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James Blake non vuole più farci piangere, ora vuole farci ballare

Dopo aver lavorato con Rosalía, Travis Scott e Beyoncé («la regina»), l’inglese sta per pubblicare un disco che punta al dancefloor. Questa volta niente featuring, fa tutto da sé (o con la compagna Jameela Jamil). In concerto il 18 settembre a Milano

Foto: press

Quante lacrime ha fatto colare James Blake sui visi di noi povera gente sensibile. Dodici anni di sospironi e piantoni stimolati da accordi toccanti e scelte vocali e melodiche struggenti. Ma chi conosce bene l’artista inglese – oramai da qualche anno acquistato dall’America losangelina – sa che i suoi esordi sono arrivati sotto l’egidia della R&S Records, l’etichetta indipendente belga che come claim ha un chiarissimo “In Order To Dance”. Certo, il ballo e l’elettronica da dancefloor sono rimaste negli anni un momento importante nei live di Blake, ma sui dischi quell’attitudine che puntava dritta al movimento era stata lasciata indietro in favore dell’emotività vocale.

Sarà che a un certo punto il mondo rap si è innamorato di lui (così sono arrivate le collaborazioni con Frank Ocean, André 3000, Travis Scott, Beyoncé, Jay-Z, Kendrick Lamar, Chance The Rapper ecc.) facendogli riscoprire il piacere per i bassoni, sarà che i 35 anni sono un bel momento per tornare a ciò che abbiamo amato veramente in passato, ma il nuovo album di James Blake Playing Robots Into Heaven –  in uscita venerdì 8 settembre, in concerto il 18 settembre al Fabrique di Milano – è un dichiarato, esplicito ritorno a quel primo grande amore. Sorprendendo i più, Blake per questo album non ha preso in mano la lista dei suoi contatti preferendo lavorare da solo (e con la compagna Jameela Jamil) nel proprio home studio, lasciandosi ampia libertà creativa in lunghe jam session con i suoi synth modulari.

Lo abbiamo raggiunto per la sua unica intervista italiana, cogliendo l’occasione per parlare del nuovo album, di musica elettronica e delle regine della musica di oggi, Beyoncé e Rosalía.

L’ultima volta che abbiamo parlato è stato per l’uscita di Friends That Break Your Heart, l’album che segnava i primi dieci anni della tua carriera. Mi dicesti che per te era «di essere di nuovo all’inizio della carriera». Come ti senti oggi con l’arrivo di questo nuovo lavoro?
Ora mi sento alla fine della mia carriera. No, sto scherzando! (Ride) Sono felice, eccitato per l’uscita del disco e soprattutto perché tornerò in tour. Per la prima volta sarà un tour musicalmente club oriented.

Playing Robots Into Heaven infatti è un disco che fa ballare. E in fondo tu arrivi propri dal mondo del club.
I principi che puoi ritrovare in tutta la mia musica più cantata si applicano anche alla musica da club. Non ho mai smesso di fare musica da ballare: ne ho solo pubblicato poca. Avevo bisogno di un progetto specifico. Metà di questo album è infatti formato da tracce su cui ho lavorato negli ultimi otto anni, mentre l’altra parte è tutta roba realizzata nell’ultimo anno. Per questo nel disco coesistono diversi sapori. Nei miei ultimi tour con la band ci sono sempre stati dei momenti di club music, momenti di techno.

Pensi che negli anni sia cambiato il modo in cui le persone si approcciano al club e al dancefloor?
La musica in quattro quarti o, ancor meglio la musica ritmica in generale non smetterà mai di funzionare. La club culture cambia in base al contesto: quali locali aprono, quali chiudono, che politiche vengono applicate. In Inghilterra ad esempio molti club sono stati chiusi negli ultimi anni e c’è stato uno spostamento del situazioni clubbing dai centro città ai quartieri più laterali. Sono conseguenze dovute a cambiamenti politici, e accadranno sempre. Se parliamo invece di come le persone vivono il club penso sia rimasto tutto piuttosto simile a quando ho iniziato.

Oltretutto a Los Angeles hai lanciato un tuo party – CMYK (come l’EP omonimo di James Blake del 2010, ndr). Una necessità legata a questo nuovo album?
Sì, assolutamente. Nei miei party ho potuto testare le tracce del disco man mano che le concludevo. Producevo, provavo i brani in pista, tornavo in studio a fare modifiche e riprovavo se funzionavano. Fino a che non giravano come volevo.

Hai dichiarato che alcune tracce di questo disco sono nate ripescando una serie di jam che hai fatto con i modulari. Da qui anche il titolo Playing Robots Into Heaven che richiama un certo rapporto con la macchina.
La particolarità della sintesi modulare è che tu imposti le tue macchine, i tuoi moduli, ma hai davvero poco controllo su quello che succederà. Puoi prevedere qualcosa, ma è quasi impossibile ricreare o ripetere. Devi stare focalizzato sul momento. Piuttosto che essere un compositore, è come se diventassi un curatore. Si potrebbe quindi dire che in parte ho curato e in parte ho prodotto questo disco. Molte cose sono nate jammando coi modulari senza guardare lo schermo del computer.

E hai prodotto tutto nel tuo home studio, giusto?
Sì, quasi tutto. Tranne Big Hammer che l’ho registrata in un hotel mentre ero in tour. In tour mi porto sempre dietro un piccolo modulare per jammare. Quel beat in particolare è nato in hotel mentre in aereo ho lavorato al sample preso in prestito da Hummingbird (brano di Metro Boomin con lo stesso James Blake, ndr). Quindi sì tutto il brano è stato fatto per strada.

Parliamo di Big Hammer. Un brano con un beat aggressivo, acido in cui non ci sono voci, ritornelli o quegli accordi confortanti ed emozionali tipici della tua musica. E per non farci mancare nulla anche un video bello dirompente. Hai deciso di pubblicarlo come primo singolo, volevi fungesse da manifesto di questo ritorno al club?
Sì, quella era l’idea. Ho cercato il brano più inaspettato e potente tra quelli presenti nel disco. Cosa avrebbe potuto sorprendere di più? Credo che questo disco sarà inaspettato per gran parte del mio pubblico, soprattutto visto le mie ultime pubblicazioni.

Probabilmente molti si aspettavano un disco pieno di collaborazioni rap.
Credo di sì. Amo fare collaborazioni, come si è visto in tutta la mia carriera, ma volevo che questo fosse un disco solista. Oltre ai sample vocali, c’è solo la mia voce. Era un intento chiaro; i featuring sarebbero stati forzati qui. Molta musica di questo album è differente da ciò che ho fatto in passato e ho pensato sarebbe stato necessario portare avanti tutto questo da solo.

Parlando delle tue collaborazioni di quest’ultimo periodo sul tuo Instagram hai pubblicato una foto in studio con Travis Scott mentre stavate registrando Delresto (Echoes), brano del suo ultimo Utopia in cui compare Beyoncé. La caption era: «L’onore di una vita». Ci racconti perché?
Prima di tutto perché Travis Scott è un artista che ammiro molto. E poi perché Beyoncé è l’artista con cui sono cresciuto e che ho ammirato per tutta la mia carriera. Lei è la regina. In passato lei ha fatto delle backing vocals in una mia traccia, Forward, che poi ha inserito in Lemonade. Ma questa è la prima volta che Beyoncé canta qualcosa che ho scritto io. E per me è stato un grandissimo risultato, un onore immenso.

Se dici regina non posso esimermi dal chiederti del tuo lavoro con Rosalía. Avevate già lavorato assieme in Barefoot in the Park e siete tornati in studio assieme per il suo Motomami, da noi votato miglior disco del 2022. Lì hai co-firmato uno dei miei brani preferiti, Como un G. Ci racconti come è andata?
Allora fammi ricordare, è passato del tempo. Ci siamo trovati in studio assieme e abbiamo iniziando cercando degli accordi. Abbiamo parlato, suonato, canticchiato assieme. Così in maniera molto naturale. In studio c’era anche Frank Dukes che da alcuni accordi che ci piacevano ci ha aiutato a trovare una struttura per il brano. È successo tutto molto in fretta. Un anno dopo mi è arrivata la versione definitiva che era molto simile alla sessione originale. Rosalía è una persona incredibilmente speciale e quella una delle mie canzoni preferite di quell’album, che è un disco che ha dei momenti incredibili.

E nel tuo disco invece un nome ricorrente è quello della tua compagna, l’attrice e attivista Jameela Jamil, accredita per la produzione aggiuntiva in tre brani (Asking to Break, Loading, Fire The Editor). Come ti trovi a lavorare con lei? Non c’è il rischio di limitarsi per evitare imbarazzi magari?
Lei mi conosce benissimo e conosce il mood in cui esprimo le emozioni. Ed è molto brava da individuare i momenti in cui questo avviene anche nella mia musica. Lavoro con lei nello stesso modo con cui lavoro con gli altri producer. Quando le chiedo di mettere mano a un mio brano è come se lo chiedessi a un qualsiasi producer che stimo. Perché lei oltretutto è anche una talentuosa producer.

L’ultima domanda è sul tuo tour che inizia proprio in Italia, al Fabrique a Milano, il prossimo 18 settembre. Cosa possiamo aspettarci visto che arriverà un album che punta al dancefloor?
Un’esperienza club, un riflesso del suono di questo album. Sarà intenso e con un disegno luci spettacolare. Sarà un’esperienza più teatrale e completa rispetto a quanto fatto in passato.

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