James Senese: «La libertà l’ho pagata su questa mia pelle nera» | Rolling Stone Italia
Tra Napoli e il Bronx

James Senese: «La libertà l’ho pagata su questa mia pelle nera»

Siamo andati nella sua casa-studio a farci raccontare un po’ di storie: il razzismo, la vita nel dopoguerra, la scoperta del jazz, Roberto De Simone, Pino. A 80 anni non molla. «Non dovrei essere qui, ma all’Apollo»

James Senese: «La libertà l’ho pagata su questa mia pelle nera»

James Senese

Foto: Mario Spada

Partendo dal centro storico, percorrendo via Santa Teresa nel quartiere Stella (cantata da Pino Daniele nel brano Santa Teresa) si giunge sulla collina di Capodimonte che sovrasta e protegge da sempre la città di Napoli. Qui, immersa in un bosco maestoso, c’è la Reggia, casa di caccia borbonica (ma anche dei Bonaparte e di Murat), dimora dei re Carlo III, Ferdinando IV, Ferdinando II. Il palazzo reale dista tre chilometri circa dal quartiere Miano alla periferia nord e dal Parco Ice-Snei. Anche qui c’è un sovrano, il suo nome è James e appena si entra nel rione ce lo ricorda un gigantesco murale raffigurante il suo volto.

A Miano dire James è come nominare il Santo Gennaro oppure Diego, el Pibe de Oro. James Senese, il padre del Neapolitan power, punto di riferimento di intere generazioni di musicisti, è nato qui il 6 gennaio del 1945 e qui ha sempre vissuto e creato musica nel suo studio di registrazione. In quello stesso studio dove un pomeriggio di metà anni ’70 un Pino Daniele poco più che adolescente bussò alla sua porta proponendosi come musicista nei Napoli Centrale.

A Miano è nata la leggenda d’o Showmen (come ancora i più anziani lo chiamano), di questo ragazzo nero, figlio d’a guerra, come il protagonista della celebre Tammurriata nera di  E. A. Mario ed Edoardo Nicolardi che con gli amici d’infanzia Mario Musella e Franco Del Prete è stato il punto di partenza di un grande movimento musicale a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. James è per tutti l’emblema del riscatto, di chi con un dono naturale, un sogno e una passione quasi spirituale per la musica è riuscito a liberarsi dai condizionamenti sociali e psicologici della dura realtà quotidiana.

Leader di due band entrate nella storia come gli Showmen e i Napoli Centrale, tanti album divenuti cult (Napoli Centrale, Mattanza) collaborazioni con il maestro Roberto De Simone, Pino Daniele, Gil Evans, Ornette Coleman, Art Ensemble of Chicago, Steve Thornton, Lester Bowie, Don Moye, oggi Senese continua a fare quello per cui è nato: creare e suonare musica. A 80 anni, ha recentemente pubblicato Chest nun è ‘a terra mia, il suo 22esimo album di inediti. Lo incontro nella sua casa-studio intento a pulire e ad equalizzare una vecchia composizione inedita che definisce con orgoglio, mentre mi porge una tazzina di caffè, «‘nu piezz che ancora mo’ stà annanz’», ovvero che ancora oggi è avanti.

Non accontentarsi mai, essere contro tutto e tutti è un’esigenza che si trasforma quasi in un malessere?
La mia scelta di libertà l’ho pagata e la sto pagando ancora, su questa mia pelle nera. Non dovrei essere qui ma dall’altra parte del mondo, da dove vengo, a suonare all’Apollo Theatre di New York. Questa cosa mi ha condizionato e continua ad addolorarmi soprattutto negli ultimi anni, creando in me frustrazione. So di meritare di più, ma so’ nato nire, mentre la Seconda guerra mondiale stava per finire, in una zona ai margini di una Napoli ferita in attesa di essere ricostruita. Uno nella vita vuole trovare nella sua terra la vittoria, quello che merita, a me è accaduto ma solo fino a un certo punto. Da sempre mi dicono «Jè è ‘o cchiù grande», si è complimentato con me dopo un concerto anche James Brown, però alla fine non mi hanno mai dato lo scettro in mano. Sono nato nero a Miano e continuo a suonare il sax a metà strada tra Napoli e il Bronx.

Se c’è una colpa di chi è?
Di tutti, di un sistema che tiene lontano i non allineati, i diversi come me che lo sono dalla nascita. Sin da piccolo sono stato bullizzato per il colore della pelle e perché non avevo un padre. Una volta mi presi a botte con un bambino che mi aveva chiamato sporco negro, il colmo perché essendo anche lui un figlio della guerra, era appena un po’ più chiaro di me. Da adolescente ho iniziato a vestirmi con abiti appariscenti, scintillanti pensando che combinandomi così mi sarei scrollato di dosso il complesso di avere la pelle nera. Ho accentuato la mia diversità per renderla un tratto distintivo e non un fardello, un peso, una macchia scura, ma non è stato facile perché mi hanno fatto sempre sentire come un pellerossa tra i cinesi. Per fortuna ho avuto un nonno e una nonna che mi hanno amato incondizionatamente senza farmi sentire la mancanza di un padre. Anche le mamme dei miei amici mi volevano bene, mi coccolavano, ricordo con affetto la signora Sofia che quando mi vedeva mi chiamava Jemsiè.

Foto per gentile concessione di James Senese

Nell’album dei Napoli Centrale Mattanza c’è il brano ‘O nonno mio. È una dichiarazione d’amore nei confronti di tuo nonno?
Esatto. Mio fratello d’anima Franco del Prete ha scritto quello che io sentivo. Mi chiamo Gaetano come mio nonno, un nome diffuso dalle mie parti: Gaetano è il santo patrono di Miano, per noi è un santo importante come San Gennaro, San Ciro a Portici. Era pittore, modellista, lavorava nelle chiese come restauratore, faceva il suo lavoro con amore, passione e umiltà. Era piccolo di statura, ma era grande in tutto. Quando mi sfottevano in strada, lui correva a difendermi, e dopo mi abbracciava dicendomi «Jè, nun dà retta a nisciuno, tu sì speciale e io sarò sempre vicino a te a ricordartelo…». Avevo 10 anni quando è morto.

Quando entra la musica nella tua vita?
Da piccolo e per me è stato come avvolgermi in una coperta che ti protegge. Sì, perché la musica è democratica, fatta di note e suoni, poco importa il colore della pelle, la lingua, il ceto sociale, la cultura… Grazie alla musica non mi sono più difeso con i cazzotti, ma con le note del mio sax. A portare la musica nella mia vita è stata mamma che un giorno è tornata a casa con la copertina vuota di un vecchio 78 giri. Avevo 7 anni. Mi disse: «Jè guarda questo signore, è come tuo padre…». In copertina c’era un uomo di colore con in mano una cosa strana, mai vista prima: era John Coltrane e quell’oggetto era un sassofono. Da quel momento ho identificato quell’immagine con quella di mio padre mai conosciuto e che avrei visto per la prima volta in foto solo molti anni dopo. Ho supplicato poi mamma un paio di anni dopo di comprarmi lo stesso strumento che stava su quel disco, cosa che fece, firmando chili di cambiali, per lei un sacrificio enorme. Da allora sono passati 70 anni e non sono mai stato un giorno lontano dal mio sax.

Cosa ascoltavi? Cosa studiavi?
Ascoltavo i dischi di mamma, Little Richard, il primo rock, lo swing americano degli anni ’40-’50. Passavo ore nei mercatini dell’usato e nei piccoli negozi di dischi, cercando qualcosa che mi piacesse. Così ho conosciuto il genio di Miles Davis, di John Coltrane e poi gli stili di maestri come Albert Ayler, Sidney Bechet, Harry Carney, Bennet Lester Carter, Ornette Coleman, Eric Dolphy, Booker Ervin, Dexter Gordon, Coleman Hawkins, Gerry Mulligan, Charlie Parker, Sonny Rollins, Lester Young… la discriminazione di quei giorni continuo a sentirla addosso, non va via – come ho detto – pur avendo conquistato nel tempo una mia identità, sto ancora cercando ‘a vita mia qual è. Per questo la mia musica va sempre oltre: avanti.

Dopo l’avventura Showmen hai creato musica con Franco Del Prete.
Sentivamo un qualcosa prima degli altri: questa è avanguardia. Franco e io siamo stati i primi ad esplorare nuovi mondi sonori, capostipiti di una dimensione nuova. Per noi la musica è sentimento. Il sentimento è un suono, una goccia d’acqua, vedere all’improvviso una stella in cielo. Su un brano io non ci sto una settimana, ma anche un anno, fin quando non vedo la luce. Non abbiamo mai pensato dove andare, cosa comporre per entrare nelle grazie della massa, eravamo in viaggio alla scoperta di un qualcosa che forse non ho ancora trovato. La nostra fonte d’ispirazione è stata la vita, quella imbevuta in sentimenti veri. Charlie Parker diceva: «Le cose che ascoltate dallo strumento provengono dalle esperienze». Franco ed io eravamo un tutt’uno: lui mi ha permesso di esprimere il mio sentimento represso.

Napoli Centrale è nata così: Franco mi ha messo le parole in bocca. Mi manca, nessuno può sostituire James & Franco. M’ aggio ‘mparato a scrivere con lui. Quando è morto mi sono chiesto come farò a scrivere testi che siano all’altezza dei suoi? Fortunatamente lui continua a suggerirmi da lassù. Non so neanche io a volte come riesco scrivere determinate cose, è accanto a me. Noi due non siamo mai scesi a compromessi, né abbiamo mai strizzato l’occhio alla canzoncina da classifica fatta per soldi. Con coerenza, abbiamo raccontato le emozioni di chi affronta ogni giorno la lotta per la dignità di vivere: dolore e forza, speranza e paura, guerra e resistenza sono state il filo conduttore delle nostre narrazioni, tinte di jazz-funk, influenze latin music, tradizione partenopea e mediterranea. Già con i Napoli Centrale a metà degli anni ’70 abbiamo dato voce a chi in quel momento storico non aveva voce, con canzoni come Campagna, in cui abbiamo descritto un durissimo luogo di lavoro, quasi di schiavitù, di fatica per poco o niente, la campagna del bracciantato, del padrone e del servo. Canzoni come ‘A gente ‘e Bucciano dove abbiamo trattato il tema dell’emigrazione sud-nord. Ho sempre fatto musica per la mia gente, per gli outsider, per quella parte di umanità che si spacca la schiena per portare a casa un pezzo di pane e continuerò a farlo. Sono nato in una terra di outsider: sono un outsider.

Foto per gentile concessione di James Senese

Un altro tuo amico e compagno di viaggio è stato il nero a metà Mario Musella.
Mario era uno di noi, figlio di un militare pellerossa e di una ragazza napoletana del quartiere. Una delle più grandi voci italiane di sempre. Purtroppo Mario a un certo punto dell’avventura Showmen ha tradito i nostri sentimenti, abbandonandoci per intraprendere una carriera solista. Franco ed io invece non ci siamo mai traditi, fino all’ultimo album ‘O sanghe. Non abbiamo mai separato i nostri sentimenti. Dopo gli Showmen anzi ci siamo trovati ancora più uniti, scegliendo di percorrere insieme nuove strade.

Recentemente è scomparsa un altro persona a cui tenevi molto, il maestro Roberto De Simone.
Anche De Simone in qualche modo è stato bullizzato come me anche se per motivi diversi. Lui è stato un genio, troppo genio per chi comanda e muove i fili del sistema. A De Simone lo avevano metaforicamente già seppellito anni fa. Avevano deciso che il re doveva morire. Non è mai stato supportato come avrebbe meritato: l’hanno fatt’ for’, quando invece avrebbero dovuto dargli le chiavi del San Carlo, del Conservatorio. Ora tutti parlano di lui, come hanno fatto con Totò, con Pino, tutta gloria post mortem. Dopo tutti sono pronti a salire sul carro del morto, come maruzze che escono dal guscio, pronti a dire «era ‘o meglio amico mio», «con lui ho fatto… ho detto…», anche quelli che non ci sono mai stati. Ora sono tutti amici di Roberto come ora sono tutti amici di Pino…

Con il maestro De Simone hai fatto il Requiem per Pasolini.
Roberto aveva chiamato all’inizio Pino, dopo pensò a me, coinvolgendomi. Ho trovato difficoltà nella voce perché aveva composto le musiche su quella di Pinotto, ma sono riuscito a farcela. Era il 1986 e al Teatro San Carlo proponemmo per 15 giorni il Requiem per Pasolini. Una cosa fantastica. Ricordo il giorno della prima prova. I maestri d’orchestra, elegantissimi, impeccabili, mi guardavano con diffidenza e io questa cosa l’avvertivo. Ho fatto un bel respiro soffiando nel mio sax, allontanando qualsiasi timore. Il Requiem per Pasolini lo abbiamo portato in scena anche nel dicembre 2002 a Monaco ed anche lì è stato un enorme successo. Con Roberto ancora prima però avevo suonato nel Requiem di Natale nel 1985 e dopo nei Carmina Vivianea nel 1987. Roberto è stato il nostro orgoglio, la nostra cultura che tutto il mondo ci invidia così come la sua Gatta Cenerentola. De Simone era troppo e per questo temuto e tenuto ai margini di tutto.

Il titolo del tuo nuovo album Chest nun è ‘a terra mia non lascia spazio al dubbio di quello che provi oggi.
A musica è fernuta, i sentimenti non ci sono più, i ragazzi nun capiscono cchiù niente e si sparano per una scarpa calpestata, per un parcheggio o per uno sguardo di troppo. Faccio ormai uno sforzo enorme a inquadrare questa società che sta sott’e’ngopp. Lotto da quando sono nato, sembra che le cose siano cambiate in meglio, ma è falso, e in questi tempi che stiamo vivendo ce ne stiamo rendendo conto. Ho provato in questi nove brani nuovi – che proporrò live in tour da giugno – a narrare quest’umanità in conflitto con sé stessa, alla ricerca di risposte e di verità. Dovremmo farci attraversare dai sentimenti più autentici. Solo abbracciando fino in fondo le nostre emozioni, possiamo comprendere davvero il senso della vita.

Non posso non chiederti di Pino e della favola della superband di Vai mo’.
Un pomeriggio venne da me, grande goffo, simpatico, mi piacque subito. Mi colpì il suo entusiasmo, il suo amore per la musica, la sua napoletanità verace ma mai eccessiva e sguaiata. Da quel giorno ho avuto un fratello più piccolo. Riguardo la superband, non si era mai visto un gruppo fatto di tanti leader, ciascuno con una propria e solida storia: io, Tullio, Tony, Joe e Rino. Pino da grande artista, non ci ha limitato perché non ci poteva limitare, ha capito che ognuno di noi avrebbe contribuito alla creazione non di una musica americana, ma di una nuova musica napoletana. Con Pino in maniera naturale abbiamo cantato e suonato una nuova Napoli. Lui scriveva le canzoni e noi pittavamo la sua tela con i nostri strumenti. Una cosa irripetibile o se ne nascerà un’altra, sarà tra 3000 anni.

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