Intervista senza titolo a Giorgio Canali perché «i titolisti sono tutti degli imbecilli» | Rolling Stone Italia
Il disertore

Intervista senza titolo a Giorgio Canali perché «i titolisti sono tutti degli imbecilli»

Era «incazzato con tutti» e quando gli veniva da piangere tirava testate ai microfoni, «le mie stigmate». Alla vigilia dell’uscita di ‘Pericolo giallo’ sembra felice: «Che cazzo voglio di più?». Continua ad essere un contrarian che non sta né con gli uni, né con gli altri e denuncia «la formattazione del pensiero». Oggi è anche titolista di Rolling

Foto: Diego Piotto

«Ho sempre sostenuto che se si è felici non si riesce a scrivere perché non si ha molto da dire. Qui mi smentisco: sono molto felice e ho risparato fuori un altro album con dei testi della madonna».

Giorgio Canali non ama le mezze misure, questo è evidente. Lo si intuisce anche da queste parole a commento di Pericolo giallo, il suo nuovo disco con i Rossofuoco in uscita domani. Il titolo evoca un suo vecchio brano del 2007, Canzone della tolleranza e dell’amore universale, che naturalmente non parlava né di tolleranza, né di amore universale. Perché ciò che esprime da sempre l’ex CCCP/CSI/PGR nei suoi pezzi è un profondo sdegno contro l’ipocrisia e l’arroganza del potere in ogni sua forma, contro “la liturgia del pensiero unico” (cit.), contro i fascismi di ogni sorta come contro le storture delle democrazie occidentali che nessuno vuole più vedere, né tantomeno denunciare.

Il tema di fondo è questo anche in Pericolo giallo, tema scandagliato e sviscerato da più prospettive con il disincanto, la ferocia e l’irriverenza di cui il nostro è capace, con le sue sporche e sfacciate poesie da cantautore e chitarrista rock’n’roll che non ha alcuna intenzione di starsene zitto solo perché qualcuno potrebbe accusarlo di complottismo. Anzi, semmai il contrario. Ed è proprio da qui che ha preso il via la chiacchierata via Zoom che state per leggere. Erano le 11 del mattino del 6 ottobre e Giorgio, capelli lunghi raccolti in una coda disordinata, alla sua destra il chiodo appeso su un attaccapanni, alla sinistra una chitarra appoggiata a terra, esordiva così: «Sono sveglio dalle 7. E sono andato a letto alle 4, chiaramente».

Dove ti trovi?
A Perugia, da quasi un anno vivo qui.

Per amore, vero? Perché l’altra notizia è che Giorgio Canali in Pericolo giallo non rinuncia all’impegno – come si diceva una volta – ma canta anche di amore. Ai tempi del tuo disco precedente mi dicesti di essere parecchio incazzato per la fine di una relazione, mentre ora…
In quel periodo ero incazzato con tutti. Ora, invece, sì, ho ritirato fuori un’altra canzone d’amore. Bella e stupidissima. Tipo Tre parole di Valeria Rossi, per intenderci.

Esagerato!
Guarda che quello è un capolavoro. È suonato come un pezzo molto più indie di tanti finti indie di adesso. E il testo è spettacolare: semplice, idiota, e arriva. Che sia diventato un tormentone è un altro discorso.

Ma la tua canzone, Solo stupida poesia, perché sarebbe idiota?
Perché tutte le canzoni d’amore lo sono.

Anche l’amore lo è?
No, l’amore no… Questo rumore è il mio cane, lo senti? Si sta mangiando un osso.

Come si chiama?
Ciriaco.

Davvero? Come De Mita?
Esattamente, gli ho dato proprio nome e cognome: Ciriaco De Mita. Perché quella là, come si chiama, una ministra (si riferisce alla ministra della famiglia del governo Meloni, Eugenia Roccella, nda), sostiene che non bisogna dare i nomi dei cristiani agli animali. C’è stato un periodo in cui per dieci giorni sui social non si è parlato d’altro, sembrava l’indice supremo delle cazzate che si sparano su Internet. E visto che pochi mesi dopo è arrivato lui, il cane…

Chiaro. E di Pericolo giallo che mi dici? A livello sia tematico, sia musicale, è un po’ la continuazione di Venti, sei d’accordo?
Assolutamente sì, è il capitolo 2.

Mentre per quasi dieci anni avevi detto di aver perso l’ispirazione.
Sì, tra il 2011 e il 2018 non sono riuscito a scrivere nulla. Nulla.

Cos’è successo, allora? Cos’è che ti ha reso improvvisamente prolifico?
Le stronzate che hanno iniziato a succedermi attorno. Sono diventate così grosse che alla fine mi è venuto di scriverci su. Mi hanno alimentato, stimolato. Tra l’altro, questo album con i Rossofuoco l’ho fatto nella stessa modalità di Venti: ognuno a casa sua. Perché facevamo fatica a trovarci: Stewie (Dal Col, chitarre e piano, nda) è sempre in giro tra Miami, Cuba e Bassano del Grappa; Luca (Martelli, batteria, nda) adesso è fisso in Sardegna; Marco (Greco, basso, nda) a Bologna e io a Perugia. Così abbiamo deciso di lavorare a distanza. Anche per le prove della tournée ci troveremo solo tre giorni, verrà tutto malissimo e chi se ne frega. A me piace che i miei concerti siano imperfetti, così sono sempre diversi. Sai che palle andare a vedere quei live dove non avviene mai niente di inaspettato.

Canali coi Rossofuoco. Foto: Diego Piotto

Hai dichiarato che ciò che più ami della musica è la dimensione live.
Ne ho bisogno, è per questo che faccio i dischi.

Prima che uscisse Venti, nel 2020, hai detto a Gianmarco Aimi, qui su Rolling Stone, che «il coronavirus è la prova generale dell’esercito nelle strade».
E ci hanno fatto il titolo, ovviamente.

Considerato che oggi si dà facilmente del complottista a chiunque critichi apertamente lo status quo sottolineandone contraddizioni e vizi, mi chiedevo: secondo Giorgio Canali cos’è un complottista?
Un complottista di solito è uno che ragiona. Perché, come diceva Andreotti, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Capito? Non è una questione di complottismo o non complottismo: io non capisco perché per anni le versioni ufficiali non ci sono mai andate bene, mentre a un certo punto, improvvisamente, da quando col Covid si è messa in mezzo la paura di crepare, le versioni ufficiali sono diventate sacrosante e chi le contesta è un deficiente. O un complottista, appunto. Il problema è che da noi – in Francia, dove ho vissuto dieci anni, non è così – il concetto di informazione tossica non esiste: ci si beve tutto quello che ci raccontano. E ok, va bene. Però poi?

In ogni caso tu te ne freghi, o sbaglio?
Ma certo che me ne frego. Però magari diciamolo chiaro e tondo che chi fa i titoli è un imbecille (ride). Del resto, sappiamo bene perché li fanno, quei titoli: c’è una ricerca del click che è talmente spaventosa che ormai non c’è più niente che non sia fatto per acchiappare click.

Alla fine fai comodo, basta che spari una delle tue frasi a effetto e sono tutti contenti.
Ma sì. Però secondo me il titolo dell’intervista dovrebbe essere “Perché i titolisti sono tutti degli imbecilli”. Punto e basta.

E il tuo, di titolo, quel Pericolo giallo, a cosa rimanda?
Sono partito dalla constatazione che a seconda dei periodi storici la propaganda ti fa vedere ciò che ti vuol fare vedere, per innescare questa o quell’altra paura e indurti a startene zitto e tranquillo. Basti pensare che la prima forma di intossicazione dell’informazione conosciuta dell’età moderna risale alla fine dell’Ottocento, quando sia in Europa, sia in America, si iniziò a spargere la paura che la popolazione in vertiginoso aumento in estremo oriente potesse superare quella dell’occidente bianco. Si paventavano invasioni, si diceva che sarebbero arrivati i cinesi e i giapponesi e che saremmo stati tutti costretti a mangiare riso, nidi di rondine e cani. E funzionò, il terrore effettivamente si diffuse. Fu il primo esperimento di mediatizzazione di una cazzata pazzesca. Ma da lì il potere ha capito come servirsi del terrorismo mediatico, alimentando e generalizzando la paura, tenendola sempre pronta da sbandierare alla prima occasione, facendoci passare di emergenza in emergenza. Eppure non abbiamo imparato nulla. Dopo la Seconda guerra mondiale c’è stata la paura dei comunisti che mangiano i bambini e via così. Aspetta che mi prendo un’altra paglia.

Ancora? Quante sigarette fumi al giorno?
Dai due ai tre pacchetti.

Così tanto?
Eh, sono 45 anni che fumo, ne avevo 19 quando ho iniziato. Pensa che prima ne fumavo cinque, di pacchetti. E di Camel senza filtro. Adesso fumo delle sigarette leggerissime, tabacco naturale, senza additivi.

E fai dischi per salire sul palco, dicevi: perché? Cosa ti danno i concerti?
Quello che mi fa stare bene è poter guardare la gente in faccia e capire che quello che sto cantando nel 60% dei casi arriva. C’è sempre un 40% che non ci capirà mai un cazzo, e di solito è il pubblico maschile, ma tant’è. So che è impopolare dire quello che ho appena detto, ma difficilmente mi capita di parlare con qualcuno di sesso femminile dopo un concerto e di rendermi conto che non ha capito niente di quello che dico con le mie canzoni. Invece con il pubblico maschile mi capita spesso, mi sembra che gli uomini si fermino più di frequente al primo livello di lettura.

Tipo?
Per esempio, tu stai dicendo «mi fate cagare con le vostre storie di compagni», e questi sono lì con il pugno chiuso, capisci? È un po’ il controsenso che poi ha spaventato tantissimo i fan di Ferretti. Lui certe cose che in seguito gli sono state contestate le diceva anche prima, nelle canzoni; sarebbe stato sufficiente non semplificarne l’interpretazione, invece poi si sono messi a dargli del traditore. È un po’ come quando criticano i miei pensieri, quando mi danno del fascista: ma non è che se uno dice una cosa sostenuta anche dalla Meloni, allora è un fascista!

Che cosa intendi?
Che se la Meloni dicesse «sono atea e bestemmio tutto il giorno», non è che mi metterei a pregare per essere diverso da lei.

Chiaro. Per questo durante i live dai testate al microfono? Quante ne avrai date nella tua vita?
Un bel po’. Ma ultimamente non lo faccio più.

No? Al Tunnel, a Milano, durante il tour di Venti, mi pare tu lo abbia fatto.
Sì, ma adesso se lo aspettano tutti. Ad ogni modo, dipende: se sono particolarmente incazzato o emozionato, magari mi viene. Perché ogni tanto mi capita che mi salga il groppo in gola, quando sono sul palco e canto le mie robe. È in quei momenti che mi sfogo con una testata, sono le mie stigmate.

Cosa ti commuove, quando suoni dal vivo?
È una cosa fissa, è la stupidità che mi commuove e mi fa piangere. Alla fine è anche positivo, se ci pensi. Tipo, quando guardavo la tv, mille anni fa, una delle cose che mi faceva piangere di più era TG2 Costume & Società. Perché era lo specchio dell’idiozia della gente. So che è snob dirlo, però, cazzo, pensare che ci sia qualcuno che ha voglia di guardarsi quella trasmissione di merda…

Però tu stavi parlando di emozioni sul palco, hai cambiato discorso.
Sì, ci sono delle frasi nelle mie canzoni che mi commuovono. Adesso non me ne viene in mente una nello specifico, però mi accade spesso, di avere il groppo in gola e di cercare di non farmi venire giù la lacrimina, perché… Perché sarebbe patetico, perché se piangi sul palco sei un coglione. Invece no, dai una testata e hai risolto il problema.

Quindi sei più emotivo di quanto dai a vedere? Quando ascolto pezzi come Eravamo noi, dall’album precedente, o C’era ancora il sole, singolo carico di malinconia da Pericolo giallo, questa cosa la percepisco, ma per il resto sembra sempre che te ne freghi di tutto. Anche se bestemmi contro tutto, anche se scherzi su tutto.
Ma sai, se con la vita non ci giochi un po’, ti spari. Specialmente in questi frangenti strani che stiamo vivendo da qualche tempo. Ora sta ritornando pure la paura dell’olocausto nucleare. Attenzione che arriva, adesso arriva. Ci hai fatto caso che i terroristi islamici non esistono più? Soppiantati dalla nuova peste. Poi ecco l’orso sovietico e tutti con la bandierina in mano. E io non sono un filoputiniano, per niente. Ma per me non si può stare nemmeno con gli altri.

Che effetto ti fa vedere la Meloni atlantista?
Mi fa molto ridere. C’è anche un passaggio, su questo, in una canzone dell’album nuovo, A occhi chiusi. Una canzone piuttosto particolare: un’improvvisazione di batteria, su cui ho scritto quei due accordi di merda che ci sono, più le parole, buttando dentro tutto a caso. In sostanza, è un brano costruito come un flusso di coscienza, mi sono divertito parecchio a scriverlo. E credo sia un po’ il simbolo di questo disco, anche se non penso che lo suoneremo mai dal vivo, perché è troppo complicato.

Troppe parole da ricordare?
Vabbè che avrei i quadernoni sotto i piedi. E porto pure gli occhiali, ormai!

Hai 65 anni, ti sei arreso al tempo che passa?
Alla grande. Sono un vecchio di merda e i vecchi di merda devono averceli, gli occhiali, se no che vecchi di merda sono?

Però, scusa se riprendo il discorso, perché ti fa ridere vedere – citandoti – “anche i più fascisti dei fascisti del passato mai rinnegato, salutare romanamente la bandiera della Nato”?
Ma perché se in Italia c’era una cosa ancora più antiamericana dei comunisti, era proprio quel cazzo di Movimento Sociale dal quale viene fuori questa destra. Non lo so, non so che cazzo sta succedendo, è tutto paradossale. Ma so che c’è da preoccuparsi, nel nostro Paese. Perché da sempre, dal dopoguerra in poi, siamo il terreno di sperimentazione di tutte le stronzate possibili.

Va che poi ti danno del complottista…
Ma sì, me lo prendo, del complottista, che cosa credi?

Credo che in questo album, come già in Venti, porti avanti un’importante riflessione sulla Resistenza e sulla resistenza. Ma per Giorgio Canali che cosa significa resistere?
Per me resistere vuol dire anche disertare.

E come si diserta oggi?
Sempre, si diserta. Ci si chiama fuori rispetto alle scelte di chi ci governa. Figurati che io ho votato due volte in vita mia. E per fortuna quando avevo quasi 18 anni e c’erano le elezioni non potei votare, perché in quel momento avrei sicuramente votato a destra contro mio padre che era uno stalinista. E adesso avrei un rimorso…

Però non voti nemmeno a sinistra, né ti definisci un anarchico.
No, nemmeno. Ho partecipato solo una volta, nel famigerato 1984 a Venezia, all’Incontro Internazionale Anarchico. E com’è andata a finire? Che una mattina mi sveglio su una panchina – sì, avevo dormito su una panchina – e c’era un compagno con una scolaresca delle elementari che illustrava le bellezze del festival anarchico e soprattutto il pensiero di «noi anarchici». Noi, capisci? Io lo guardo e faccio: «Parla per te, mi hai rotto i coglioni!, e me ne sono andato. Sparito.

È il “noi” che ti irrita? Sei allergico ai movimenti, alle ideologie?
Soprattutto quando il pensiero collettivo è stupido. E lo decido io, quando è stupido. Chi dovrebbe deciderlo al mio posto, scusa? Comunque è così, faccio fatica, fatico a trovare un’opinione condivisa che mi rispecchi. Ma sto bene lo stesso, mi scelgo le mie frequentazioni: ho amici di destra, di sinistra, ortodossi…

Tanto mandi affanculo un po’ tutti, giusto?
Sì, dai, da vecchiaccio di merda quale sono, posso permettermelo, no? E quando mi danno del boomer godo. Perché è vero, sono nato nel boom economico ed è da là che arrivo, quindi sono un boomer. Non è un termine dispregiativo, per me. È come dare del cinese a un cinese.

Foto: Mauro Stocchero

E come la vivi la vecchiaia, tu, sedicente immortale? Non ti fa un po’ incazzare, che stai invecchiando?
Se mi fa incazzare? Mmm, quando ho il fiato corto sì. Oppure quando mi cala la vista. Oppure quando mi alzo a fatica, chinandomi. Lì ci rimango un po’ male. Poi faccio finta di niente e vado avanti. Anche perché se dovessi disperarmi per le mie condizioni fisiche… Se inizi a farlo, poi entri in un loop che non finisce più.

In tutto ciò, la musica ti aiuta a vivere più serenamente?
È stare sul palco, che mi aiuta. Per questo ripeto sempre che faccio dischi per andare a suonare in giro. Adesso, poi, abbiamo trovato questa formula divertentissima, per cui uno butta fuori un’idea e gli altri gli vanno dietro, indistintamente, non importa di chi sia l’idea iniziale, può essere mia o meno. A occhi chiusi, come dicevo, è nata da un giro di batteria inviatomi da Luca, una stesura completamente atipica: io l’ho presa e ci ho scritto su il testo, ma rispettandola, rispettandone le pause e tutto il resto.

Vedi la magia della tecnologia, che miracoli? Ma ironia a parte, tu di rivoluzioni tecnologiche ne sai qualcosa, visto che negli anni ’80 sei stato uno dei primi a studiare i primi aggeggi elettronici, i primi campionatori Midi.
Sì, io sono nato con quel sistema lì. Però dopo aver fatto Epica Etica Etnica Pathos con i CCCP (1990, nda), mi sono rotto i coglioni di stare sulle macchine. Basta, mi sono detto, adesso continuo solo con chitarra e jack. È stato allora che ho imparato a suonare. Sempre che io sappia suonare. Prima costruivo la musica con i sequencer…

Che è quello che si fa oggi.
Sì, solo che oggi con un laptop da scrivania ci fai tutto, negli anni ’80 avevo macchinari alti un metro e mezzo.

Che effetto ti fa, invece, vedere la prima formazione dei CCCP riunirsi a Reggio Emilia per una mostra celebrativa e due “gran gala punkettoni di parole e immagini”, come li hanno chiamati?
Non credevo avrebbero mai fatto nulla del genere.

Pare che non suoneranno, così hanno dichiarato.
Se non sono scemi, suonano. Forse aspettano che gli diano un pacco di soldi, per farlo (ride).

Magari un giorno vi riesumerà tutti l’intelligenza artificiale.
Mi spaventa di più quella naturale, di intelligenza. Ma rispetto all’IA, tutte le previsioni più terrificanti sono niente rispetto a quello che ci aspetta. Però, guarda, non mi pongo neppure il problema, subiamo già una formattazione del pensiero che è oltre: è l’intelligenza obbligata. Fino a poco tempo fa ero convinto che Internet fosse libero, poi chi comanda ha capito come usarlo.

E tu, quand’è l’ultima volta che ti sei sentito libero?
Ma io sono sempre libero. Sul serio. Dove vivo adesso ho un balconcino da cui vedo fuori Perugia, benché sia in pieno centro. Ho un cane fantastico. Una fidanzata fantastica. Che cazzo voglio di più?! Faccio praticamente sempre quello che mi pare e questa secondo me è la ricetta di lunga vita. Poi magari muoio dopodomani, va bene che mi proclamo immortale, però, insomma…

Già molti anni fa dicevi che se mai vorrai farla finita, vorresti farlo volando: confermi?
Sì, eh. Dalla Pietra di Bismantova!

Nel frattempo mi diresti qual è il pezzo preferito di questo nuovo album?
Credo Un filo di fumo.

Nella cartella stampa c’è scritto che in quella canzone ti rivolgi alle nuove generazioni, cosa che fatico ad associare a Giorgio Canali. Invece?
Invece è vero. Sarà che al di là di tutto vedo che esiste un movimento.

Ti riferisci ai ragazzi che protestano contro il cambiamento climatico, agli studenti che denunciano il caro affitti o a chi?
A me piacciono i più violenti, quelli che fanno casino, non ci posso fare niente (ride). Diciamo che in generale, quando vedo giovani protestare contro certe ingiustizie, mi fa piacere. C’è ancora vita alle scuole superiori.

Leggi altro