Iosonouncane, il buono del conflitto | Rolling Stone Italia
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Iosonouncane, il buono del conflitto

C'è chi prova il desiderio di piacere a tutti, lui crede nella forza dello scontro. Intervista alla vigilia del Primavera Sound: la musica che ti devi sforzare di capire, la Tanca Records, la frivolezza del pop italiano

Iosonouncane, il buono del conflitto

Iosonouncane

Foto: Silvia Cesari

Le sue fonti d’ispirazione vanno da Duke Ellington a Thom Yorke, da Robert Wyatt a Guccini, e l’elenco potrebbe continuare. In una dozzina d’anni di attività come Iosonouncane ha dimostrato di essere un musicista eclettico, capace di abbracciare la forma canzone e il lessico del pop in modo personale – vedi Stormi, brano disco d’oro estratto dall’album Die del 2015 – ma anche di scrivere un’opera come Ira (2021), intrigante e immersiva miscela di elettronica, ambient, jazz, folk e sonorità del Maghreb nata dalla voglia di sperimentare in libertà.

Nel mezzo, Iacopo Incani ha firmato colonne sonore (per il corto Lodi primo soccorso e il documentario Follow the Paintings) e sonorizzazioni (su tutte quella per l’opera Locus dell’acclamato Edoardo Tresoldi), lavorato come produttore in studio (Colapesce, Dino Fumaretto), portato avanti sodalizi con colleghi quali Colombre, Gianni Maroccolo, Verdena. Come dire: non provate a etichettarmi, tanto mi sposterò altrove. Che è lo stesso approccio con cui di recente ha dato vita a Tanca Records, sub-label di Trovarobato, etichetta con cui collabora da sempre e di cui condivide l’orizzonte volto alla scoperta di linguaggi che, anche partendo dalla canzone, varchino territori altri.

Lo abbiamo contattato per farci raccontare la sua visione artistica in occasione del tour estivo partito dal Mi Ami e che il 3 giugno lo porterà per la seconda volta al Primavera Sound di Barcellona, per poi sbarcare a Bologna (10 giugno, Express Festival), Prato (11 giugno, Off Tune Festival), Siracusa (1 luglio, Maniace Summer Fest), Bauladu (31 luglio, Dromos Festival, provincia di Oristano), Arezzo (5 agosto, Fortezza Medicea), Roma (16 settembre, Spring Attitude), e infine approdare di nuovo all’estero in ottobre con altre date.

Ciao Jacopo, intanto due parole sul Primavera, dove hai già suonato nel 2017: hai dichiarato che è un festival dove sentirsi bravi non è semplice; perché?
Perché è un festival che ospita band da tutto il mondo e non band qualunque: il livello è molto alto, specie se si guarda alla cura del suono e alla produzione delle voci, quindi c’è tantissimo da imparare.

Non hai l’impressione che da qualche tempo in Italia, fatta eccezione per band storiche come i Rolling Stones o popstar mainstream come Dua Lipa, si stia ricercando sempre più un primato della musica italiana finendo col ridurre gli spazi per gli artisti internazionali?
Il fatto è che il mercato italiano è piccolo, chiuso e autosufficiente. Si fanno grandi numeri, girano tanti soldi – anche se meno che negli anni ’90, quando per fare i dischi si spendeva di più – e tutto si regge su una serie di pilastri che in questa fase storica sono i numeri su Spotify o l’appuntamento annuale con Sanremo e simili. Quindi in qualche modo si casca sempre in piedi, ma soprattutto in ambito pop, usando questo termine in senso molto esteso, non c’è quasi nulla che possa reggere il passo con quello che accade fuori. E questo sia dal punto di vista della produzione del suono, sia da quello dei contenuti, o meglio, del modo in cui le tematiche, qualsiasi esse siano, vengono affrontate: mi sembra che in questo momento la scena italiana produca cose che galleggiano su un grado di frivolezza adolescenziale, persino quando dietro ci sono miei coetanei. Ecco, quando vai a un evento come il Primavera tutto ciò diventa evidente: è come se tu fossi il più bravo della tua provincia a giocare a pallone e andassi a giocare in un’altra provincia e scoprissi di essere una mezza schiappa.

Certo, ma se si evita il confronto…
Non so se lo si eviti intenzionalmente, di sicuro mancano le occasioni per un confronto del genere, i festival italiani in cui le band italiane convivono con quelle straniere sono pochissimi.

Non credi che alla base ci sia una carenza generalizzata di un certo tipo di ascolti internazionali e che sia tale carenza a condurre a una sorta di sovranismo musicale piuttosto discutibile? Alla fine se non si promuove certa musica, è ovvio che resterà di nicchia, perché le orecchie del pubblico non saranno abituate a certi suoni, atmosfere, arrangiamenti.
Probabilmente hai ragione. A me suona strano, perché personalmente ho sempre ascoltato molta musica straniera. E non perché fosse straniera, ma semplicemente perché, al netto di ciò che mi arrivava, era quella che mi prendeva di più. Al tempo stesso non ho mai snobbato la musica italiana, a 17 anni amavo i Verdena e i CSI, che del resto ascolto ancora oggi. Diciamo che non ho mai distinto tra italiani e stranieri, mi è sempre interessato solamente che gruppi e artisti cui mi avvicinavo fossero fighi. Ciò detto, se si parla di giovani, non sono tutti uguali: ho da poco pubblicato con Tanca Records il disco d’esordio di un 26enne, Vieri Cervelli Montel, e lui e i musicisti con cui suona sono ragazzi con una mentalità a dir poco aperta, con una conoscenza di album e della produzione che io a alla loro età nemmeno mi sognavo. Insomma, dipende dagli ambienti, ci sono ambienti più aperti e altri più chiusi. E quelli più chiusi in buona sostanza sono quelli dove girano i soldi e dove si lavora per ottenere risultati subito, con un approccio che non mi appartiene.

Tu in questo periodo cosa stai ascoltando?
Premesso che non ho molto tempo, tanto che di solito mi ascolto i dischi camminando, al momento solo roba anni ’50. In particolare i Flamingos, gruppo doo wop però stortissimo, con un suono incredibile.

E al Primavera andrai a vederti qualcosa?
Un po’ tutto quello che mi è possibile, considerando che detesto il caldo e i posti affollati. Immaginati come starò (ride). Di sicuro cercherò di non perdermi due band che adoro e che suonano sul nostro stesso palco, i Tropical Fuck Storm e i Lightning Bolt.

Foto: Silvia Cesari

In tutto ciò come mai hai deciso di lanciare Tanca Records? Ho ascoltato l’album di Vieri Cervelli Montel, prima uscita dell’etichetta, e l’ho trovato molto intrigante, profondamente intenso.
Mi fa piacere, è un disco coraggioso e anche molto libero, l’esordio di un giovane jazzista – perché Vieri esce dal conservatorio jazz – con una grande conoscenza della musica elettronica, che non la butta sul tema abusatissimo della relazione amorosa narrata nei termini di “mi hai lasciato, sto male”, ma sceglie di affrontare un argomento doloroso e personale con la forma del concept album. Qualcosa che avrebbe fatto, che so, Guccini negli anni ’70 e che, però, Vieri ha realizzato con forme totalmente slabbrate che vanno dal free jazz all’elettronica minimale alla techno, muovendosi in una terra di mezzo molto interessante.

E dell’etichetta che dici?
Diciamo che negli ultimi anni mi è capitato di intercettare diversi musicisti e musiciste con questo stesso atteggiamento avventuroso nei confronti della canzone, rendendomi, però, conto che da un punto di vista discografico e comunicativo non esiste un luogo che possa accoglierli. Solo 10-12 anni fa le proposte musicali erano più oblique e anche quelle meno convenzionali potevano attirare su di sé l’attenzione; io stesso ai miei esordi ero certamente immaturo e rumoroso, ma quantomeno mosso non dalla volontà di compiacere qualcuno subito, non importa si trattasse di un gruppo di persone di riferimento o il mercato stesso, ma dal desiderio di cercare qualcosa che fosse mio. In questo momento, invece, il mercato italiano – tanto Spotify, quanto i festival – rigetta i musicisti con questo tipo di atteggiamento perché non conformi. Così ho ragionato sull’idea di provare, nel mio piccolo, a mettere al loro servizio uno spazio che simbolicamente, poeticamente ed eticamente li accogliesse.

Ho visto che la prossima uscita sarà un album registrato dal vivo nel 2018, durante il tour con il tuo conterraneo Paolo Angeli, chitarrista di Palau, di stanza a Barcellona, con cui avevi collaborato anche per un brano di Die: lui ha un curriculum eccezionale.
Incredibile, già. Paolo nel 2018 ha fatto sold out in una delle sale della Carnegie Hall di New York, il suo circuito è intercontinentale. Suona uno strumento che è unico al mondo, una chitarra preparata da lui stesso sviluppata, con un lessico altrettanto unico e personale. Non è solo un musicista indipendente con la “I” maiuscola, è un gigante. Un gigante che, però, come tanti altri, non viene preso in considerazione dal mondo della musica italiana, in cui resta un borderline. Non che pensi che soffra di un senso di abbandono, ma insomma, da noi lo conoscono solo gli appassionati che la musica se la vanno a cercare e che guardano un po’ più in là del proprio raggio di azione. Discorso che vale per moltissimi altri musicisti che girano fuori dall’Italia e produttori che lavorano all’estero.

Quando uscirà l’album con Angeli?
A fine anno e sarà una co-produzione con Paolo, visto che lui produce autonomamente i suoi dischi. Come dicevi è un disco registrato durante una tournée che abbiamo fatto assieme. Non è strumentale, unisce due prospettive: la mia, che lavoro sulla canzone, e la sua, che scrive a partire dall’improvvisazione e della timbrica. L’idea era di trovare un punto d’incontro, per cui durante i concerti si partiva da una cellula originante che era un pezzo mio o suo, e da lì, fermo restando un canovaccio di massima che a volte non rispettavamo nemmeno, si andava dove si voleva. Quindi è un album di totale improvvisazione su un telaio più o meno definito.

C’è stato un momento in cui, sulla scia di Stormi, sei stato paragonato a Battisti, accostamento che, ormai si è capito, non definisce ciò che vuoi essere.
No, per niente.

Tant’è che poi con Ira hai messo in campo un altro Iosonouncane. Posso chiederti quanto la tua Sardegna, dove tra l’altro c’è una scena jazz molto forte e dalla visione ampia, abbia influito su questo tuo muoverti in un magma sonoro così variegato e sulla tua attitudine?
Sull’attitudine ha influito totalmente. Mettiamola così, quando sono andato via dalla Sardegna per trasferirmi a Bologna avevo 19 anni ed ero il classico ragazzino di provincia che aveva avuto modo di ascoltare pochissima musica. Perché nel posto dove sono cresciuto, tra Buggerru e Iglesias, non arrivavano neanche le riviste, così si ascoltava più o meno quello che si trovava in casa. Il che significa che non avevo la più pallida idea di cosa fosse e come funzionasse il mondo della musica indipendente, la forma mentis era completamente televisiva, conoscevo giusto il grande rock, quello da enciclopedia allegata al settimanale, per cui, citando i primi nomi che mi vengono in mente, i Pink Floyd, al massimo i Mogwai, ma non gli Slint o i Fugazi, che non sapevo nemmeno esistessero. È stato a Bologna che, grazie a incontri fortunati con persone che mi hanno passato dischi, ho scoperto che quello musicale era un universo vastissimo ed estremamente eclettico. Questo per dire che come formazione musicale devo tutto a Bologna, però l’attitudine sì, è stata marchiata dalla Sardegna, che ha forgiato il mio modo di essere fantasioso – sintetizzando – ma anche il mio modo di relazionarmi al mestiere di musicista e come decido di viverlo.

Secondo te perché? C’entra il fatto che sia un’isola?
Ma guarda, Buggerru, dove sono nato, è un’isola nell’isola, nel senso che non è un luogo tradizionalmente sardo, bensì è un posto sorto a metà Ottocento, nel momento in cui dei francesi hanno comprato le terre e scoperto che c’era del gran minerale, deciso di farci degli scavi e mandato lì pastori da tutta la Sardegna a scavare e persone dal continente e dalla stessa Francia ad amministrare coloro che scavavano. Il che mi spinge a dire che più che essere stato influenzato dalla Sardegna, cosa che mi sembrerebbe filologicamente scorretta, sono stato influenzato da Buggerru, una località che sotto molti aspetti non è sarda, dove i cognomi non sono sardi e la cultura nemmeno.

Sul comunicato stampa di questo tour c’è scritto che dopo ti prenderai una lunga pausa. Quanto è difficile scomparire, stare in silenzio, in un’epoca in cui tutto è comunicazione?
Non è difficile, perché me ne frego. Ho lavorato tutti questi 10 anni e più per far sì che potessi fare questo mestiere senza esposizione. Anche quando sono esposto, sostanzialmente per i tour, la mia faccia si vede poco, sia sui social, sia sulle riviste, sia sul palco, visto che sto defilato e al buio rispetto alla band. La verità è che la cosa per me vitale non è suonare dal vivo, ma scrivere musica, quindi i periodi di pausa me li vivo benissimo, perché posso dedicarmi pienamente a ciò che mi dà maggiore gioia, cioè stare in studio e lavorare con della nuova musica. Per cui ben vengano i periodi in cui ci si dimentica che esisto (ride).

Foto: Silvia Cesari

Oggi un approccio di questo tipo è perlopiù considerato come qualcosa di anacronistico, talvolta addirittura di sbagliato perché controproducente. Si tratta di resistere?
Sì, assolutamente. Perché in effetti a volte sembra che nei musicisti non ci sia ambizione artistica intesa come desiderio di esplorazione e che addirittura l’ambizione artistica sia vista come qualcosa di disdicevole o come un orpello in più. Però in più rispetto a cosa? Io vado per i 40 anni, suono da quando ne avevo 15, ho realizzato il primo disco come Iosonouncane che ne avevo 27, ma ne avevo già fatti altri con la band con cui avevo sempre suonato (gli Adharma, nda). E se il primo album era andato benino, ma in un ambito veramente ristretto, il secondo, Die, è andato bene in un ambito maggiore, per cui a un certo punto, passati i 30 anni, mi sono detto «ok, questo mestiere posso farlo, non me lo sono sognato» e mi sono posto il problema di come farlo, di che ruolo dargli nella mia vita, di cosa mi interessasse davvero.

Giungendo a quale conclusione?
Che ciò che mi interessa è scrivere musica e musica sempre diversa, non per un’imposizione, ma perché trovo divertente e stimolante lavorare su del materiale per me nuovo. Questo è, tutto il resto è solo contorno. Ho un libro molto bello che raccoglie le interviste fatte a John Coltrane e in tutte lui ha sempre detto la stessa cosa, persino quando gli chiedevano spregiudicatamente come mai nella sua fase più free si fosse messo a fare musica ritenuta difficilissima e inascoltabile: rispondeva che stava cercando il proprio suono, la propria grammatica, e che passare da ciò che è difficoltoso è liberatorio. Si tratta di un processo di emancipazione intima e l’emancipazione non può che passare dal conflitto. È questa la grande parola scomparsa di questo tempo che stiamo vivendo, di questo Paese e di questo ambiente specifico, quello musicale. Invece il conflitto è sano, perché è dialettica, è scontro ed è l’unica maniera per generare un processo di emancipazione. Quindi il mio modo di vivere la musica e la relazione con il cosiddetto pubblico è conflittuale, ma in maniera per me sanissima, perché si tratta di affrontare insieme qualcosa di faticoso. E con Tanca Records vorrei dare visibilità a musicisti che hanno questo approccio, senza adattarmi a criteri per cui vale solo ciò che…

Che funziona?
Esatto. Che è un’espressione terribile, perché cos’è che funziona? Funziona ciò che nasce con uno scopo pratico, ossia fare numeri su Spotify, mentre la musica è evidentemente un’altra cosa. Io sono un vecchio superstite, perché ho cominciato parecchi anni fa e quello che faccio in qualche modo funziona nonostante ciò che è. Ma non è che ho lavorato affinché i miei dischi funzionassero, altrimenti non avrei fatto Die dopo La macarena su Roma e non avrei fatto Ira dopo Die; mi sarei messo a cercare di replicare Stormi all’infinito. La verità è che sono convinto ci siano ancora persone che hanno voglia di creare un rapporto di fiducia con musicisti che seguono questo approccio. Ricordo che da ragazzino ero malato di OK Computer e quando uscì Kid A non avevo gli strumenti per comprenderlo, perché non conoscevo il minimalismo, Mingus e via dicendo, e le poche cose che conoscevo mi portavano a dare una lettura folle di ciò che stavo ascoltando. Però il rapporto di fiducia con i Radiohead era tale che sapevo di dover essere io a fare un passo in avanti verso la comprensione di quel disco, così mi ci sono scornato e questo ha fatto sì che la relazione tra me e quella band diventasse durevole e rigogliosa.

Hai sentito l’album degli Smile, il nuovo progetto di Yorke e Greenwood con Tom Skinner dei Sons of Kemet?
Solo due volte. Ci sono delle cose che mi sono sembrate sul solco degli ultimi Radiohead, con tanto mestiere, ma qua e là non mancano momenti spiazzanti e il livello di produzione e di ricerca dei suoni è sempre magistrale. Lo riascolterò, ma adesso sono nella bolla degli anni ’50 e ci voglio restare ancora per un po’.

Allora attendiamo di sapere cosa ne verrà fuori, quando tornerai.
Chissà!

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