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‘Ira’ di Iosonouncane non è un disco, è un’impresa

È un album colossale scritto in una «lingua momentanea», un lavoro corale che mette assieme elettronica, jazz, musica del Maghreb e molto altro. «È un disco complesso, quindi politico»

‘Ira’ di Iosonouncane non è un disco, è un’impresa

Jacopo Incani ovvero Iosonouncane

Foto: Silvia Cesari

Ira, il terzo attesissimo disco di Iosonouncane in uscita il prossimo 14 maggio, è un viaggio straordinario dal tempo sonoro lungo un’ora e 50 minuti e quindi, in corrispondente tempo della realtà che abbraccia l’opera, un viaggio molto più lungo, un percorso che richiede molto di più del mezzo pomeriggio che domanda effettivamente l’ascolto. Parlando con l’autore, per raccontargli di questo viaggio, faccio riferimento all’iter della tragedia che accompagna l’uomo che l’osserva e l’ascolta, dunque la figura dello spettatore, verso le porte della catarsi, di una liberazione finale, una pacificazione che contempla anche una forma di nuova possibilità di felicità conquistata; un percorso di ascesa dal dolore alla pace, un percorso che coincide con un discorso politico che passa dalla forma e dunque dalla sostanza in cui essa è impiegata.

Ira è un disco scritto in una lingua altra, «una lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso», scrive lo stesso autore, una lingua che mescola inglese, arabo, francese, spagnolo, tedesco e italiano, un idioma ipotetico dello sconfinamento, della migrazione, dell’uomo che marcia per terre e nuota per mari alla ricerca di quella liberazione che coincide, per noi che lo seguiamo in quest’ascolto, con la catarsi che ci investe dopo il dramma.

A ben ascoltarlo Ira è dunque il seguito naturale di Die, anche le due rispettive copertine si parlano apertamente e pongono insieme evidenti le differenze del caso: l’essere umano in entrambi in casi sfocato, lontano, in Die una donna svestita immersa nella luce dell’estate piena, torrida, calda di terra e di cielo, in Ira un uomo nudo che sembra emergere dal buio, dal tunnel di un’altra realtà, come marciando verso chi lo osserva, avvicinandosi. Ira appare dunque il contraltare oscuro di Die, ma quest’oscurità è, appunto, solo d’apparenza perché la ricchezza dei suoi suoni e delle sue trame è rara al punto da mostrare non solo cupezze e buio ma anche aperture, estensioni, luci, ballate e forse ninne nanne, forse canzoni d’amore.

Dentro ci si trovano derivazioni dalla kosmische musik e delle sperimentazioni di Delia Derbyshire, tempeste elettriche, echi di ritmiche stoner, jazz e derivazioni percussive africane ma anche, appunto, ballate e formule personalizzate di tradizione. Soprattutto, e qui si ritorna alla tensione politica nativa, siamo di fronte a un’opera corale: nel tempo della semplificazione qui si cerca invece la ricchezza, la stratificazione, nel tempo dell’esaltazione del singolo qui si cerca la voce della moltitudine, del coro (ancora una volta eccoci alla tragedia). Ira è un’opera scritta per sette musicisti, oltre all’autore ci sono Mariagiulia Degli Amori, Serena Locci, Simona Norato, Simone Cavina, Francesco Bolognini e Amedeo Perri, che vanno a comporre anche un’unica voce finale, una voce a sette teste e molte lingue che racconta una storia di molti.

Da che idea, nucleo, suggestione sei partito? Come hai lavorato?
È sempre difficile per me individuare un preciso punto di partenza. Quel che posso dirti è che all’indomani del nostro concerto al Primavera Sound del 2017 ho sentito di voler lavorare ancora con i musicisti che mi avevano accompagnato durante il tour di Die. Avevo già parecchio materiale nuovo da parte dal quale emergeva chiara la spinta verso una coralità del canto, una gravità del suono. Ho quindi deciso di ampliare la band con l’aggiunta di due musiciste. Credo sia nato tutto da qui.

Avevi in mente qualche riferimento sonoro/artistico, parlo di musica ma non solo, che ha contribuito ad accendere questo interruttore, a generare le idee/l’idea matrici di Ira o ad aiutarti, in fieri?


Non ho avuto uno specifico riferimento musicale. Ho ascoltato con grande intensità alcune cose che mi hanno sicuramente influenzato, così come mi sono ritrovato ad approfondirne altre dopo che, in modo naturale, iniziavano a comparirne echi nella musica che stavo scrivendo. È il caso di Coltrane, Ellington e il jazz più in generale da un lato e la musica del Maghreb dall’altro. Questi ascolti sono andati ovviamente a sommarsi a quelli che mi accompagnano da sempre e che non cessano mai di affascinarmi – Robert Wyatt, gli Swans, Jon Hassell, i This Heat, i Red Crayola, i White Noise, i Liars, Brian Wilson, i Radiohead, i Flaming Lips e un’infinità d’altri. Per quanto riguarda il lavoro su lessico, linguaggio e struttura non ho avuto riferimenti diretti come accade per Die – in cui La terra e la morte di Pavese o la produzione di Manlio Massole, per esempio, ebbero un ruolo fondamentale. In tutti questi anni ho semplicemente continuato a leggere tanto come faccio fin dall’adolescenza, fermandomi lungamente su due testi in particolare: The Waste Land di T.S. Eliot e Finnegans Wake di Joyce.

Foto: Silvia Cesari

A proposito di linguaggio: in un momento in cui alla musica (e alla vita) viene richiesto di semplificare la propria lingua al fine di farsi commercialmente masticabile, tu non solo non semplifichi ma crei un linguaggio altro, dai vita a una lingua multipla che sembra incarnare le voci di più persone.
È un obiettivo che non mi sono posto a priori. Così com’era già accaduto per Die è stato il suono che emergeva dalle prime melodie a indirizzarmi nel lavoro sul linguaggio. È stata ancora una volta la spinta istintiva del canto.

Come un seguito del lavoro sulla parola già fatto per Die: nel risultato è come se ognuno di questi due dischi avesse poi in definitiva una sua lingua specifica.
È esattamente così.

In Caravan, il corto uscito su Nexo+ come introduzione al disco, parli della stesura dei testi, anni di ricerche e appunti, e di quando alla fine di un lungo lavoro hai la sensazione di essere stato superato dallo stesso, come se l’obiettivo fosse proprio questo superamento, la dissociazione dell’opera da te che l’hai creata.
Il mio obiettivo è certamente quello di realizzare qualcosa che sia oltre le mie aspettative, oltre le mie possibilità, oltre la mia persona. Qualcosa che sia più grande di me.

La tua voce a me pare muoversi, progredendo nella tua discografia, verso una certa coralità; qua, oltre alla tua voce, ci sono le altre sei e questa unica voce a sette teste che viene fuori, alla fine, mi pare sia suono lei stessa

.
Assolutamente. La voce per me è suono, strumento fra gli strumenti. Uno strumento certamente particolare, ma comunque calato in un contesto timbrico e simbolico. Probabilmente questa mia concezione della vocalità ha assunto in Ira un ruolo strutturale che finora non aveva avuto. Quando scrivo la melodia di un brano non ho mai in mente il canto di una canzone pop, ma l’evoluzione melodica e narrativa di uno strumento che interagisce con gli altri.

Il tuo cantato in Ira è più che mai ricco di registri, ho sentito anche un bel po’ di falsetto o sbaglio?


Non sbagli affatto. In questo disco ho utilizzato parecchi registri vocali per me inediti. Voglio dirti una cosa di più: i vari modi di cantare li ho sviluppati a partire da una specifica idea di trattamento della voce. Il canto in falsetto che caratterizza diversi brani, per esempio, funziona perché molto saturo e immerso in un riverbero gelido e lunghissimo. Lo strumento-voce è dentro il paesaggio sonoro, ne fa parte come qualsiasi altro elemento, e il modo di cantare si piega alle necessità del suono globale.

Da Piel in poi, soprattutto nella seconda parte dell’album, trovo ci siano molti brani che richiamano la forma canzone, pur destrutturandola totalmente: siamo abituati a parlare di canzone quando ci sono testi e musiche costruiti secondo un dato sistema convenzionale che conosciamo, ma qui tu è come se aprissi (ancora una volta) la definizione a nuove possibilità, prendendo da quella forma canzone di forma classica solo ciò che ti serve.
Questa questione mi viene posta molto spesso e faccio sempre molta fatica a rispondere. Non è una cosa né intenzionale né voluta, ma è semplicemente così, è il mio modo di concepire la scrittura. Ed è una cosa che faccio da sempre, che è presente in ogni mio disco. Quando si parla di canzone io penso tanto a A Day in the Life dei Beatles quanto alle composizioni di Mingus o Klaus Schulze, per esempio. Ecco, probabilmente la risposta è ancora più banale: per me si tratta di comporre più che di “scrivere canzoni”. Faccio fatica a dare una risposta più esaustiva di questa.

Componi. E infatti aggiungo che non ti ho mai considerato un cantautore, ti ho invece sempre considerato un musicista che fa delle narrazioni che includono anche la parola

.
È una definizione nella quale mi ritrovo. La parola, la voce, il suono, la pulsazione e l’articolazione del ritmo, l’armonia, la melodia, il rumore: ognuno di questi elementi contribuisce alla pari di tutti gli altri alla definizione di un paesaggio simbolico, di un universo possibile, di una specifica narrazione.

Ira è anche un disco politico, per me lo è intrinsecamente a partire dalla sua forma che mai come qui è anche sostanza. È un disco sconfinato cioè che distrugge il confine, lo elimina, abbatte la frontiera, è il disco degli uomini che si perdono nel mare, dei corpi in cammino, in questo senso sento la loro fisicità che è fatica, il loro dramma, che è il nostro: un disco drammatico.
È un disco certamente politico. Lo è per la sua durata, per il suo suono e per il suo linguaggio. Lo è perché complesso, perché stratificato e perché si pone nettamente di traverso rispetto al mondo che stiamo vivendo, tanto il nostro piccolo mondo musicale quanto il grande mondo dei capitali e delle frontiere. È altrettanto innegabilmente un disco drammatico, poiché calato nel divenire di un preciso istante, senza alcuna speranza.


Dici che è stato un lavoro estenuante, un termine che va a richiamare un senso di spossatezza, fiacchezza: estenuante include anche snervante, quali sono state le maggiori fatiche dell’impresa?
Ogni aspetto di questo disco ha richiesto un impegno sfiancante tanto dal punto vista fisico quanto da quello mentale. La fatica maggiore è sempre quella necessaria alla conservazione dell’intuizione iniziale, quella suggestione sfocata ma definitiva che in un lampo ti permette di immaginare tutto. Rimanere saldi, non smarrirsi nel quotidiano del lavoro artigianale sul più piccolo e apparentemente irrilevante dei suoni. Quando si fa un disco questa è sempre la fatica maggiore, quando il disco dura due ore e coinvolge tantissime persone quella fatica assume davvero i contorni di un’impresa.

Amo il tuo modo rigoroso di non lasciare mai spazio alla semplificazione, anzi, all’opposto, mi sembra che il tuo percorso sia un movimento continuo verso la rivendicazione di una felice complessità.
Credo sia banalmente il frutto del mio modo di essere, del mio modo di ascoltare, leggere e guardare, del mio modo di stare nel mondo.

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