo non possa avere impulsi di volermi violentare, molestare o violare il mio corpo.

Dacus: Non è colpa tua.

Monáe: Non è un mio problema, esatto. È qualcosa che dovete imparare a controllare voi.

Dacus: È una malattia, dall’altra parte.

Monáe: Non chiedetemi di reprimere la mia libertà solo per farvi sentire a vostro agio. Ho passato molto tempo a disimpararlo. E anche a spingere giù il seno, perché mi avevano insegnato a vergognarmene, invece di sentirmi sicura e orgogliosa.

Dacus: Ora hai le tette in bella vista sulla copertina dell’album.

Monáe: Forse sto recuperando il tempo perduto. Non lo so. Ma sto anche onorando il mio corpo e dicendogli: mi dispiace. Mi dispiace di non aver capito che non era colpa mia.

Dacus: È potentissimo.

Foto: Amy Harrity per Rolling Stone US; Total Look: Thom Browne

Monáe: Raccontami anche tu alcune delle cose che hai dovuto dirti. Perché, come me, possiamo entrambe indossare smoking e tailleur Thom Browne: essere completamente vestite e sentirci a nostro agio. Io mi sento sexy in un tailleur. Mi sento sexy anche nuda. Cosa ti passava per la testa quando pensavi visivamente all’iconografia del tuo look? Avevi paura?

Dacus: Di sembrare più mascolina?

Monáe: No, intendo nel passare da una cosa all’altra, acqua e roccia. Morbidezza e durezza. Essendo non binaria, la penso in termini di energia.

Dacus: Ti capisco benissimo. Se qualcuno mi imponesse di essere solo in un modo per sempre, penso che la vita non faccia per me. È importante svegliarsi ogni giorno e chiedersi: mi sento più maschile o femminile oggi? In tour, soprattutto se facciamo due serate nella stessa città, ne ho una da “ragazzo” e una da “ragazza”. Nel video di Ankles indosso questo abito lungo, e ovviamente sembra un costume perché lo è, ma ogni volta che indosso un look davvero femminile, mi sembra di indossare un costume, per divertimento. Poi, invece, mi sento più me stessa con abiti tradizionalmente maschili. Ma voglio essere entrambe. Voglio essere tutto.

Monáe: E tu sei tutto.

Dacus: Non credo che si debba scegliere. Anche se le parole non sono ancora al passo. Per alcune persone è fondamentale definire le cose, per me è più importante viverle. C’è voluto tempo. Come dici tu, crescendo battista, non ho avuto molti esempi di persone che potessi definire libere. Se ne intravedeva una, veniva criticata. O peggio, derisa. E tu pensavi: non voglio essere un’emarginata, meglio restare nel mio.

Monáe: Una volta, con un’amica, abbiamo fatto questo gioco: in macchina ci sono quattro energie. Una è la paura. Una è l’ego. Una è lo spirito. Una è la sessualità. Chi guida? Chi è il passeggero? E chi sta dietro?

Dacus: La paura dovrebbe stare sul sedile posteriore, ma spesso è lei a guidare. O forse è la passeggera. Penso che quando ami davvero la tua vita, la paura arrivi.. Più amo la mia vita, più sento di avere qualcosa da perdere… Forever Is a Feeling parla molto dell’innamorarsi e del disinnamorarsi, e di come l’amore possa devastarti la psiche. Ti cambia la vita, che tu sia pronta o no. È quella sensazione preventiva di perdita. Ma volevo anche scrivere delle canzoni felici. Credo siano importanti. Voglio invecchiare e poter riascoltare quanto mi sentivo così. E poi c’è un’altra cosa: penso costantemente al tempo, e stranamente penso sempre al mio letto di morte e a quanto vorrei che tutto ciò che ho fatto mi rendesse orgogliosa. Voglio solo un documento, come Historian, di aver provato queste sensazioni, perché voglio ricordare com’era.

Monáe: Mi piace molto. Una delle mie più grandi paure non è tanto la mia, diciamo, transizione da questo mondo, quanto quella delle persone che amo.

Dacus: È anche la mia più grande paura: che le persone che amo se ne vadano senza pace.

Monáe: Già. Non credo che ci si abitui mai.

Foto: Amy Harrity per Rolling Stone US

Dacus: Per quanto riguarda la scrittura dei testi, penso già al quinto, sesto, settimo album. Ogni anno ho una cosa (sul telefono, nda) chiamata Various Bits”: 2023, ’24, ’25, ogni idea che mi viene per un testo, la inserisco lì.

Monáe: È geniale. Io invece tengo solo i concept delle canzoni… È stato tutto così magico, meraviglioso, così serenamente stimolante e creativamente appagante essere qui, parlare con te e poterti dire di persona quanto ti ammiro.

Dacus: Non posso credere che tu lo stia dicendo a me. È assurdo. Sono una tua fan da così tanto tempo. Ti prego, continua a fare musica meravigliosa. Non devi per forza, ma sembra che tu abbia un sacco di progetti.

Monáe: Ho la sensazione che dovremmo fare anche dei film insieme, e li faremo. Lo dico al futuro.

Dacus: Deve succedere.

Monáe: Lo dico da futurista.

Dacus: Sono davvero emozionata per te.

Monáe: Non vedo l’ora che tu faccia il tuo primo film. Lo vedo già. Puoi fare tutto, e lo farai.

Dacus: Mi piacerebbe tantissimo.

Da Rolling Stone US.

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