Iosonouncane e Paolo Angeli, la musica è flusso | Rolling Stone Italia
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Iosonouncane e Paolo Angeli, la musica è flusso

‘Jalitah’ è un live atipico, la sintesi dei lavori dei due musicisti, uno «scontro positivo» nato dal loro lungo tour in cui la forma canzone si è persa felicemente in un mare di musica improvvisata. Intervista doppia: gli sbagli su cui costruire nuova musica, gli spazi per chi è fuori dal pop, il valore del conflitto

Iosonouncane e Paolo Angeli, la musica è flusso

Iosonouncane e Paolo Angeli

Foto press

Jacques Cousteau, oceanografo, inventore e documentarista da Oscar, sosteneva che una volta provata l’estasi di immergersi nei fondali marini non gli era stato più possibile vedere e pensare come prima. Ascoltare Jalitah, il nuovo disco di Iosonouncane e Paolo Angeli in uscita il 9 giugno, farsi catturare da questo magma sonoro che è un continuo spingerti verso profondità abissali per poi riportarti a galla al cospetto di nuovi paesaggi e atmosfere, non potrà condurre a tanto, ma è di sicuro un’esperienza da cui non si esce immutati.

Registrato dalla sound engineer Azzurra Fragale durante il tour intrapreso dai due musicisti e compositori nel 2018, l’album è il risultato della collisione tra l’universo cangiante della chitarra sarda preparata di Angeli con le sperimentazioni elettroniche e le canzoni di Jacopo Incani alias Iosonouncane. Il tutto a partire da improvvisazioni libere che sfociano in un intrecciarsi di momenti acustici ed esplosioni di rumore distorto, di echi dei canti tradizionali sardi e suggestioni mediorientali, di intensa liricità e astrattismi post rock. Una combinazione magnetica, raccontata in questa intervista dagli stessi autori: Angeli, classe 1970, nato e cresciuto tra le spiagge e le affascinanti rocce granitiche della Gallura, tra Palau e La Maddalena, e oggi di stanza a Valencia, e il 40enne Incani, bolognese d’adozione, originario di Buggerru, nell’Iglesiente, zona di spettacolari scogliere e faraglioni, di ex miniere e sentieri a picco sul mare. Stessa isola, mondi diversi, assicurano: «A Buggerru c’è il maestrale, si vive quasi sempre controvento, mentre a Palau anche col meteo più avverso si trova sempre una caletta dove ripararsi, e questo influisce sui caratteri».

Avete unito le vostre sensibilità in Jalitah, che prende il nome da un arcipelago situato nel canale sardo-tusino: perché questo titolo?
Iosonouncane: Avremmo potuto inventarci un titolo con dentro la parola “live”, ma non ci sembrava opportuno. Perché non abbiamo trasferito su disco l’immagine esatta del nostro set del 2018, ma abbiamo selezionato il materiale migliore tra tutto quello registrato con l’idea di mettere in piedi un album breve, di 40 minuti, che avesse una sua identità timbrica, sonora e d’atmosfera a prescindere da quella che è la resa di un concerto quando oltre ad ascoltare guardi e quindi si creano dinamiche che funzionano solo in presenza. L’intento era di realizzare un disco che racchiudesse tutte le sfaccettature sonore da noi toccate in quel tour in una piccola composizione in grado di reggere da sola. Di qui la scelta di un altro tipo di titolo, Jalitah, parola suggeritaci da un amico pescatore, Elia Broccia: gli avevamo chiesto delle suggestioni e cominciò a parlarci di La Galitta, sardizzazione di La Galitte, termine francese per l’arabo Jalitah, che indica, appunto, questo arcipelago tra Sardegna e Tunisia. E l’immagine dell’arcipelago ci è sembrata perfetta, visto che è come se l’album fosse un flusso spesso abissale di improvvisazione che ogni tanto si condensa in forme che sono canzoni, benché non con una struttura classica.

«Il duo ridisegna le mappe della musica italiana annullando i confini tra avanguardia e forma-canzone», si legge nel comunicato stampa. Ambizioso…
Paolo Angeli: Dici che non rispecchia quello che c’è nell’album?

Non questo, però credo che difficilmente chi non è abituato ad ascolti lontani dal pop possa riconoscere una qualche forma canzone in questo disco.
Angeli: Chi ha ascoltato Ira di Jacopo, però, penso sia abbondantemente preparato.

Così come chi conosce i tuoi dischi, certo.
Angeli: In effetti per chi è abituato ad ascoltare solo pezzi da tre minuti e mezzo che vanno in radio qua non c’è granché. Non c’è nemmeno una traccia rappresentativa, perché Jalitah è un concept che non va pensato per tracce isolate: è un viaggio in questo arcipelago di cui osservi le forme, dove navighi sott’acqua, dove emergono elementi che poi vanno nuovamente in immersione. I concerti da cui l’album è tratto, pur essendo legati da questi punti di riferimento, erano a ogni data diversi proprio perché alla base c’era questo prendersi il rischio di non tracciare una via per passare da un brano all’altro e di non decidere quanto dovessimo soffermarci su ogni brano. Forse Carne (dall’album Die di Iosonouncane, nda) è l’unico pezzo che ha mantenuto più o meno la sua forma, ma per esempio Giugno (da La macarena su Roma, nda) aveva questo sviluppo che sul finale prendeva ogni volta direzioni differenti.
Iosonouncane: Profondamente differenti: una volta veniva un finale rumorosissimo e atonale, un’altra un finale quasi da camera. Perché quei live sono stati, come diceva Paolo, un flusso di improvvisazione in cui sapevamo di dover passare da una serie di snodi, anche se spesso ci trovavamo a tradire pure quel solco ipotetico da seguire per improvvisare e basta.
Angeli: A questo proposito c’è un aspetto che a me piace moltissimo in Galena.

Quale?
Angeli: La pulsazione che si sente lì arriva da Tanca (traccia da Die di Iosonouncane, nda), nel senso che in quel live si era mantenuto quel beat andando avanti per una strada completamente diversa da quello che era il brano. Personalmente sono davvero contento di questo disco perché rispetto ai concerti, che duravano anche due ore e mezza, è una sintesi che proprio in quanto sintesi ottenuta in post-produzione non è fedele a ciò che accadeva dal vivo e però risulta particolarmente densa, profonda. Non è stata un’operazione semplice, tant’è che in prima battuta eravamo andati in studio in Toscana, ma ci era venuta un’altra sintesi che non ci piaceva.
Iosonouncane: Vero, l’avevo rimosso. Il punto è che volevamo un disco che riflettesse l’attitudine con cui avevamo affrontato quel tour. Perché va detto che Jalitah chiude quella fase di concerti senza aprirne una nuova.

Iosonouncane & Paolo Angeli | Pecci Summer Live | 27.06.2018

Quindi mentre tutti non fanno che pubblicare dischi, singoli e tutto ciò che gli viene in mente per promuovere i loro concerti, voi pubblicate questo album e non avete intenzione di portarlo, anzi, di riportarlo, in giro dal vivo?
Iosonouncane: No, non è previsto.

È perché stai lavorando al tuo nuovo disco? Paolo ne ha appena pubblicato uno, Níjar.
Iosonouncane: No, in realtà vorrei, ma sto facendo una colonna sonora dietro l’altra, quindi… Non ho tempo per me stesso (ride).

Attendiamo pazientemente. Ma spiegatemi una cosa: sul palco Paolo aveva la sua chitarra sarda preparata, strumento-orchestra da lui stesso sviluppato. E tu, Jacopo? Synth, chitarra…
Iosonouncane: Io avevo synth, chitarra acustica, chitarra elettrica, due campionatori e in più usavo Ableton con delle periferiche Midi ma solo per i beat di Summer On a spiaggia affollata… e di Tanca. Il mio momento preferito era l’inizio del concerto con me alla Telecaster e Paolo alla sua chitarra, perché mi rimandava al mondo di Sister Ray dei Velvet Underground. Una cosa che facevo durante i live era questa: ogni tanto entravo in uno dei campionatori con un cavo al quale era collegato lo smartphone dove mi ero creato una libreria di dischi che non conoscevo; in pratica mandavo quella raccolta di pezzi in play a inizio concerto e ogni tanto attivavo quel canale d’ingresso per manipolare ciò che stava andando senza guardare, però, di cosa si trattasse. Questo per ottenere dei campionamenti inediti in tempo reale. Anche la traccia Banco delle sentinelle è nata così.

Che dischi avevi in quella libreria/playlist?
Iosonouncane: Una compilation di pionieri dell’elettronica del primo Novecento, Forbidden Planets. Poi musica tradizionale del Marocco. Raccolte di percussionisti vari, dal Giappone al Sudafrica. I lieder di Schubert. A Love Supreme di Coltrane e altro ancora. In tutto una ventina di dischi che suonavano random.

Secondo voi qual è l’aspetto più interessante di questo vostro sodalizio oggi diventato un album?
Angeli: Credo il processo con cui siamo arrivati al disco, ossia come si sono man mano evoluti i live. La prima data la facemmo a Nuoro nell’ambito di un festival di cinema e ricordo che ognuno di noi portava avanti il suo discorso in solo fino a giungere a una parte finale insieme. Poi abbiamo iniziato a suonare nei teatri e nei festival estivi, e più andavamo avanti, meno brani definiti facevamo e più tutto diventava un magma che Gianluca (di Panico Concerti, nda) guardava con apprensione (ride).
Iosonouncane: L’apice lo abbiamo toccato al Color Fest, in Calabria, tipico festival indie di oggi: c’erano Donatella Rettore, Willie Peyote, i Coma Cose, e lì facemmo tre quarti d’ora di una roba super radicale.
Angeli: Soprattutto la partenza: un muro di rumore che in un contesto del genere… È stato interessante anche da un punto di vista antropologico, perché abbiamo proposto un live fuori dal tempo non davanti a una nicchia di addetti ai lavori, ma davanti a più di mille spettatori abituati ad altro.

Però io vorrei fare passare un’altra visione, perché ok, si parla di musica di ricerca, di avanguardia, ma sono termini che possono spaventare. Mentre per me Jalitah è un disco con tante sfaccettature, ma profondamente rock, apprezzabile da chiunque ami band come Radiohead, Mogwai, Slint. O sbaglio?
Angeli: Hai ragione, è fuorviante la parola avanguardia, perché si tende a storicizzarla legandola al free jazz degli anni ’60, mentre l’avanguardia è per sua natura qualcosa di connesso alla contemporaneità, se no che avanguardia è? È retroguardia. Invece il nostro era un concerto in cui la forma canzone si incontrava con la musica improvvisata a partire da un baule di suoni e gli esiti potevano essere molto rock oppure astratti e così via. Ma ripeto, l’artiglieria era l’improvvisazione. Dopodiché quando improvvisi in due è inevitabile che si cerchi di convergere su un’idea, su un concetto, e nel nostro caso la convergenza è avvenuta molto sul linguaggio rock, sono d’accordo.
Iosonouncane: Sì, è il nostro terreno comune, il rock. Rock in senso ampio, andando dalla scena di Canterbury e Robert Wyatt fino al post rock e ai Radiohead. Ciò che ci divertiva è che per Paolo, data la sua storia, fare quel tour ha significato misurarsi con la forma canzone; per me si trattava, invece, di uno stage nel meraviglioso mondo dell’improvvisazione, visto che vengo dalla canzone e dall’iper-scrittura e che scrivo e arrangio sempre tutto dettagliatamente. Ho sempre avuto una forma mentis per cui il concerto è tanto più bello quanto più i brani di un disco sono eseguiti alla perfezione, mentre mi sono ritrovato a dovermi confrontare con l’idea che il concerto è bello nel momento in cui accade l’errore che sai cogliere per costruire qualcosa di inedito. E alla fine c’è stato un momento in cui prima di salire sul palco Paolo mi diceva «facciamo un concerto tutto di canzoni?», e io «facciamo un concerto tutto improvvisato?». La soddisfazione è che su questa traiettoria siamo arrivati a suonare in contesti in cui eravamo veramente degli alieni e a fare mille paganti al Duse di Bologna, che non è da poco in un’epoca in cui il rapporto musicista-pubblico, al di fuori dei contesti in cui si fa musica di ricerca, è sempre tranquillizzante, perché la gente perlopiù sa cosa va a sentire e vuole sentire qualcosa che conosce.

Iosonouncane e Paolo Angeli dal vivo. Foto press

È incredibile quanti suoni Paolo riesca a creare con la sua chitarra sarda preparata, e questo anche attraverso un rapporto molto fisico con lo strumento, cosa che chi ha assistito ai vostri concerti sa bene, ma che si può immaginare anche solo ascoltando l’album: ci sono punti in cui sembra stia suonando dei pezzi di metallo.
Angeli: Mi sa che ti riferisci a uno dei brani preferiti di Jacopo, quando uso le corde superiori.
Iosonouncane: Quel suono lì mi manda fuori di testa.
Angeli: Lì c’è un artigianato sul suono. Siamo andati per sottrazione, cioè: eravamo solo in due, che è diverso dall’avere una band, anche più economicamente conveniente. Ma poi ciascuno di noi lavorava sulla produzione del suono in maniera artigianale e sul palco c’erano momenti in cui davamo vita a vere e proprie orchestrazioni. Quando, per esempio, Jacopo manipolava i dischi che ha citato, lavorava su materiale pre-esistente che però plasmava come uno scultore forgia la ceramica provocando una mia reazione spesso inaspettata cui ne seguiva un’altra da parte sua e via così.

Mi aspettavo di sentire solo la voce di Jacopo, in questo disco, non quella di Paolo, che invece è presente. Che ruolo ha la voce in Jalitah?
Angeli: Io durante il tour da cui l’album è tratto ero ancora in una fase in cui dal vivo quasi non cantavo, mi sono messo in gioco con la voce successivamente. Infatti penso che se avviassi adesso una collaborazione con Jacopo probabilmente canterei di più. Ad ogni modo sono partito facendo brani della tradizione sarda e una volta incamerata quest’ultima il mio approccio è stato quello di cantare con una vocalità in cui si sente la Sardegna, ma non esplicitamente, perché magari anziché eseguire un determinato canto faccio un cut-up di quattro canti. Sotto questo profilo devo molto all’incontro con Jacopo, mi ha aiutato a fare pace con un mondo che avevo come background, ad accantonare una visione di me stesso come solista sperimentale impegnato più che altro a far crescere il linguaggio chitarristico. E mi ha stimolato a smanettare di più con l’elettronica, con l’effettistica, alla ricerca di un suono contemporaneo. Suonare insieme ci ha spostati dalle nostre zone di comfort per entrare in ambiti per entrambi nuovi.
Iosonouncane: Verissimo. Tra l’altro io nasco come fan di Paolo: ci siamo conosciuti tanti anni fa perché organizzai un suo concerto a Buggerru. In seguito lui mi propose di collaborare su Die e per me quello fu uno scambio miracoloso. Quando poi siamo andati in tour insieme lui mi ha esposto a un’idea del suonare e dello scrivere distantissima dalla mia. E non nego che inizialmente ero spaventato, perché per me l’estemporaneo era sinonimo di fatto un po’ come viene, mentre con quei concerti ho imparato che l’estemporaneo è lo spazio dove accadono degli errori e puoi edificarci sopra. Una novità assoluta per me, e questo nonostante abbia sempre ascoltato musica che prevedeva spazi d’improvvisazione: sono malato della psichedelia di metà anni ’60, di band che improvvisavano tantissimo come Velvet Underground, Doors e Red Krayola. Con Paolo è stato come aprire gli argini, sarà anche che in quel periodo ascoltavo moltissimo jazz, per cui ci siamo confrontati su queste questioni, su come si improvvisa in due. E a partire da questo, anche sull’importanza del conflitto come motore di processi di emancipazione all’interno di uno spazio civile e sociale, aspetto per me fondamentale.

Perché?
Iosonouncane: Perché stiamo costruendo una società in cui il conflitto viene messo da parte, in cui tutto deve essere aconflittuale e sono convinto che questo irrigidisca e inibisca i processi di emancipazione. In quest’ottica Jalitah è un’opera che riafferma il conflitto come momento di emancipazione e l’estemporaneo e l’errore come dimensioni vitali.

Il mercato ci sta portando da tutt’altra parte, in un luogo dove al posto del conflitto c’è l’appiattimento su pochi canoni condivisi. Non è un caso che l’indie si sia appiattito così tanto sul mainstream, al di là dei legittimi gusti personali l’ultimo Mi Ami è stato per me esemplare da questo punto di vista.
Iosonouncane: Ci ho suonato l’anno scorso, al Mi Ami, e per quanto resti un festival con una bellissima atmosfera è vero che nel backstage io e i musicisti che erano con me ci sentivamo dei pesci fuor d’acqua. Della serie: saremo gli unici a fare cose atonali, a non far battere le mani al pubblico, il nostro sarà l’unico concerto dove la gente non canterà. È proprio in quei contesti che ti accorgi di stare andando in una direzione che in questo momento in Italia è completamente e unicamente tua.
Angeli: E per quanto riguarda la nostra collaborazione questo si traduce anche in un discorso sui piani musicali che va sottolineato.

A cosa ti riferisci?
Angeli: Al fatto che durante il nostro tour c’erano momenti in cui uno di noi pensava di stare costruendo un discorso musicale di primo piano, salvo poi accorgersi che l’altro stava interpretando quel suo discorso come background andandoci sopra come uno stuntman e costruendo quello che secondo lui era il discorso principale. Dopodiché poteva accadere che al primo questo nuovo discorso non andasse bene e lo sfasciasse (ride e ride pure Incani, nda). In questo senso parliamo di conflitto positivo, per riprendere il discorso di Jacopo: in più punti del disco senti queste due storie che arrivano quasi come due colate laviche provenienti da due vulcani diversi, dalle quali scaturisce un’altra entità quando la lava si solidifica. A quel punto, però, non sai di chi è una cosa e di chi è l’altra.

E non c’è un vincitore come non c’è un perdente.
Angeli: Esatto, perché qui siamo fuori da ogni ragionamento mascolino e l’obiettivo è la musica, è costruire un’idea musicale di bellezza partendo da due idee di bellezza differenti. Nel caso nostro ci siamo innamorati reciprocamente delle nostre diversità, in una dinamica incentrata sul rispetto delle stesse e su un contrasto che diventa convergenza.

Viralissima Reprise * Iosonouncane + Paolo Angeli

Discorso che se applicato al reale ci porterebbe molto lontano. Restando in ambito musicale, si potrebbe pensare che con questo Jalitah vogliate essere contro, ma non credo sia così, giusto?
Angeli: No, anzi, ognuno è libero di fare la musica che vuole, non ho l’arroganza di criticare chi fa canzoni di tre minuti, ci mancherebbe.

Da parte mia direi solo che si dovrebbe dare maggiore visibilità anche alla musica non livellata su criteri commerciali. Come giornalista freelance fatico a trovare spazi dove questo si possa fare, ne sto ancora trovando, ma se si va avanti così non so quanto durerà.
Angeli: Però il nostro tour è stato la dimostrazione che un tipo di discorso diverso si può fare.

Anche in un ambito più ampio e trasversale del tuo?
Angeli: In effetti io parlo da musicista che si muove in un contesto protetto, in un circuito che è quello della musica di ricerca dove sai a priori che non farai chissà quali numeri al botteghino e che però si mantiene grazie agli addetti ai lavori e a uno zoccolo duro di ascoltatori.

Però la figata è irrompere altrove, oltrepassare la nicchia, no?
Angeli: Sì, mi viene in mente Ornette Coleman che faceva free music davanti a migliaia di persone. A me basta che non diciamo che dobbiamo resistere, la parola resistenza non mi piace, perché significa che tu rivendichi un terreno e che quando iniziano ad arrivarti le botte arretri, arretri, arretri, finché sei contro il muro. Preferisco…

Sfondare? A dirla tutta, io credo anche che abbiate potuto fare quel tour con tutti quegli spettatori anche perché Jacopo ha scritto Stormi, senza il successo di quella canzone non so nemmeno se saremmo qua a parlare di questo vostro progetto insieme.
Iosonouncane: Capisco cosa intendi, da neo-discografico (della sua etichetta Tanca Records, nda) mi sto rendendo conto che sì, magari io e Paolo siamo riusciti a fare quel tour perché abbiamo alle spalle due grandi credibilità, ma se tu devi, in un ambito non di ricerca, ma di pop-rock o indie, far partire un progetto un po’ obliquo fai una fatica immensa. Molto di più di 10-12 anni fa, quando io andavo in giro da solo con due campionatori e facevo cose veramente spigolose, con tutto distorto, a volumi pazzeschi, eppure suonavo, eccome se suonavo. In quel periodo ho fatto 250 concerti in tre anni e mezzo e gli spazi c’erano non solo fisicamente, ma anche culturalmente: c’erano realtà che chiamavano giovani sconosciuti a suonare la loro roba e questo comportava la possibilità per gli esordienti di sperimentare. Adesso è diverso, perché nel momento in cui tu, da esordiente, devi già inserirti in un mercato che ha dei criteri e ti chiede di rispettarli, quei criteri, tu la tua formula la smusserai in maniera tale che il tuo pacco di zucchero stia nello scaffale dello zucchero, ossia ti preoccuperai che il tuo zucchero sia effettivamente zucchero. Mentre io 10-12 anni fa non mi preoccupavo di cosa fosse la mia musica, se zucchero, sale o cacca: mi preoccupavo che fosse una musica mia e soltanto mia, pazienza se per arrivarci ho dovuto attraversare fasi di immaturità, quelle sono necessarie per crescere. Ma se dal primo brano che carichi su Spotify devi rispondere a quanto sopra, beh, è una grande fregatura. E non è un caso che oggi la maggior parte dei festival abbia lo stesso cast di Sanremo o X Factor. Chi ha la responsabilità di questo? Non ne ho idea. Ma osservo un comportamento collegiale, di quasi tutti, dalle etichette ai management ai booking.

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