Jack Antonoff & Hayley Williams: non dimenticare da dove vieni | Rolling Stone Italia
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Jack Antonoff & Hayley Williams: non dimenticare da dove vieni

Conversazione fra due musicisti che si conoscono da una ventina d’anni: stare in una band, scrivere canzoni spudorate, contribuire con la musica a una comunità, proteggere il pubblico

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Un giorno, in giro in auto per Los Angeles, Jack Antonoff ha fatto ascoltare una nuova canzone ad Hayley Williams. Era il 2013 e Antonoff all’epoca era noto soprattutto per essere un membro dei Fun. Il pezzo che voleva far sentire all’amica era I Wanna Get Better, che sperava di pubblicare come primo singolo del suo nuovo progetto solista, i Bleachers. Quella «storia di vita riassunta in tre minuti» gli permetteva di affrontare una serie di traumi personali che avevano plasmato la sua identità. Ottenere l’approvazione di Williams era importante.

«È una delle prime canzoni che ho molto amato e che parlava di salute mentale», ricorda la cantante dei Paramore. «Avevo bisogno di dire le stesse identiche cose, solo che a farlo doveva essere qualcun altro al posto mio». Mentre lo racconta, lei e Antonoff sono seduti uno di fronte all’altra in uno studio nel Queens, in un pomeriggio di luglio, pochi giorni dopo il Newport Folk Festival dove la cantante è salita sul palco coi Bleachers.

I due si conoscono da una ventina d’anni. Nel 2005 Antonoff ha visto i Paramore esibirsi per la prima volta a un festival, il Bamboozle (ex Skate and Surf) nel New Jersey. Williams era fan della band che Antonoff aveva, gli Steel Train, e in un servizio fotografico aveva posato con indosso una loro spilletta («La più grande che possedevo», precisa). Quand’è uscito il primo disco dei Fun. è stata lei a passarlo a John Janick, co-fondatore dell’etichetta Fueled by Ramen (e oggi a capo della Interscope), che ha poi messo sotto contratto la band. «Mica lo sapevo», dice Antonoff. «Se non fosse stato per quel gesto non sarei arrivato da nessuna parte».

I Fun. hanno fatto da spalla ai Paramore nel 2010 nel momento in cui Brand New Eyes stava diventando un successone. Durante quel tour, Williams ha passato molto tempo con Antonoff al catering, evitando il dramma che dietro le quinte stava montando all’interno della sua band. «Era proprio divertente stare nel nostro gruppo all’epoca», dice con tono sarcastico. 
«Tu però eri una divertente con cui stare», replica Antonoff, «eri super simpatica, lo pensavamo tutti».

Si sono scoperti spiriti affini: entrambi si sono fatti le ossa nelle scene rock DIY imparando a suonare, scrivere e costruire una comunità, lei a Franklin, Tennessee e lui nella contea di Bergen, New Jersey. Da allora ne hanno fatta di strada: i Paramore sono diventati una band enorme e la presenza scenica e la voce potente di Williams hanno ispirato artisti che vanno da Billie Eilish a Lil Uzi Vert. Coi Paramore in pausa, Williams, che ora ha 36 anni, ha pubblicato un eccellente album solista, grezzo e intenso, Ego Death at a Bachelorette Party, che uscirà in versione fisica il 7 novembre con due brani aggiuntivi, per un totale di 20 tracce.

Nel frattempo Antonoff, 41 anni, è diventato uno dei produttori di maggior successo al mondo lavorando su una gran varietà di musiche, dalle hit di Taylor Swift ad alcune tracce di GNX di Kendrick Lamar. Giusto per citare un paio di album usciti quest’anno, lo si ritrova in ruoli fondamentali in Man’s Best Friend di Sabrina Carpenter e Vie di Doja Cat. Coi Bleachers ha collaborato con uno dei suoi miti, Bruce Springsteen, e ha trasformato la sua band in una forza della natura dal vivo. Reduce dal successo del magnifico Bleachers uscito l’anno scorso, non si è mai sentito tanto sicuro di chi è e cosa vuole.

Hayley Williams: Mi sono emozionata quando ho sentito I Wanna Get Better a Newport. È introspettiva, ma ha anche qualcosa di trionfale nel suono. Mi sono commossa pensando a dov’eri a livello di vita e di carriera quando me l’hai fatta sentire quella volta e a cosa sei riuscito a fare da allora. Abbiamo superato tanti ostacoli nelle nostre carriere, ti ho visto e ti ho avuto accanto accanto a sostenermi a mia volta. I Wanna Get Better non è esattamente la prima canzone tua che ho sentito, ma resterà quella che ha dato il via a qualcosa.

Jack Antonoff: È la prima che ho scritto e che mi ha fatto pensare: potete andarvene tutti a fare in culo. Qual è la prima canzone che hai scritto in cui hai pensato «ecco, questa sono io»? Tipo: «Se dovessi aprirmi, è questa la musica che troveresti dentro di me»?

Williams: Ne ho avuti parecchi di quei momenti scrivendo Ego Death at a Bachelorette Party. Quando li scrivevo, i testi mi facevano sentire a disagio, ma poi dopo un po’ li capivo. Ripensavo a tre settimane prima e mi dicevo: ah, ecco cosa volevo dire… L’ho provato con Whim ad esempio. Quel pezzo dice molto di come vedo le relazioni, dei miei punti deboli, della mia tendenza ad autosabotarmi. Quando ho visto il testo stampato ho pensato che quelle parole potrebbero stare sulla mia lapide, e andrebbe bene così.

Antonoff: Quel disco dà l’idea di essere in una stanza con te più di qualsiasi altra cosa tu abbia fatto.

Williams: È un complimento bellissimo.

Antonoff: Somiglia a una conversazione. Ed è la cosa più difficile da fare. È molto più facile stare sul vago. Sei protetto da una corazza quando sei vago.

Williams: È per questo che, nella mia testa, vorrei essere più poetica. Se un po’ ti nascondi puoi conservare un’aria da artista cool, ma non mi viene naturale.

Antonoff: In tutto l’album ci sono momenti in cui sei spinto a pensare: ma wow, l’ha detto davvero? È come parlare con una persona, e questa cosa dovremmo cercare tutti di recuperarla.

Williams: Se non ci vergogniamo almeno un po’ di quel che diciamo nelle canzoni, allora non stiamo dicendo niente.

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Antonoff: Il tuo album ha rafforzato un’idea che ho da un pezzo a proposito alla musica. In quest’inferno fatto solo di marketing, e poi marketing e ancora marketing, è diventato ovvio cosa conta e cosa no. Il tuo disco m’ha fatto felice.

Williams: Fantastico, grazie. Veniamo da un certo tipo di scena e di musica dov’era tutto molto comunitario, dove davi e ricevevi energia. Oggi sento il bisogno di riconnettermi a tutto ciò che è locale. Voglio andare ai concerti più piccoli. Voglio sentire il sangue e le ossa.

Antonoff: È la nostra versione di quando, durante la pandemia, tutti facevano il pane in casa o piantavano cose in giardino.

Williams: Il mondo moderno ti spinge sottoterra, in un certo senso.

Antonoff: Quand’ero giovane si diceva che la tv ti rimbecillisce. Ora guardarla sembra quasi romantico. Se qualcuno mi dicesse «vediamo un film insieme?», io mi commuoverei. Guardare un film a casa di qualcuno è l’equivalente anni ’60 di stendersi in un campo…

Williams: O fare line dancing. Soprattutto senza schermi in giro.

Antonoff: Amica mia, io sono felice solo se ho qualcosa di acces, la tv, il laptop, il telefono. La mia compagna (l’attrice Margaret Qualley, nda) medita e fa cose del genere, ma non è malata come me.

Williams: Mi spiace ammetterlo, ma ti capisco. Romanticizzo la versione di me che non è così.

Antonoff: Quando sei sul palco, però, ti senti appagata.

Williams: Lo sono. Ma penso che le mie altre attività… sto cominciando a vederne gli effetti negativi. Se voglio continuare a fare la musicista per tutta la vita, devo tornare a essere com’ero a 16 anni: provare di più, passare più tempo in camera coi miei strumenti e non star lì a marcire.

Antonoff: Per quanto, anche marcire non è male.

Williams: Ma sono stanca delle notizie. Ci sono giorni in cui capisci che devi staccare.

Antonoff: È per questo che vado tanto in studio, perché davvero… non penso a nient’altro.

Williams: Ti chiudi dentro quel mondo, sei focalizzato.

Antonoff: A te succede?

Williams: Quando scrivo. Spesso inizio scavando tra gli appunti, per vedere che follie ho messo giù quando non pensavo razionalmente. È un buon punto di partenza, magari trovo uno spunto e capisco che lì c’è qualcosa… ecco, è questa qua la purezza che cerco. Non l’ho trovata in nessun’altra cosa. Tu ti sei mai sentito in colpa per questo?

Antonoff: Più in passato. Ma ormai la mia vita è questa qua. È quel che faccio e che non vedo l’ora di fare. Passo il tempo cercando di preservare questa possibilità. Da un lato è bellissimo, dall’altro è un po’ patetico non avere una vita più equilibrata.

Williams: Lo stesso per me. Zac (Farro, il batterista dei Paramore, nda) è bravissimo a giocare a tennis. È una passione in cui riesce bene tanto quanto nella musica. Lo ammiro tantissimo per questo. Io non ho niente del genere.

Antonoff: Ma va bene così. A volte basta vederla in modo semplice: è quel che fai. E se passi la vita a farlo, è una vita che vale la pena d’esser vissuta. Diventa un problema quando distorci tutto, quando passi troppo tempo in studio o in tour e questo ti porta a drogarti, a isolarti, a farti male alla testa e al corpo… Ma tu sei una delle persone più funzionali che conosco.

Williams: Gran complimento. Non mi sento così, ma…

Antonoff: Sentirsi funzionali è il primo passo per diventare davvero fuori di testa. «Sto funzionando» lo si dice un attimo prima di gettarsi in acque profonde (ride). Ma poi, credo che derivi dalle scene in cui siamo cresciuti, non è che tutti suonano come se fosse l’ultimo giorno della loro vita. Tu lo fai, io lo vedo e mi ricorda quand’ero ragazzino al Wayne Firehouse (un locale nel New Jersey, nda) e lì era davvero tipo: questo è l’ultimo concerto della storia.

Williams: Ogni concerto è così, almeno per me.

Antonoff: Pure per me, ma non è facile per il fisico. Ne ho parlato con Springsteen, perché anche lui suona ogni sera come se fosse l’ultima, e ancora ci riesce.

Williams: È in gran forma.

Antonoff: Io non invecchierò così. Tu sì.

Williams: No, no. Io sono uno stecco, mi disintegrerò.

Antonoff: Non è così che ti vedo. Ma parlavamo dell’invidia per quelli che si siedono al pianoforte e ti fanno piangere. È stato interessante sentire Bruce dire che non è per niente facile, perché io invece lo vedo come uno solidissimo, una roccia. Ma è doloroso suonare così. Lo è sempre stato. Non è questione di età.

«Se non ci vergogniamo almeno un po’ di quel che diciamo nelle canzoni, allora non stiamo dicendo niente»

Hayley Williams

Williams: È tosta, a meno che tu non sia abituato. La cosa più dura è recuperare la voce. Se mi muovo e dormo, sto bene fisicamente. La voce, però… oh mio Dio… Il che mi porta a un’altra domanda: ti capita spesso di sentirti scollegato dal tuo corpo come artista?

Antonoff: Non ho alcun legame col mio corpo, tranne un rapporto strano col cibo credo nato dalla vita in tournée. Nessun legame. E mi faccio male spesso quando suono.

Williams: Vivi qui dentro (indica la testa, nda). Accade tutto lì, che sia creatività, ansia o altro?

Antonoff: Più che altro istinto. Vivo molto qui (si indica la pancia, nda). Sento come un punto interrogativo nello stomaco… Ti capita?

Williams: Sì, ho un legame nevrotico col corpo: se mi stresso per qualcosa, lo sento subito in gola o nello stomaco. E quando le cose vanno bene…

Antonoff: Aspetti l’inevitabile…

Williams: Che ti cada un pianoforte in testa…

Antonoff: E tu manco sei ebrea, il che è curioso perché è un nostro tratto culturale.

Williams: Il mio rapporto con questa cosa è distorto. Anch’io ho problemi col cibo. Mi interessa molto parlarne con altri artisti, perché abbiamo un canale di sfogo per l’energia: scrivere testi, sbatterci sul palco… È energia che ci attraversa.

Antonoff: È meglio dello yoga o cose del genere. Ma poi mi frega, perché dopo un concerto mi sento il re del mondo, mangio di tutto e sto malissimo.

Williams: Vorrei che gli artisti parlassero di più di queste cose. Mia madre insegna alla Belmont (l’università di Nashville, nda) e parla molto di intelligenza emotiva e consapevolezza. Mi interessa sempre quel che dice a proposito del corpo. Qualsiasi cosa mi succeda, si manifesta tramite acne, nausea, dolore alla spalla. Sono messaggi, no?

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Antonoff: Siamo cresciuti in un contesto simile. Ti capita mai di avere la sensazione che qualcuno cerchi di riscrivere la tua storia?

Williams: Sì… Non credo che qualcuno abbia mai raccontato per bene la storia della nostra band, ma a questo punto ci rido su.

Antonoff: Anche per me è così. E ti capisco: basta fare un paio di dischi pop e d’improvviso la gente dice che no, non sei cresciuto in quel contesto, non hai suonato nei localini. Massì che l’ho fatto! E ora ne sto scrivendo con onestà per la prima volta.

Williams: È più interessante del mondo pop.

Antonoff: Era la cosa più interessante del mondo.

Williams: Difenderò sempre le scene in cui siamo cresciuti, anche se ormai detesto molti aspetti di quel mondo.

Antonoff: Pure io. Ho parlato con un ventenne e gli ho detto che c’erano un sacco di cose sbagliate, ma avevamo qualcosa contro cui lottare. Non andavi a un concerto senza una scatola di cibo, era tutto Food Not Bombs. Era un’introduzione precoce all’attivismo, alla musica, a tutto. Oggi è bello ascoltare i giovani, ma dev’essere dura avere 15 anni e sentirsi chiedere: cosa puoi fare per le popolazioni indigene? E tu non ne hai idea. Ho amici con figli adolescenti a cui viene chiesto di avere risposte su qualunque cosa. Zero chance di essere uno stronzetto.

Williams: Che fase fondamentale della vita quella in cui potevi essere uno stronzetto. Ho visto le Linda Lindas dal vivo a Nashville e ho pensato: wow, chissà com’è avere quell’età e dei genitori che capiscono tutto quel che dici.

Antonoff: Io ero arrabbiatissimo.

Williams: Anch’io.

Antonoff: Non per sminuirli, ma far parte di una sottocultura era tutto.

Williams: È la base per…

Antonoff: Per reagire.

«Far parte di una sottocultura era tutto»

Jack Antonoff

Williams: Vedo quel che fai, e ne fai di cose, ma ci sento dentro sempre la stessa passione. Sono orgogliosa di te, perché so da dove vieni e che cosa significa e lo riconosco in ogni tua mossa. È ciò che cerco nel nostro mondo. Mi pare un periodo interessante questo qua: tanti artisti che sono in giro da tempo stanno vivendo la loro grande occasione. Parlo di Charli XCX, dei Turnstile. È come guardare il mio film preferito.

Antonoff: Tutto ciò che pensavamo sarebbe rimasto sotto la superficie è venuto a galla.

Williams: E ha influenzato la cultura pop. Quando sono stata al concerto dei Turnstile all’Under the K Bridge di New York, mi son detta: i tipi hardcore dominano l’industria musicale e questa cosa mi piace da morire.

Antonoff: L’ultima volta che li ho visti ho pensato che sembrava di stare a un concerto dei Kid Dynamite. Il modo in cui si muovono è pazzesco. L’estetica delle vere band è tornata e lascia spazio solo a chi può davvero farlo. Ci sono un sacco di persone a cui interessa questa estetica, ma far funzionare una band è un altro paio di maniche.

Williams: Potremmo parlarne per ore. Io invece sto pensando a cosa significa aver sempre voluto far parte di una band, ma non per estetica, ma per la sicurezza che ti dà.

Antonoff: La sicurezza è il massimo. Ti muovi come un’unità, come una gang.

Williams: Non so vivere in altro modo.

Antonoff: Ma anche da solista, sei tu la band e il tuo modo di fare resta comunque comunitario.

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Williams: Non avrebbe senso altrimenti. Questo disco è venuto fuori di prepotenza da me ed è giusto che sia uscito a mio nome, ma sento che sarà l’ultimo. Voglio far parte di cento band prima di morire. Mi piace stare in una stanza con altra gente e vedere qualcosa che prima non esisteva diventare reale.

Antonoff: Sì, è il classico caso in cui il risultato è maggiore della somma dei singoli. È per questo che mi piace produrre dischi: dall’unione nasce qualcosa di nuovo. Non capisco come si possa litigare in studio. Se succede, vattene e stop. È come pilotare un aereo, mica puoi star lì discutere.

Williams: Concordo. Sai che la nostra band ha avuto un po’ di drammi. Il nostro manager diceva sempre che la comunicazione è la cosa più importante in un rapporto. Lo ripeteva da quando avevamo 16 anni. E anche se pensi di averla capita, questa cosa, passa un po’ di tempo e ti tocca ricapirla da capo. È assurdo dirlo in un’intervista così importante, ma ho sempre avuto la sensazione di essere stata incolpata per tutto quello che succedeva nella band, e non capivo se era perché sono la cantante o perché ero una ragazza, e la gente non capisce le ragazze.

Antonoff: Sei sempre stata l’unica donna, giusto?

Williams: Sì, magari qualcuna dal vivo ogni tanto, ma mai nella band. A volte ne andavo fiera, tipo: posso farcela, voglio proteggere il gruppo. Ma il mio atteggiamento, in studio o sul palco, è sempre stato: so cosa mi piace e voglio dare il mio contributo, ma voglio che l’atmosfera sia serena che siano tutti felici.

Antonoff: È così che si fanno le cose per bene.

«Voglio far parte di cento band prima di morire»

Hayley Williams

Williams: Ti voglio chiedere una cosa sul fatto di lavorare da soli: come capisci quando un’idea è tua e quando invece la puoi destinare a una collaborazione?

Antonoff: Collaborare di solito significa lavorare su canzoni di altri. E poi ci sono le mie. A volte scrivo qualcosa e mi chiedo: mi spiacerebbe perderla? Se la risposta è sì, la tengo. Se no, è solo una cosa bella che ho creato.

Williams: Ti è mai capitato di dare qualcosa a qualcuno e poi riprenderla?

Antonoff: No… cioè, sì, ma è meglio non parlarne.

Williams: Ok…

Antonoff: Comunque non lo faccio mai per davvero. Quando parlo di dare qualcosa a qualcuno, mi riferisco a degli accordi o a un’idea di produzione. Non ho mai scritto una canzone per poi darla via. Né lavorerei mai con un artista che non è anche un autore. Una delle cose assurde del mio lavoro è quant’è distorta la percezione di come si fanno i dischi. È curiosa, questa cosa, e radicata nel sessismo, perché vedo bene la differenza di come la gente reagisce a seconda della persona con cui lavoro.

Williams: Eh sì.

Antonoff: È pazzesco perché non ho mai visto mettere tanta passione nel proprio lavoro. So di cosa parlo perché io c’ero e chi critica no. Magari siamo tre persone in tutto, io, Laura (Sisk, la sua ingegnera del suono, nda) e una o due persone al massimo in uno spazio minuscolo… e anche se non ci sono, tutti hanno la loro bella idea di cosa succede. Se mangio qualcosa di buono, mica dico «so come l’hanno cucinato». È strano andare ogni giorno in un posto, fare qualcosa che funziona quasi come una forma di meditazione e sapere che quello che succede non verrà mai raccontato… ed è giusto così. Non voglio che venga raccontato. La verità è noiosa: la magia deve rimanere dentro.

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Williams: Lo capisco. Cerco di filmare il più possibile, magari tengo Photo Booth aperto mentre scrivo, specialmente se lo faccio con una persona amica. Ma sono ancora all’inizio. Tu ti sei buttato subito nelle collaborazioni e sempre in modo autentico. Io invece per anni ho detto no a tutte le proposte di scrivere con altri. Non volevo uscire dalla bolla dei Paramore. Ora ho 36 anni, vent’anni di carriera, e mi rendo conto di avere poca esperienza fuori da quel mondo. C’è una parte di me che vorrebbe provarci, ma c’è anche tanta insicurezza. Tu ti spaventi ancora?

Antonoff: Se si tratta della mia musica, è terrificante. Ma quando trovi persone che vedono le cose come le vedi tu, si crea una connessione magica. Quando lavoro con altri, è subito evidente se funziona o meno. Il lavoro è incredibilmente intenso.

Williams: Io ho sempre allacciato relazioni lentamente. Ho fatto questo album con Daniel (James, il produttore, nda). Quando ho finalmente deciso di provarci, mi sono sentita al sicuro, ho capito che eravamo simili.

Antonoff: L’unico modo per creare qualcosa di buono è farlo con un piccolo gruppo di persone che vede la cose allo stesso modo.

Williams: È una cosa che ho capito lavorando a questo disco che è nato in un periodo non esattamente felice… Avere al fianco degli amici ha reso l’esperienza migliore di qualsiasi abbia mai avuto con un’etichetta. È la prima volta che non sono sotto contratto con qualcuno.

Antonoff: Io non faccio entrare quasi nessuno, perché mi sento vulnerabile. Non importa chi sei o cosa hai fatto in passato. Diventa tutto irrilevante. Ogni autore pensa di aver scritto la sua ultima canzone. Non pensa mai di poterlo rifare.

Williams: Quanto vorrei che non fosse così.

Antonoff: Sei talmente vulnerabile che non puoi far entrare nessuno. Se entra qualcuno e dice una cosa tipo «ooh, quella batteria», tu praticamente muori.

Williams: A me è piaciuto attingere alla creatività degli amici di cui mi fido. Se anche dicessero «hai pensato a quest’altra cosa?» non toglierebbe nulla, sarebbe solo un affinamento. Sta anche qui l’importanza della comunità. È come la parte vulnerabile di cui parlavamo… la fiducia… Un’altra cosa molto bella dell’essere parte di una sottocultura è che ti senti abbracciata e pensi «Ok, condividiamo valori simili». Mi sento protetta, sai, abbracciata, stretta.

Antonoff: Lo stesso per me.

Williams: Onestamente non voglio altro.

Antonoff: Neanch’io voglio altro. Voglio solo assicurarmi che tutti vengano a vederci in sicurezza e che l’esperienza non sia rovinata da quanto costa.

Williams: Sì, sì, sì. Come ne parlerai? Come farai il tour?

Antonoff: Anzitutto continuerò a dirlo ad alta voce, perché la musica dal vivo non è mai stata così importante. È bellissimo. La gente va ai concerti alla grande stile adesso.

Williams: Non so se sono io se davvero sta succedendo in modo simile al modo in cui siamo cresciuti.

Antonoff: Nel bene e nel male, guardo sempre lì. Amo tantissimo i tour e la musica dal vivo. Se la gente non viene al tuo show, vuol dire che non vali un bel niente… I My Chemical Romance stanno facendo il tour più grande di sempre in questo momento.

Williams: È davvero bello. Sono bravi tipi.

Antonoff: Sono cresciuto con loro. Sono dei grandi. È una attività che sta prosperando. Tutti vogliono vedere musica e ce n’è per tutti. Però poi ci sono un paio di stronzi in cima che devono dire no. E tu rimani con ciò che resta, cioè persone come noi che dicono al pubblico: «Ehm, ci scusiamo per la finta fila vip. Grazie per avercelo detto. La chiudiamo».

Williams: Ho perso una gran parte della mia innocenza la prima volta che ho capito che avevamo guadagnato abbastanza soldi per fare benzina e andare al prossimo show, ma dovevamo dare metà al locale. Mio padre diceva: «Questa è l’America».

Antonoff: Lo ricordo anche io. L’ho visto a ogni livello. So quant’è difficile essere uno che suona davanti a un locale vuoto. Ti forma il carattere. Quello che mi fa incazzare è: perché attirare poche centinaia di persone non deve portare a un onesto guadagno? Tu e la tua band non potete guadagnarci e invece le grosse aziende che possiedono i locali, monopolizzano tutto e dichiarano miliardi di ricavi. Datevi una calmata, questa cosa funziona, tutti vogliono partecipare, non è anarchia totale.

Foto: Andreas Laszlo Konrath per Rolling Stone US

Williams: La questione dei locali indie che arrancano mi uccide. La mia strada preferita a Nashville è stata completamente distrutta.

Antonoff: Per me le cose sono semplici e c’è una sola risposta che purtroppo non diventerà mai realtà: devono accettare di guadagnare un po’ meno. Voglio che tutti in quel locale si sentano esseri umani dal primo all’ultimo minuto. Voglio che sia la loro serata migliore di sempre. L’ultima cosa che voglio è che le persone pensino che vengono trattate male. Se un tempo ci fosse stato uno della sicurezza che si comportava male, sarebbe sparito in un attimo. Si cercava di migliorare l’atmosfera.

Williams: Ricordo di essere stata spesso molestata a parole. Era al North Star Bar (a Philadelphia, nda). Ho fatto un gran concerto, ma c’era questo tizio che continuava a dirmi cose disgustose. E avevo 16 anni… Qualcuno lo ha sentito e lo ha portato fuori subito. Gli ho risposto a tono, ma non posso fare più di tanto quando mi sto esibendo. Quell’episodio mi ha molto colpita è la dimostrazione che possiamo prenderci cura l’uno dell’altro. Ci sono molte mele marce. Ci sono un sacco di tipi che mi dicono cose strane. Fa schifo. Ma io sono qui. Continuerò a reclamare il mio spazio e le persone giuste mi aiuteranno.

Antonoff: La cultura del pubblico è tutto.

***

Production: Patricia Billoti for Pbny Productions
Jack: Styling By Patricia Villirillo at Future Rep
Grooming: Sigi Kumpfmueller
Styling Assistance: Morgan Greer Lipsiner
Hayley: Styling fy Jared Ellner for A-Frame Agency
Hair and Makeup: Brian O’Connor
Styling Assistance: Brooke Figler and Maya Sauder
Tailoring: Maria Del Greco for Lars Nord Studio
Set Design: Jacob Burstein for Mhs Artists
Set Design Assistance: Allan Majano
Digital Technician: Kenny Aquiles Ulloa
Photographic Assistance: Alonso Ayala and Michelle Peralta
Video Director of Photography: Will Chilton
Camera Operators: Haley Snyder and Sophie Power
Audio Engineer: Ryan Daniel Northrop
Editor: Graham Mooney
Audio Mixer: Gabe Quiroga
Vfx: Miguel Fernandes
Production Manager: Chris Mccann
Production Assistance: Aaron Barak
Photographed at Attic Studios

Da Rolling Stone US.

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