I Fratellis sono più vivi che mai e hanno qualcosa da dirvi | Rolling Stone Italia
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I Fratellis sono più vivi che mai e hanno qualcosa da dirvi

Ok, i tempi dell'indie sono finiti, questo però non impedisce ai ragazzi di Glasgow di continuare a proporre ottima musica. Come il nuovo "Eyes wide, tongue tied"

Foto: Facebook

È scientificamente provato: se hai un amico a cui il nome dei Fratellis non dice granché, basta fargli ascoltare i primi trenta secondi di Chelsea Dagger e lui subito esclamerà “Aaaaah, LORO!”. Nel 2006 la canzone, contenuta nel loro album di debutto Costello Music, li aveva trasformati quasi istantaneamente nella rock band del momento, tanto che l’anno successivo avevano stravinto ai Brit Awards come miglior band esordiente.

Dopo un debutto così esplosivo, però, niente più super hit: sono tornati ad essere “semplicemente” un ottimo gruppo indie senza particolari pretese da classifica, pronto a tornare sul ring con il nuovo album Eyes wide, tongue tied in uscita in questi giorni. Un fallimento? Decisamente no, come ci spiega il frontman Jon Fratellis, uno che sa fin troppo bene che il valore della musica non si misura in base alle copie vendute.

Hai detto che Eyes wide, tongue tied ha il suono della libertà. Libertà da cosa, esattamente?
Dalla pressione di registrare un album. L’unica ragione per cui l’abbiamo fatto è stato il piacere di ritrovarci tutti in studio: la pausa di tre anni che ci siamo presi ci ha ricaricato, al momento ci divertiamo come non mai a suonare insieme.

Il titolo, però, in un certo senso evoca la sensazione opposta (significa “Occhi spalancati, lingua legata”). E anche la copertina, che mostra la visitatrice di un museo intenta a fissare un quadro completamente bianco, è un po’ inquietante…
È il verso di una canzone che all’ultimo abbiamo scartato dalla tracklist del disco. Lo abbiamo scelto perché è stato il primo titolo che metteva d’accordo tutti. Idem per la copertina: per me quella foto non ha un significato particolare, però credo che sia il tipo di immagine che può avere significati diversi a seconda di chi la guarda, e in questo senso mi piace molto.

Il disco è stato scritto in Scozia e poi registrato in California, due location opposte tra di loro. Il cambio di clima durante le diverse fasi di lavorazione ha influenzato il mood delle canzoni?
Molta gente pensa che posti diversi influenzino la musica in modo diverso, e sono sicuro che per qualcuno è vero, ma per me cambia poco. Le canzoni arrivano quando arrivano, non stanno a scegliere il luogo o l’ora più appropriata. Per quest’album, in particolare, sono state scritte molto velocemente: è solo un caso che in quel momento ci trovassimo a Glasgow. E quando ci siamo spostati in California non credo sia cambiato niente.

Parli delle tue canzoni come se vivessero di vita propria. Ne hai una preferita?
La percezione che hai delle tue creazioni cambia di giorno in giorno. Oggi penso che le migliori che abbiamo scritto siano Me and the devil, Slow e Rosanna, domani chissà? Non è detto che siano le stesse.

A proposito, la vostra Chelsea Dagger è una vera e propria hit, soprattutto tra gli sportivi: ancora oggi è usata come inno di trionfo da centinaia di squadre in tutto il mondo ogni volta che segnano un punto. Vi aspettavate un successo del genere?
Assolutamente no! Queste cose succedono senza che tu faccia niente per farle accadere, anzi, forse il segreto è proprio non fare niente. Non ho mai pensato che Chelsea Dagger fosse una canzone particolarmente bella. Non ricordo neppure quando l’ho scritta: per me era solo un pezzo tra tanti, non ci sono molto affezionato. Se continuiamo a suonarla dal vivo è soprattutto perché sappiamo che c’è gente che viene al concerto per sentirla.

Nessuna tentazione di fare brani simili a quello per fare felici fan e discografici, quindi?
No, nessuna. Non mi piace ripetermi. Oltretutto, proprio perché non so come ho fatto a imbroccare una hit del genere la prima volta, non saprei come farlo una seconda!

Curiosità estemporanea: leggenda vuole che tu abbia mollato l’università dopo solo tre ore dall’inizio della prima lezione…
La verità è che sono durato molto meno: c’era una pausa per il tè dopo la prima mezz’ora, e io ne ho approfittato per andarmene a casa e non tornare mai più. Non era il posto giusto per me. Per i musicisti, l’unico lavoro davvero perfetto è fare musica.

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