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Jake Shears: «Più energia sessuale nei club, grazie»

Il party boy degli Scissor Sisters è tornato con un album, ‘Last Man Dancing’, ispirato all’epoca in cui i club erano tra i pochi luoghi d’aggregazione della comunità gay. «Oggi la gente fa meno sesso» dice «e questo sta cambiando la vita notturna»

Foto: Damon Baker

“Take your nightlife seriously” diceva il designer statunitense Charles Eames negli anni ’70. Uno che l’ha presa molto sul serio è Jake Shears che con l’intenzione di tradurre in musica il suo amore per balli e luci stroboscopiche è entrato in sala di registrazione e ne è uscito con un nuovo disco. S’intitola Last Man Dancing ed è il progetto solista con cui tenta l’impresa: rispolverare la potenza della vecchia queer culture riformandola in chiave pop. Il club, l’amore di tutta una vita, che diventa opera.

Ancora ventenne, e ancora col suo nome di battesimo, Jason Sellards ha dato il calcio d’inizio alla sua carriera di performer lavorando come go-go dancer nell’East Village tra una lezione e l’altra alla New York School of Performing Arts. Nel 2000 dà vita agli Scissor Sisters, band di irriducibili party animals. Paillettes, costumi di scena alla Ziggy Stardust, falsetti alla Prince, anticonformismo, provocazioni estetiche glam e testi che prendono in prestito slang identitari della comunità LGBTQIA. Il nome stesso della band parla da sé: si chiama così anche una posizione lesbica del kamasutra.

La loro ultima vera hit è del 2012, Let’s Have a Kiki, poi lo scioglimento a tempo indeterminato. Negli anni a seguire, pur di mantenere vivo l’eterno party boy che ha dentro, Shears si è inventato uno spettacolo a Broadway e ha scritto il memoir intitolato Boys Keep Swinging in omaggio a David Bowie. «Recitare a Broadway mi ha reso migliore sia come performer sia come cantante» afferma, ma non dev’essergli bastato. Occorreva fare ancora qualcosa.

Dalla sua casa di Londra racconta: «Negli anni ’70 e ’80 erano i club gli unici luoghi d’aggregazione per gli omosessuali e pur non avendo vissuto in prima persona quella stagione, ho sempre sentito un irresistibile richiamo per la pista da ballo. Dopo infinite serate, a 44 anni ho deciso di convogliare quell’attrazione nel mio progetto discografico più ambizioso».

Sì perché il clubbing ha accompagnato i cambiamenti culturali di fine secolo e fatto da scenario attivo all’emancipazione della cultura queer, non solo quando vita notturna gay e disco music hanno saputo nutrirsi vicendevolmente – erano gli anni ’70 – ma anche quando tra il finire dei ’90 e i primi 2000 il pop ha iniziato a portare le istanze del mondo LGBTQIA alla luce del sole. Shears riconnette idealmente i tasselli di questo puzzle e ne ricava un album smaccatamente dance per nottambuli nostalgici.

«La prima metà di Last Man Dancing esplora sonorità pop, la seconda è pervasa da influenze anni ’70 e reitera beat in sequenza come farebbe un dj set. È un blend di ispirazioni che spaziano dalla French house a Nile Rodgers, dai Justice a Sylvester».

I riferimenti ai mostri sacri della club culture insomma non mancano, ma nel frattempo tutto è cambiato nel pop (soprattutto al maschile). Fino a vent’anni fa solo artisti del calibro di George Michael potevano permettersi il lusso di parlare apertamente della propria sessualità rimanendo in classifica. Pur sempre con le dovute cautele: al successo della romantica Amazing hanno fatto da contraltare i posti bassi nelle charts racimolati da Freeek!, scomunicata perché troppo gay. Altri – Mika ad esempio – hanno preso bene tutte le misure e aspettato anni prima di esporsi con il coming out. Oggi artisti come Troye Sivan, Frank Ocean, Olly Alexander, Lil Nas X, Sam Smith si muovono su coordinate radicalmente diverse, costruendosi una carriera senza più castrare la propria identità sessuale ma, al contrario, elevandola a coefficiente sostanziale del racconto. Jake Shears non è un novellino e di questo lento ma progressivo cambiamento cerca di coglierne l’essenza.

«Le persone hanno acquisito maggiore fiducia in loro stesse, la sensibilità collettiva nei confronti del sesso è cambiata e tutti possono esprimersi come vogliono. Nel pop maschile contemporaneo mi piace Sam Smith. Uscire così allo scoperto ed esprimersi come sta facendo significa correre dei rischi. Io sono sempre stato me stesso e non mi è mai passato per la testa di provare ad essere qualcos’altro. Riesci a immaginare che tipo di band sarebbero stati gli Scissor Sisters se mi fossi nascosto nell’armadio?».

Dai 2000 in poi anche il clubbing ha attraversato radicali trasformazioni: al posto dell’esperienza collettiva della discoteca hanno preso vita tante piccole esperienze semi-collettive (es. Boiler Room) filtrate dai social network che hanno nutrito la solitudine di ciascuno di noi allontanandoci dal dancefloor. I club hanno iniziato a svuotarsi e oggi – con una pandemia che ne ha in parte materializzato gli spazi – viene da chiedersi: la nightlife per come la conoscevamo ha i giorni contati?

«Una parte della nightlife è morta per sempre e il Covid l’ha definitivamente sotterrata. Di recente sono andato ad una festa tecno nell’East London. Tutto bellissimo e molto queer per carità, ma son durato neanche un’ora. A Londra i bar gay sono scomparsi e al loro posto hanno preso piede questi grandi eventi a cui accedere previo acquisto di ticket. In simili contesti, viste le enormi dimensioni, l’intimità scompare. Io preferisco dancefloor più piccoli. Ma dove sono finiti?».

«Credo che le persone facciano meno sesso e questo sta cambiando la natura dei party. Il sesso è diventato meno importante tra i giovani, non saprei perché, ma è così. La vita notturna che si nutre dell’energia sessuale che monta in circolo non può che risentirne. E così ci si diverte meno».

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