James Senese: «Ci sono i veri musicisti e poi ci sono le marionette» | Rolling Stone Italia
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James Senese: «Ci sono i veri musicisti e poi ci sono le marionette»

Lui appartiene alla prima categoria. In attesa di vederlo sul palco del JazzMi, abbiamo intervistato questo incrocio folle fra James Brown e John Coltrane. «Dal vivo i Napoli Centrale sono imprevedibili»

James Senese: «Ci sono i veri musicisti e poi ci sono le marionette»

James Senese

Foto: Riccardo Piccirillo

In Italia abbiamo una bomba che esplode da oltre 50 anni, una bomba chiamata James Senese: folle incrocio tra James Brown e John Coltrane. Sanguigno oltre ogni regola come il primo, sassofonista assoluto (in tutti i sensi) come il secondo. Ma i paragoni sono fastidiosi e non rendono giustizia: James è solo James, ed è un caso unico nella musica italiana. Mezzo bianco e mezzo nero, uno che ha inventato di sana pianta un formidabile mix tra la musica napoletana, il rock, il jazz, il soul, l’afrobeat e il funk. Uno che ha saputo vendere un milione di copie nel 1969 e poi tuffarsi negli anni ’70 finendo in classifica con un brano (Campagna) di fangoso jazz-rock napoletano che parlava di sfruttamento dei braccianti. Uno che ha fatto il rap prima del rap spaccandosi le mani a suonare sui palchi di tutta Europa.

James è James, ma allo stesso tempo è Napoli Centrale, è quello del supergruppo di Pino Daniele, è la musica fatta col sangue, non con i lustrini, è uno che ancora oggi macina concerti su concerti nei quali non si risparmia e dove mette in gioco tutto se stesso, un’esibizione diversa dall’altra, sempre e comunque. È uno che vive le note con l’anima, è uno sciamano musicale.

James si esibirà dal vivo con i Napoli Centrale il prossimo 24 ottobre al Teatro Dal Verme di Milano, nell’ambito della rassegna JAZZMI. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti travolgere.

Come nasce il tuo amore per la musica?
Sono figlio di un soldato afroamericano e di una napoletana, ho la musica nel sangue fin da bambino, ho studiato il mio strumento e mi sono diplomato ma poi mi sono messo subito sulla strada, a fare la gavetta, quella dura.

La gavetta è sempre la migliore palestra per un giovane musicista?
Eccome! La strada, la gavetta, il mettersi in gioco, il capire cosa sei veramente e cosa vuoi trasmettere tramite la musica. Macinare chilometri sulle ali della passione, prendere gioie e porte in faccia, suonare sempre e ovunque. Solo così si può vedere chi è veramente portato e chi lo fa solo per raggiungere un quarto d’ora di celebrità effimera.

Foto: Riccardo Piccirillo

Dopo la gavetta arriva la grande occasione con gli Showmen.
Sì, con Mario Musella, cantante straordinario, anche lui figlio di un soldato nativo americano e di una napoletana. Insieme abbiamo formato gli Showmen che ci hanno dato grandissime soddisfazioni: nel 1969 siamo arrivati a vendere più di un milione di copie con il singolo Un’ora sola ti vorrei.

Allora definisti la tua peculiare miscela di rock, soul, funk, jazz…
Sì, è la musica che ho nel sangue, mi è venuta naturale, non ho dovuto pensarci, è venuta fuori da sola.

Dopo lo scioglimento degli Showmen arrivano i Napoli Centrale.
Con il batterista Franco del Prete abbiamo messo su questa formazione. Oramai erano gli anni ’70 e le cose si stavano facendo avventurose…

Come vedevi la scena progressive italiana? Siete stati messi tutti nello stesso calderone, voi, i Genesis, il Banco…. stili diversi ma stessa filosofia.
Avevamo tutti la stessa voglia di sperimentare, di fare avanguardia, ognuno a modo suo. Sono felice di essere stato inserito in questo movimento.

Con il primo album dei Napoli Centrale, nel 1975, riuscite addirittura a entrare in classifica…
Sì, con il singolo Campagna, al quinto posto, una grande vittoria, viste le incognite con le quali la band era nata. Ci stupì anche perché facevamo avanguardia molto forte, di rottura. Quel discorso lo portavamo avanti noi, gli Area, eravamo i due gruppi di punta nel panorama europeo.

A proposito di Area, riascoltando il vostro terzo album del 1977 Qualcosa ca nu’ mmore si sentono particolari assonanze tra te e Stratos.
Allora dicevano che io e Demetrio eravamo i due cantanti più forti sulla piazza… Con gli Area condividevamo gli stessi ideali politici, abbiamo suonato insieme in vari concerti e ci siamo influenzati a vicenda.

Facendo un balzo all’oggi, si nota quanto il tuo messaggio musicale si sia arricchito pur lasciando inalterate le basi jazz, rock e soul.
Mi reputo un compositore a 360 gradi, tutto quello che mi esce deriva dal vedere un po’ oltre quello che vedono gli altri. Non mi faccio condizionare da niente, non ho mai fatto musica a tavolino, cerco sempre qualcosa che non c’è, qualcosa che stimoli il mio sentimento. Cerco di essere sempre avanti con la musica.

Sono cresciuti gli spunti etnici, africani…
Questo è un fatto completamente naturale, qualcosa che nasce in maniera del tutto spontanea, dal mio essere “nero a metà”.

Cos’è oggi James dal vivo?
È un qualcosa che non c’è in giro. Cerco di comunicare l’idea di una musica universale, non di una musichetta che passi e vada. Dal vivo siamo una specie di astronave che atterra, lancia il suo messaggio e poi fugge. Soprattutto siamo imprevedibili, questo è un fattore della massima importanza.

Come ti prepari al rito concertistico?
Prima di entrare in scena sono completamente in un altro mondo, anche un po’ imballato… mi sembra di non capire quasi niente. Quando sono sul palco però mi trasformo in un’altra persona, divento uno sciamano.

Cosa pensi invece di chi in concerto invece tende a proporre tutto uguale ai dischi, senza sorprese, con basi, ecc?
Queste sono marionette, senza volere offendere nessuno. Sono musicisti abituati a quel tipo di cose, fanno la loro canzone per fare successo, la rifanno paro paro… Ma la musica non è questo, la musica è un sentimento particolare, è vita. Quando fai musica devi cercare qualcosa che possa entrarti nel cuore e arrivare al cuore delle persone… Il suono…

Il suono o anche la parola?
Il suono! La parola passa e va ma la musica rimane, ogni nota deve partire dall’anima, in maniera molto forte.

I tuoi maestri?
Ce ne sono stati tanti, il primo è Coltrane, una spanna sopra tutti. Poi Miles, James Brown… Brown è una grande influenza per me, per il mio modo di cantare.

Una volta ti hanno chiesto: sei felice? E tu ha risposto: no, rifatemi questa domanda il giorno in cui Miles Davis sarà in testa alle classifiche.
Lo penso ancora, e credo che il buon Miles ne abbia passate parecchie prima di arrivare a quel livello. Una cosa è certa: Miles in testa alle classifiche vuole dire che viviamo in un mondo migliore.

Hai mai avuto modo di collaborare con lui?
Ci siamo conosciuti, ma mai collaborato. Certo, se fossi stato negli Stati Uniti si sarebbero aperte molte più porte e avrei finito sicuramente per suonarci.

Ti è mai venuta la tentazione di dire «mollo l’Italia e mi trasferisco»?
Come no? In ogni momento, anche ora. Per me è molto difficile identificarmi con questo sistema, sono mezzo americano, mezzo italiano… rappresento un miscuglio particolare di entità. Forse in America ci sarebbero state più strade da percorrere, mi sarei sentito parte di una comunità più ampia.

Nel panorama più ristretto della musica italiana hai però avuto la possibilità di creare qualcosa che non si era mai sentito prima.
C’è voluta una grande forza, una grande volontà.

Come hai vissuto il successo di Pino Daniele?
Pino ha meritato tutto il successo che ha ottenuto. Successo arrivato un po’ grazie alle cose che gli ho trasmesso io – la mia cultura, la mia visione musicale – e un po’ grazie alla sua abilità nella scrittura di musiche e testi che arrivavano in maniera diretta agli ascoltatori. Io rispetto a lui sono più… rivoluzionario.

Com’era suonare con gente come Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Joe Amoruso e Rino Zurzolo?
Quello è stato il nostro supergruppo, sapevamo il fatto nostro ed eravamo un tutt’uno, nonostante fossimo ognuno un leader. Sapevamo mettere da parte i nostri ego e metterci a disposizione di un capo, Pino, senza problemi.

Non vi è mai venuta voglia di suonare cose vostre, oltre la musica di Pino?
In realtà un gruppo lo stavamo proprio formando e c’era compreso anche Pino. Ci saremmo dovuti chiamare Scirocco. Poi per tutta una serie di motivi la cosa non poté andare in porto, ma sarebbe stata sicuramente un’esperienza fantastica.

Foto: Riccardo Piccirillo

Chi sono i Napoli Centrale oggi?
Ho ripreso a collaborare con musicisti con i quali ho suonato in passato: Rino Calabritto al basso e Fredy Malfi alla batteria. Alle tastiere c’è invece un giovane molto talentuoso: Lorenzo Campese.

Hai mai più rivisto Mark Harris, il primo tastierista dei Napoli Centrale?
Mark è uno dei più bravi musicisti con i quali ho collaborato e siamo tutt’ora in ottimi rapporti, ma oramai lui sta da una parte e io dall’altra.

Come è nata la collaborazione con Edoardo Bennato per il brano Ll’America (inedito contenuto nel doppio album antologico dal vivo Aspettanno ’o tiempo del 2018)?
Io e Edoardo siamo molto amici. Un giorno mi chiama e mi dice «James, tengo nu piezzo pe’ te». È venuto a casa mia e ci siamo messi a lavorare, con molto rispetto reciproco.

Cosa prevede il futuro dei Napoli Centrale?
Ancora molta musica da tirare fuori, un nuovo album che stiamo completando proprio in questo periodo.

Dove finisce James Senese e iniziano i Napoli Centrale?
Non iniziano e non finiscono, sono da sempre un tutt’uno.

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