Jack the Smoker non vuole essere più l’underdog del rap | Rolling Stone Italia
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Jack the Smoker non vuole essere più l’underdog del rap

È l’archetipo del rapper che tutti amano, ma danno per sfavorito. «È frustrante». Per cambiare le cose ha fatto un album intitolato ‘Ho fatto tardi’ in cui si racconta in modo caldo, intimo e personale

Jack the Smoker non vuole essere più l’underdog del rap

Jack the Smoker

Foto: Roberto Graziano Moro

«Se guardo le classifiche di Spotify mi rendo conto di come alla fine il rap in Italia non è mai entrato davvero nelle teste delle persone. Non del tutto. Stiamo combattendo ancora per farvi innamorare di questo microcosmo incredibile, fatto di barre, incastri e rime ad effetto. Ringrazio chi ci sta credendo con me dal giorno uno, chi ha presalvato/ordinato il disco. Storie di vita ordinaria, di periferia, di parchetti».

Così scriveva Jack the Smoker sui social a pochi giorni dalla pubblicazione del suo album Ho fatto tardi. Un lavoro particolarmente denso e significativo, non solo perché il rapper di casa Machete è abituato a nutrire i suoi fan con quello che gli americani chiamano food for thoughts, cibo per la mente, ma anche perché da sempre Jack centellina le uscite. Nonostante sia discograficamente attivo dal 2003, infatti, questo è solo il suo terzo album solista, e il quinto se si contano anche i lavori collaborativi. Nei suoi quasi vent’anni di carriera è sempre rimasto un simbolo di integrità, di capacità, di amore incondizionato per l’hip hop: uno vero e sincero, che dà tutto sul palco e in studio, che sa fare gioco di squadra ma sa anche prendersi la scena, rispettato dai giovanissimi come dalle generazioni che lo hanno preceduto. E questo, nell’ambiente, vale più di molti dischi d’oro e di platino, perché anche se a volte può sembrare materialista e superficiale fino all’estremo, non tutto si misura con il metro della popolarità.

Cresciuto a Pioltello, nell’hinterland di Milano, Jack the Smoker si è formato in un periodo leggendario per la scena della città: un momento storico in cui, a guardare la situazione da fuori, il rap sembrava totalmente inesistente, ma in realtà ribolliva nel sottosuolo, grazie a raduni ed eventi per pochi intimi come lo Show Off, una serata organizzata da due pionieri come Rido e Bassi Maestro. Se vi chiedete perché quasi tutti i rapper che hanno cominciato a fare musica nei primi anni ’00 sembrano conoscersi da sempre, il motivo è che hanno stretto legami e alleanze proprio lì. «La mia è una generazione di mezzo, non ha avuto un tempismo molto fortunato», ride Jack. «L’apogeo della carriera di un rapper arriva attorno ai 20-25 anni, e quando avevamo quell’età purtroppo la scena hip hop era una nicchia».

Nella nicchia, però, non tarda ad emergere. Il suo primo gruppo, La Crème, è un duo che lo vede al fianco di un produttore classe 1982 come lui, Mace, che oggi sforna le maggiori hit rap e pop del momento per nomi come Ghali, Fabri Fibra, Lorenzo Fragola, Annalisa e tanti altri. Insieme pubblicano un solo album nel 2003, L’alba, che oggi è considerato un disco di culto. «È un po’ assurdo, considerando che ai tempi aveva venduto poche centinaia di copie. Forse lo è diventato perché appartiene all’epoca d’oro in cui la nuova scuola ha preso piede: oltre al nostro album erano usciti anche Mr. Simpatia di Fabri Fibra e Mi Fist dei Club Dogo, che poi avrebbero fatto la storia. Ai tempi, però, non ne avevamo minimamente la percezione».

Anche la sua sfida contro Il Danno dei Colle Der Fomento al 2theBeat del 2004, la principale battle di freestyle dei tempi, rimane negli annali; ancora oggi si discute su chi meritasse di vincere tra i due. Però fare il rapper per mestiere non è ancora un’opzione, così il giovane Jack the Smoker si mette d’impegno per sviluppare un solido piano B: «Ho studiato psicologia, mi sono laureato e ho cominciato a lavorare in quell’ambito», racconta. «Con il passare del tempo, però, ho capito che anche il rap poteva diventare un lavoro». Oltre al suo percorso artistico, da anni ha aperto uno studio di registrazione dove lavora ai dischi di tanti altri, è diventato anche un valido produttore ed è stato proprio lui a scoprire talenti emergenti come Dani Faiv, ma non ha alcuna intenzione di appendere il microfono al chiodo, per ora. «Finché avrò cose da scrivere e voglia di farlo, continuerò a fare il rapper. Ma se tra dieci anni non dovessi più averne, ho un bagaglio di esperienze per continuare a vivere di musica, anche dietro le quinte». Nonostante questa dichiarazione d’intenti, però, quando i suoi fan lo incontrano, la domanda più gettonata è sempre quella: Jack, quando esce l’album? E a ragione. Tra il suo primo progetto solista V.Ita e il secondo, Jack uccide, sono passati sette anni; tra il secondo e il terzo altri quattro. E questo nonostante nel mentre sia entrato nel roster di Machete, una delle crew più prolifiche e organizzate della scena italiana.

Anche per questo, molti hanno interpretato il titolo Ho fatto tardi come un implicito riferimento all’eterna attesa per la sua nuova musica. Non è così, però, spiega lui. «In realtà è un’idea partita dai ragazzi che mi hanno fatto le grafiche: un po’ perché nei brani c’è una vena un po’ nostalgica, e un po’ perché in molte canzoni accenno al fatto che non arrivo mai in tempo, che non sono mai puntuale, sia in senso pratico che esistenziale». La copertina è altamente simbolica, perché sembra rivelare la persona più che il personaggio: uno dei designer che la firmano è Maurizio What, ex writer e suo amico di sempre, tanto che era sua anche quella de L’alba («È stato bellissimo lavorare con una persona che mi conosce fin da quando avevo 15 anni»), e al centro campeggiano manciate di fogli scarabocchiati, accartocciati, cancellati e riscritti, che sono gli originali dei testi di Jack. «Ho una brutta grafia perché sono mancino, e in più adoro scrivere i miei testi su fogli volanti, che poi accumulo e appallottolo. In pratica creo delle balle di strofe che mi porto in giro ogni volta che vado in studio per registrare, e tutti ridono tantissimo di questa roba: sono una specie di clochard del rap!», scherza.

Foto: Roberto Graziano Moro

Ho fatto tardi è un album ricco di featuring prestigiosi, quelli che ci si aspetterebbe da chi ha partecipato al Machete Mixtape 4 dei record: Nitro, Dani Faiv, Lazza, Jake La Furia, MadMan, Izi. Ma è anche un lavoro molto intimista. Il fatto di rimettere al centro la vita, i sentimenti e le esperienze quotidiane, più che il suo indiscutibile talento di rapper, sarà senz’altro molto apprezzato, perché una delle critiche più frequentemente mosse a Jack uccide era proprio che si trattava di un prodotto troppo patinato e poco personale. Jack the Smoker è sempre stato bravissimo ad annullare la distanza tra artista e ascoltatore, rendendo molto facile immedesimarsi nelle sue canzoni, ma in quel progetto il fattore umano era un po’ più carente. «In effetti l’ho scritto in un periodo in cui mi ero un po’ isolato ed ero immerso nel rap game», ammette Jack. «Era appena uscito il Machete Mixtape 3, avevo gli occhi di tutti addosso e sentivo di dover dimostrare qualcosa. Per quest’album, invece, ho fatto un passo indietro, ho voluto creare qualcosa di più intimo, ho guardato a ciò che condivido con la famiglia e gli amici più stretti. Ho recuperato il valore dei rapporti più veri, senza pensare al jet set, dove è più difficile stringere dei legami reali». Il che non vuol dire che sia un prodotto meno hip hop dei precedenti, anzi, perché buona parte dei suoi migliori amici appartiene ancora a quel mondo, anche se non sboccia champagne o viaggia in fuoriserie. «Nella mia vita di tutti i giorni, frequento ancora le persone che ho conosciuto facendo la gavetta. Gente che ai tempi faceva rap, ma magari nel frattempo ha smesso: Bassi Maestro, Kuno, gli MDT, Zampa… Mi manca un po’ la loro presenza nel mercato discografico, perché sono da sempre i miei fratelli e sarebbe stato bello poter condividere il percorso anche con loro».

Uno dei motivi per cui Jack è diventato una specie di eroe popolare, per molti fan del rap, è che ha sempre rappresentato l’archetipo dell’underdog, quello che è dato per sfavorito ma per cui è impossibile non fare il tifo. «Quando ormai avevo già dieci anni di carriera alle spalle tutti mi dicevano che ero sottovalutato, e la cosa era abbastanza frustrante», ricorda. «Mi ha fatto capire che avrei dovuto impegnarmi per fare uno scatto in più, per valorizzare meglio il mio lavoro. Proprio in quel periodo è arrivato l’incontro con Machete, che ha rivoluzionato la mia carriera: il fatto che volessero investire su di me, anche se ero già grande ed ero ancora un artista per pochi, è stato un gran bel segnale».

Nonostante il sodalizio con Machete vada avanti proficuamente da molti anni, ormai, è consapevole che in ambito discografico tutto può succedere e si passa in un attimo dalle stelle alle stalle, come racconta in Fischi, una traccia da Ho fatto tardi. «Il mercato di oggi porta a vivere emozioni contrastanti, ad avere sempre paura del fallimento, indipendentemente da quanto è buona la musica che pubblichi», sospira. «Devi essere sempre attivo, non puoi permetterti di fermarti per un anno, figuriamoci per quattro, come ho fatto io. Le cose cambiano alla velocità della luce». Soprattutto per chi non ama particolarmente i riflettori, i giri giusti e le apparenze, come ammette apertamente in brani come Fashion Week o Jetlag. «Ho detto solo quello che pensavo: in questi anni mi sono dovuto confrontare con tutta una serie di dinamiche che non amo affatto, perciò quei pezzi mi sono proprio usciti dal cuore».

Ma Ho fatto tardi è un album introspettivo e profondo, solido e potente, in cui il cuore e la testa interagiscono alla perfezione. Nasce in un periodo di saliscendi emotivo, «in cui mi succedevano cose molto belle e molto brutte». È un disco fatto di piccole istantanee, come la magnifica Torna su, una canzone costruita tutta sui suoi ricordi di bambino: «Una serie di situazioni personali importanti, di quelle che la vita di mette davanti a un certo punto, mi hanno fatto ripensare a un episodio del passato», spiega. «Da piccolo io e i miei amici rubavamo gli stemmini delle auto e li nascondevamo in un posto, fino a quando le nostre fidanzatine non ce li hanno rubati tutti. Partendo da lì è nato un flusso di pensieri ininterrotto: la mia infanzia, le prime esperienze, la famiglia riunita al completo… C’è parecchia nostalgia nel racconto, come quando apri un vecchio album di foto e vieni travolto dai sentimenti». Sfidiamo chi sostiene che il rap non è poesia ad ascoltarla senza ricredersi, con la sicurezza che anche questa sarà una sfida che Jack the Smoker vincerà.

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