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J Balvin, l’intervista: il patron del pop latino

Oggi la colombia ha dimenticato i narcos e sforna hit. Come “Bonita”, “Ginza” e “Mi gente”, manifesto del nuovo re del reggaeton

Mezzora prima del concerto, nel backstage della O2 Academy di Brixton, a Londra, J Balvin è seduto a controllare il suo Instagram su un divanetto. Di fianco a lui c’è una tuta scintillante di Palm Angels, quella che indosserà sul palco, assieme alle scarpe super limited edition di adidas, create da Pharrell per Chanel. A un certo punto entra una sorta di gang fashionista, guidata da un tipo con capello lungo, orecchino a croce e canotta traforata di Gucci, che si rivelerà essere Héctor Bellerín, terzino dell’Arsenal e della nazionale spagnola, recentemente premiato dai blog di moda come calciatore meglio vestito del mondo. I due si scambiano abbracci e selfie per i relativi profili, e Balvin lo benedice con un buena vibra. È una sorta di tormentone, un mantra, il suo, presente in tutti i messaggi vocali che manda – ininterrottamente – ai suoi amici, per ringraziarli del supporto, fregandosene di chi ha di fronte. Balvin, nato nel 1985, ha decisamente poco interesse per la privacy personale (ovviamente, senza esporsi troppo sulla sua vita privata). Se deve scrivere a un amico o controllare come sta andando un suo brano su Spotify, non gli interessa chi ha di fronte. E se qualcosa non va bene lo dice. In Colombia è una superstar da anni, dagli inizi di questo decennio almeno. Viene da Medellìn – città nota negli anni ’80 e ’90 come roccaforte del cartello di Pablo Escobar, come sappiamo bene dalle varie serie tv sul tema – ma che si sta trasformando oggi in un centro tra i più cool e dinamici dell’America Latina, grazie alla volontà delle giovani generazioni di risollevarsi dalla polvere della malavita.

Ci chiedono di uscire dal backstage, perché lo show sta per iniziare e Balvin deve ritirarsi e concentrarsi. È credente, ma non è praticante: «In Colombia abbiamo una cultura di cattolicesimo, ma per me le religioni hanno portato solo separazioni e differenze. Credo, ma mi definisco spirituale, non religioso». Da qui viene probabilmente la sua umiltà e il suo continuo ringraziare per i successi ottenuti. Che non sono affatto pochi.

Il concerto è una scarica internazionale di bassoni reggaeton e ass-shaking. Sugli spalti c’è un mix culturale, «metà latinos e metà europei, è bellissimo», dirà, precisando poi che le barriere in realtà sono più «mentali che effettive nella musica. La gente è curiosa, se crei una hit funzionerà in qualsiasi lingua e in qualsiasi Paese».
La mattina dopo il live, in un albergo del centro, ritroviamo Balvin: si presenta in pelliccia azzurra e maglietta, con un paio di Nike ai piedi, che sarebbero uscite nei negozi soltanto il giorno dopo. La sua attenzione al look è maniacale: è stato uno degli ambassador dell’ultima fashion week di New York, e indica come suo punto di riferimento Pharrell Williams, «perché unisce tutto, la musica, l’arte, la moda, lo stile…». Ci tiene anche a far emergere lo spirito cool dei colombiani. «Il mondo lo deve sapere», dice.

Nonostante gli occhi segnati, chiede una camomilla. Senza zucchero. La sua dieta è abbastanza rigida, soprattutto per reggere i ritmi della vita da popstar, da cui non si tira mai indietro. È attivo 365 giorni all’anno, dicono dal suo entourage, con una disponibilità totale per quanto riguarda attività promozionali e rapporto con i fan. «Ma ogni tanto devo prendermi il mio tempo. Adesso ho appena fatto qualche giorno di vacanza e relax. Devi saper bilanciare. Ma questa struttura mentale l’ho presa dalle mie radici, la disciplina è fondamentale. Sono cresciuto imparando a non arrendermi mai».

La storia di Balvin oggi non sarebbe più replicabile. È arrivato minorenne negli Stati Uniti per tentare fortuna, lavorando come imbianchino e tuttofare, prima di sfondare nella musica. Nel 2015 ha cancellato il suo primo show televisivo negli Stati Uniti a causa dei commenti razzisti espressi da Donald Trump nei confronti degli immigrati dal continente. «Quello che faccio è più potente della politica, è un virus. Tutti possono apprezzarti, senza nessuna differenza di pensiero», dice.

Il successo è arrivato con il reggaeton in una versione pop, un po’ più edulcorata rispetto a quello che si sentiva nelle strade del Sud America fino a qualche anno fa. Il boom di Balvin in campo internazionale è arrivato nel 2016, con Ginza, ed è continuato l’anno scorso con Mi Gente, inserita nella playlist di fine anno di Barack Obama. Un successo studiato a tavolino, «ho lavorato così tanto che me l’aspettavo». Balvin è riuscito a creare un movimento (che quest’anno verrà portato avanti da Machika, hit già sfornata da Balvin e che, come ogni diesel latino, esploderà con i primi caldi), imponendo la musica in lingua spagnola nel mondo, al di là delle classifiche di settore. Una consacrazione che il mancato Grammy a Despacito non inficia in alcun modo. «La musica deve essere per tutti, è pop proprio perché è popolare. Ed è esattamente quello che volevamo creare, musica che non fosse per chi già ascoltava reggaeton, ma che potesse avvicinare del pubblico nuovo». E che potesse in qualche modo esportare lo spirito colombiano in giro per il mondo. «È una missione, non solo per l’anima del mio Paese, ma per tutti i latini. Sta cambiando l’opinione sulla Colombia, ci sono tante brave persone che si fanno un culo così per fare del loro meglio. Quello che facciamo deve essere di ispirazione per tutti, soprattutto per le nuove generazioni, per farle crescere a dovere». E abbattere le barriere, a suon di buena vibra, potrebbe essere una soluzione non solo in campo musicale.

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