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Ivan Cattaneo: «Ecco il mio testamento»

È contenuto in due libri, un concept album, una antologia di pezzi ricantati, un DVD, dipinti, videoarte, «un atto di resistenza a un mondo sempre meno profondo». Intervista all’artista che celebra 50 anni fuori dagli schemi

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Ivan Cattaneo torna con un progetto che più di un disco sembra un universo parallelo: Due.I, che uscirà venerdì solo in formato fisico, è uno scrigno multimediale che racchiude due libri, quattro CD, un DVD, pittura, poesia, videoarte e la sua filosofia di vita sui generis. Un lavoro monumentale costruito in otto anni, che lui stesso definisce «il mio testamento». Da un lato c’è Titanic-Orkestra, romanzo e concept album dove 24 personaggi immaginari prendono voce in 24 canzoni inedite. Dall’altro Un mammifero che canta, antologia e autoritratto di 50 anni di carriera, dal 1975 al 2025, tra aforismi, dipinti e canzoni ricantate da zero: «È un atto di resistenza a un mondo sempre meno profondo», ci ha spiegato Ivan. «Il Titanic è il mondo che sta andando verso lo sfacelo, con personaggi che vivono nell’adulazione della velocità e non si incrociano mai. Ma anche quando la nave affonda, l’orchestra continua a suonare per mandare un messaggio».

In Saffo-Love, primo singolo, celebra l’amore lesbo: «Le donne gay hanno molto più coraggio dei gay maschi. L’amore tra donne è poco cantato». Ma Cattaneo, come sempre, non risparmia nessuno. I social: «Con TikTok è come con le patatine fritte, scorro video uno dopo l’altro e dopo non ti rimane niente». La tv: «È diventata buona per le Rsa, le residenze per anziani». I colleghi più giovani: «Quello che oggi fanno Elodie o Achille Lauro, io l’ho fatto 40 anni fa». La discografia: «Non mi interessa il mercato, mi interessa il miracolo». Chi non fa coming out: «Se non lo fai da giovane, come Renato Zero non lo fai più. È come se Amanda Lear dicesse oggi di essere un uomo…». Il tutto con la consueta ironia che, dietro alla risata sardonica, nasconde una sensibilità molto più ampia: «Sono ateo, nel senso più religioso del termine».

Due.I è un oggetto unico: due libri, quattro CD, un DVD, arte visiva, videoarte, aforismi, tutto in formati fisici e non digitali. È un atto di resistenza?
Sì, proprio così. Infatti nel romanzo descrivo un mondo che sta andando verso lo sfacelo. Con i personaggi che vivono nell’adulazione della velocità, viaggiano paralleli con gli altri ma non si incrociano mai, ed è tutto tenuto insieme dalla compulsione della tecnologia. Poi ci sono dei flash di Cat-Ivan, il mio alter ego, un personaggio che dedica le canzoni ai 24 personaggi, che a loro volta esprimono dei racconti. Una scatola cinese.

Quando l’hai proposto ai discografici, abituati ai singoli, sono sbiancati?
Marco Rossi è stato lungimirante. Mi ha ricordato Nanni Ricordi perché, come lui, ha detto sì. A questo progetto ho lavorato per otto anni e all’inizio Rossi non riusciva a capire. Poi gli ho portato un esempio, con le pagine incollate da me, si è appassionato e ha detto: «Non venderemo niente, però bisogna pubblicarlo». Contiene, oltre a tante canzoni nuove, poesie che ho scritto nel ‘67 a 14 anni, oppure racconti inediti. Di certo non si esaurisce nel breve.

Ti senti più un sopravvissuto o un mutante che è già nel futuro?
Di certo un sopravvissuto, visti i miei 72 anni di età. Un sopravvissuto anomalo, perché anomalo sempre stato. Con la consapevolezza che esco non solo con un disco, ma con un progetto ampio e che non mi mette in competizione con Elodie o Achille Lauro. Quello che loro fanno oggi, io l’ho fatto 40 anni fa. Non posso tornare a certe provocazioni. Prima vendevo me stesso, adesso voglio vendere dei contenuti più profondi. Siamo mondi diversi.

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Hai mai avuto la tentazione di smettere con la musica?
Tutti i giorni. Non a caso ho definito questo progetto il mio testamento. Intanto, di sicuro, non farò mai più un lavoro del genere. È stata una fatica micidiale, sia per realizzare 24 inediti che per riarrangiare i miei revival, più il romanzo e il resto dei contenuti. In più è stata una spesa notevole, che ho pagato io in prima persona. Magari potrei tornare più avanti con un disco con qualche canzone, un libro, ma qualcosa di così impegnativo mai!

In Titanic-Orkestra 24 personaggi immaginari prendono voce in 24 canzoni. È una Spoon River contemporanea?
Lo è nelle intenzioni, benché c’entri poco con le storie di Spoon River. Lì i personaggi si raccontavano da soli, nella mia opera si presentano declamando dei racconti, in più ci sono io che li descrivo nelle canzoni tenendo insieme il tutto, anche a livello pittorico.

Hai sottolineato che i musicisti del Titanic «continuano a suonare anche mentre la nave affonda». È così che vedi gli artisti oggi?
La chiamerebbero resilienza, no? È il messaggio stesso del Titanic: la nave affonda, però l’orchestra c’è sempre e continua a suonare, persino in fondo al mare, simbolicamente, per mandare un messaggio. Non lo leggo in negativo, con i musicisti di oggi sull’orlo del baratro, anche se la musica non è più quella di una volta. Nel romanzo, dove sono il cantante dell’orchestra, quando mi esibisco nel salone delle feste, gli aristocratici ci considerano soltanto musica da sottofondo. Solo quando stiamo per affondare, allora si accorgono che abbiamo un valore. Anche fraintendendo: se suonano, le cose non vanno poi così male.

Chi apprezzi oggi in musica?
Mi piace molto Dardust, che è un amico da quando lui era bambino e ha contribuito agli arrangiamenti. In giro c’è qualcosa di interessante, solo che in generale trovo poca identità. Sono senza un carattere proprio. Fanno tutto bene, ma in un range ben specifico. Tanto che Lucio Corsi, strizzando l’occhio agli anni ’70, sembrava talmente strano da apparire diverso da tutti. Gli altri sono ben arrangiati, cantano abbastanza bene, ma senza spiccare.

Chi è l’erede di Ivan Cattaneo?
Molti dicevano Achille Lauro. Quando è uscito, nel primo Sanremo, in tanti lo sostenevano sui social: «Sembra Ivan Cattaneo». Alcuni hanno risposto: «E la voce dov’è?».

Non vi siete mai conosciuti?
No, mai.

Ti piacerebbe?
Non particolarmente. Poi dipende. Non sono più uno che vive nel mito dei personaggi. Mi hanno proposto di conoscere Mick Jagger, visto che il suo medico italiano è un mio fan. Ma anche a lui ho detto di no, perché ho un mito e non voglio che mi si rovini conoscendolo.

Hai incontrato altri grandi che, di persona, ti sono apparsi deludenti?
Quasi sempre. David Bowie, per esempio, era un grande stronzo anche prima del successo. Io l’ho conosciuto a Londra. Era geloso di Mark Edwards, con il quale ero molto amico, mettiamola così, che era all’epoca produttore dei Jethro Tull e dei Curved Air, poi ha lavorato con Brian Eno e U2. Una volta ci ha fatto andare, a me e a Mark, da una parte all’altra di Londra dopo averci invitato a mangiare e quando siamo arrivati ha cambiato idea. Non aveva più voglia, da vero inglese snob. Era agli inizi, non era al top del successo, eppure era già stronzo. All’epoca erano più famosi Leo Sayer e Cat Stevens, lui davvero meraviglioso.

Insomma, sempre meglio non incontrare i propri idoli.
Una molto simpatica, dentro o fuori dalle scene, è Amanda Lear. Adesso ho un bellissimo rapporto con Gianni Leone, della band rock progressive Il Balletto di Bronzo. Ci sentiamo sempre e quando l’ho conosciuto mi ha fatto dei bellissimi regali. Mi ha proposto uno spettacolo teatrale insieme, ci stimiamo tantissimo a vicenda. Ed è un grande musicista.

Se ti invitassero a Sanremo, accetteresti o vorresti che affondasse come il Titanic?
Quando mi chiedevano di andare, fino al 1983 che ero famosissimo, io rifiutavo. Mi chiamava Gianni Ravera, che era persino venuto al Bandiera Gialla a Rimini implorandomi di partecipare, ma non ne avevo bisogno. E Sanremo, ai tempi, era un’altra cosa. Poi, quando avrei avuto bisogno di andarci ma ero meno famoso, non mi ha più cagato nessuno. L’ultima volta nel 2017, mi ha chiamato il direttore d’orchestra Pinuccio Pirazzoli dopo aver ascoltato una mia canzone, Madama di vento, che è contenuta in questo progetto, che è nata una sera con Fabrizio De Andrè, anche se lui ha partecipato in modo indiretto. A Pirazzoli era piaciuta molto, si era speso per la mia partecipazione, solo che Carlo Conti avrebbe preferito farla cantare a Patty Pravo. La stessa Patty Pravo disse: «Possiamo dire che l’ha scritta De Andrè?». Ma no, l’ho scritta io! De Andrè era ubriachissimo e ha soltanto sfornato il titolo.

L’episodio di come è nata la canzone l’avevi raccontato proprio a Rolling Stone.
Sì, diciamo che io volevo imitarlo, perché avevo 20 anni e gliel’avevo fatta ascoltare dicendogli: «È come La canzone di Marinella». L’ho messa in un cassetto perché non cantavo in quel modo, usavo il falsetto. L’ho riascoltata negli ultimi tempi e l’ho inserita nel progetto perché secondo me ha un grande valore.

Nel 1981. Foto press

Come mai un avanguardista come te è così poco attivo sui social?
Vero, non sono più molto social. Li guardo in modo compulsivo. Con TikTok è come con le patatine fritte, scorro video uno dopo l’altro. Il problema è che il giorno dopo non ti rimane niente. Che cos’ho guardato ieri? Boh! Ci sono cose divertenti, l’AI fa cose incredibili, solo che faccio fatica a interloquire con le persone. Ho una visione dell’artista un po’ diversa.

Era meglio quando gli artisti erano meno raggiungibili e quindi più misteriosi?
Molto spesso ho visto molti miei colleghi che, quando sono approdati sui social e svelato chi erano veramente, sono stati una delusione per chi li amava. Perché non sapevano parlare in italiano, non avevano un pensiero o la capacità di relazionarsi. Se invece hai delle tue qualità è giusto farlo. Se invece sei come… Non posso fare nomi… (li mima con le labbra, nda)… diventa un boomerang. Io li ho usati da subito, tanti anni fa. Ero molto dentro Internet degli inizi. Poi succede che un giornalista mi fa una intervista e mi chiede: «Ma lei è un cantante per i gay?». E io gli rispondo di no, che sono un cantante per tutti. Sono apprezzato da tutti, in più i gay non è che mi abbiano sostenuto così tanto. Allora era diventata virale solo quella frase e me ne hanno dette di tutti i colori. Da quel momento ho frenato la mia presenza sui social.

Troppo livore?
Ma sai, a me piace litigare però voglio almeno vederti in faccia.

Hai definito la televisione «intrattenimento del nulla».
I ragazzi non la guardano più, ormai è diventata buona per le Rsa, le residenze per anziani. In più riduce tutto quello che ci entra. Per questo progetto è uscito il primo singolo Saffo-Love, che è stato annunciato anche in tv, però non sono andati oltre e la gente penserà che tutto il progetto è sulla falsariga di quel brano, e non è così. Il meccanismo della televisione l’ho già vissuto male sulla mia pelle. Quando ho fatto i dischi revival, li avevo vissuti come un gioco con Caterina Caselli, solo che dopo, soprattutto a causa dell’esposizione mediatica in tv, la gente voleva da me solo pezzi come Una zebra a pois. Scritta dal grande Lelio Luttazzi e cantata anche da Mina, ma non ero solamente quello.

In un passaggio del libro scrivi: «Non mi interessa il mercato, mi interessa il miracolo».
Certo, anche se paga meno. Il successo dei revival è stato talmente eclatante che tutti si sono fiondati per farli, dal cinema ai locali. Il successo è pericoloso, perché se non hai le spalle larghe è in grado di triturare. A meno che tu non sia come Madonna, che è un carabiniere.

Qui ti definisci anche un «mammifero che canta».
Mi piace questa definizione, perché spesso nel mondo dello spettacolo ti etichettano come una star, invece sono soltanto un animale che canta. Una definizione che spoglia di tutto.

Sempre stando alla decostruzione del mito, in un altro passaggio scrivi: «L’uomo è una scimmia che ha fatto carriera».
In fondo siamo quello. Una carriera che a volte ci costa molto, perché inneschi una bomba che, a un certo punto, non sei più in grado di disinnescare.

Se oggi avessi vent’anni, credi che potresti emergere nello stesso modo?
No, dovrei fare un percorso completamente diverso. Ogni epoca è differente e ha le proprie logiche. Una volta Paul McCartney ha detto che avrebbe potuto scrivere altre venti Yesterday, ma l’attenzione sarebbe stata diversa. Così cambiano le mode. Se oggi mi vestissi come ai miei esordi non avrebbe senso, nessuno mi noterebbe visto che ormai lo fanno tutti.

Saffo-Love è un omaggio alle donne che amano altre donne. In Italia nel 2025 l’amore libero fa ancora paura?
Senz’altro! La canzone è nata perché io, da gay, notavo che il mondo gay al femminile è diverso. Proprio come intendono l’essere omosessuali le donne. Il gay uomo rimane maschio: fa sesso in sauna, va ai battuage con rapporti occasionali, tutte situazioni in cui rimane un cacciatore. Le donne, invece, cercano rapporti comunque più duraturi e complici. La canzone è un atto di vera ammirazione verso le donne gay, perché mi sembra che abbiano molto più coraggio di quanto abbiano noi gay maschi. E l’amore lesbo è stato molto poco cantato.

Al Grande Fratello Vip del 2018, quando eri concorrente, una tua frase sulle donne ha scatenato un pandemonio: «Rifiutare una donna è peggio che violentarla».
Mamma mia, è successo un casino! Era in un preciso contesto. Allora si parlava di Avetrana e parlando si discuteva della sera in cui Sabrina Misseri era andata in camporella con Ivano, che piaceva anche a Sarah Scazzi. Nel momento in cui si era spogliata, lui l’aveva rifiutata. Su quello volevo dire: vedete, a volte un rifiuto a una donna è una tremenda violenza. Sicuramente l’essere violentata era esagerato e sbagliato, ma sai, stavamo parlando senza pensare di essere ascoltati da milioni di persone. Mi ero spiegato molto male e l’unico che aveva capito, e l’ha poi chiarito in studio, per fortuna è stato Alfonso Signorini.

‘Santa Resegonda’, da ‘Un mammifero che canta’. Foto press

Il coraggio non ti è mai mancato. Come quando hai fatto coming out in Italia ancora prima che esistesse una definizione. Secondo te, come mai altri artisti, anche a distanza di molti anni oppure giovani che oggi sono famosissimi, non lo fanno?
Il coming out o lo fai quando sei giovane, oppure non lo fai. Oggi anch’io non lo farei. Quando sei giovane hai un altro modo di approcciare la vita, espandi le tue emozioni, hai voglia di lottare. Per me è stato molto faticoso, la gente non era preparata. Se pensi a intellettuali come Giovanni Testori o Pier Paolo Pasolini, non lo hanno fatto. Per i cantanti è un altro discorso, perché ci sono dietro i discografici. In un aforisma contenuto in questo progetto scrivo: «Ai discografici che prendono il Viagra… gli si allunga la testa!». Mettono la pulce nell’orecchio degli artisti che potrebbero perdere le fan femminili. E allora Boy George? In Italia ci sono artisti come Renato Zero che non l’hanno fatto, e ormai ha ragione perché alla sua età non vale la pena. È come se Amanda Lear dovesse dire che è un uomo…

Quindi, tra le righe, stai dicendo che Amanda Lear…
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

Da pioniere del pop queer perché non vieni spesso citato dal mondo LGBTQIA+?
Perché non mi ha aiutato e io non ho mai chiesto aiuto. Sono stato uno dei fondatori del Fuori!, una delle prime associazioni del movimento di liberazione omosessuale italiano negli anni ’70, insieme ad Angelo Pezzana, poi ho preso la mia strada. Il mondo gay deve andare avanti da solo, anche se molto lentamente le cose sono cambiate. Non serviva fare la questua per aiutarmi. Una volta un altro giornalista mi ha detto: «Non hai mai scritto una canzone gay». E gli ho risposto: «Ma sono io gay». Ogni canzone che ho scritto è gay, perché mi rappresenza. Anzi, sarei stato ruffiano a scrivere una canzone per dire viva il mondo gay. Diverso con le donne, per esempio con Saffo-Love, proprio perché non è il mio mondo.

In Italia, ultimamente, su certi passi avanti fatti sembra che la politica spinga verso due passi indietro. Da ultimo, la messa in discussione dell’educazione affettiva a scuola.
È molto pericoloso mettere in discussione l’educazione affettiva, perché dovrebbe essere fatta già da trent’anni, come in tanti altri Paesi. Il problema è che si finisce sempre nell’equivoco che certi temi, dai diritti civili all’emancipazione sessuale, siano di sinistra. Ma non appartengono a uno schieramento, appartengono all’umanità. E per forza evolveranno. Dal costume alla sessualità al veganesimo. Tra 50 anni saremo tutti vegani. Per me la politica è come un paio di scarpe: ci sono la sinistra e la destra, ma io ho sempre camminato scalzo.

L’aforisma sembra essere la cifra del tuo stile. Come quando scrivi: «Sono ateo, nel senso più religioso del termine».
Ecco, vedi, chiaramente ho una visione molto precisa della fede. I nomi che gli diamo di volta in volta ci confondono e basta. Io credo in Dio, bisogna vedere se lui crede in me.

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