Intanto i Calibro 35 non sbagliano un disco | Rolling Stone Italia
Il passato non passa mai

Intanto i Calibro 35 non sbagliano un disco

Il nuovo album ‘Nouvelle Aventures’ registrato a Napoli, il cambio di formazione, le discussioni sui social. Abbiamo parlato con Enrico Gabrielli e Tommaso Colliva del ritorno alle origini dei Calibro

Intanto i Calibro 35 non sbagliano un disco

Calibro 35

Foto: Chiara Mirelli

Doveva essere una tranquilla chiacchierata via Zoom col solo Enrico Gabrielli, per dire giusto due cose sul nuovo bel disco dei Calibro 35, Nouvelle Aventures, perché se Dustin Hoffman non sbaglia un film, come cantava Carboni, difficilmente i Calibro sbagliano un disco. Ma già dall’inizio la chiacchierata si è dimostrata meno tranquilla del previsto, perché c’era in sottofondo il cicalino che segna i turni nelle code alla Posta (eh sì…), oltre a un bel po’ di vociare; e in più a un certo momento nella conversazione su schermo è apparso, a sorpresa, anche Tommaso Colliva.

Sorpresa in realtà fino a un certo punto, come potete leggere più sotto; ma quel che conta è che entrambi si sono dimostrati generosissimi nel parlare, raccontare, spiegare. Senza nemmeno lesinare in ironia e autoironia. E senza nemmeno evitare di dire qualcosa sull’argomento probabilmente più difficile, l’uscita del bassista Luca Cavina dalla band, uscita che ha generato scontri, polemiche e litigi su internet. Vedendo comunque fin dall’inizio che il clima era allegro e amichevole, per questa intervista, ce la siamo giocata immediatamente belli diretti fin dalla prima domanda, partendo dal fatto che prima di questo nuovo lavoro di inediti la band è stata risucchiata in lungo ed in largo da tutto il lavoro di riproposizione, sia live che su disco, del repertorio di Ennio Morricone.

Ma insomma, diciamolo, dai: vi eravate ormai un po’ rotti le scatole di suonare Morricone, vero? E non vedevate l’ora di voltare finalmente pagina.
Enrico Gabrielli: (Scoppia a ridere) Eh, come disse Gesù Cristo: «Tu l’hai detto». Tu. Non io (ride ancora).

Eh.
Enrico: Non vorrei esagerare con la portata delle citazioni però ecco, più di questo non saprei che dirti…

Mmm.
Enrico: No, dai, cerco di risponderti un po’ meglio. Non ci eravamo rotti le scatole di suonare Morricone. Anzi, a dirtela tutta avremmo fatto volentieri almeno un’altra decina di date in più: perché sai, una volta che metti su una cosa così impegnativa è bello riuscire a spremerla fino in fondo. Di concerti ne abbiamo fatti tanti, ma personalmente ne avrei fatto ancora qualcuno in più. Essendo però un organico più ampio, con quindi delle gestioni tra costo e organizzazione logistica molto più complesse, va bene così. Alla fine va bene così. Era difficile andare oltre. Morricone è stata una palestra. Una palestra a tratti dai contorni quasi psicanalitici, almeno per quanto mi riguarda: ti confronti con una attitudine compositiva che da un lato è decisamente fuori dai tempi moderni, ma dall’altro è altissimo artigianato – e quindi ai tempi moderni puoi e potrai applicarla sempre e comunque. Del resto non è un caso che Morricone sia oggi probabilmente il musicista italiano più famoso al mondo. Sai, il punto è che quasi tutto il suo materiale non si trova trascritto su partitura: devi tirartelo giù tu, e tirare giù su uno spartito di roba di Morricone non è come farlo per i Nirvana. Quindi sì, la fatica è stata tanta, e non nego che questa fatica non è sempre stata tinta di rosa, c’è stata anche qualche momento di insofferenza e naturalissima frustrazione…

Ecco.
Enrico: Quindi ci sta che a un certo punto cambiare pagina e tornare a indossare i nostri panni. Solo che adesso lo possiamo fare con un Morricone alle spalle. Non è poco.

Ok. Ma chi è stato il primo a dire «Dai, il prossimo disco deve essere un ritorno alle basi, a quello che noi siamo in origine», cosa che Nouvelles Aventures mi pare sia al cento per cento?
Enrico: Ovviamente è stato Tommaso Colliva. Chi altri.

Come sempre.
Enrico: Come sempre. Fin da quando sono nati i Calibro, più che una band, sono una équipe di lavoro, équipe dove una serie di musicisti molto skillati vengono assemblati fra loro dal Professor X. Tommy è il Professor X, noi siamo i vari Cyclop, Wolverine, Storm… Fabio Rondanini è sicuramente Storm, tra parentesi (ride). Tommy sì, lui è il Professor X, è il Charlie di Charlie’s Angels: dà direttive, setta i tempi di pianificazione e produzione… E ti dirò: questa cosa mi piace molto. Mi fa infatti pensare a certi spy movie degli anni ’60.

Lo hai evocato, Tommaso, ed eccolo comparire.
Tommaso Colliva: Ehi, ciao!

Che poi manco dovevi esserci, Tommaso, in questa chiacchierata! Che diavolo ci fai qua?
Enrico: Ma perché aveva paura che io ti dessi buca, ecco perché è qui.

Ah!
Enrico: E faceva bene, ad avere paura: già in passato mi è capitato di mancare delle interviste, per fortuna c’era sempre qualcuno pronto a coprirmi…

Allora, dicevamo di chi avesse stabilito che Nouvelle Aventures dovesse essere per i Calibro un chiaro ritorno alle origini… La risposta di Enrico è stata netta: Tommaso.
Tommaso: Beh, sì. Da un lato era ovviamente la mia prima scelta e il mio primo desiderio personale, quello di sicuro; ma dall’altro pensavo che una cosa del genere avrebbe comunque fatto bene a tutti noi. Vedi, negli ultimi anni abbiamo passato un sacco di vicissitudini, abbiamo fatto un mare di cose. Di fatto, non ci siamo mai fermati. Quando è scattato il casino della pandemia eravamo già in pieno tour; poi quando le cose sono piano piano ripartite coi concerti solo a sedere, noi ovviamente siamo stati fra i primi ad avvantaggiarsene, era un formato che per noi era sostenibile. Poi, Morricone. Poi, la colonna della serie tv Blanca. Se ci ripenso ora, la verità è che per paura di non poter fare quasi niente abbiamo fatto in realtà negli ultimi anni un sacco di cose, abbiamo detto di sì ad un sacco di progetti e di committenze. Risultato? Era tanto che non ci fermavamo un attimo dicendoci «Ehi, aspetta: ma perché non torniamo a fare qualcosa che sia nostro e solo nostro?».

Sia chiaro, tutto quello che abbiamo fatto recentemente ci ha fatto crescere tantissimo: nei gusti musicali, nelle soluzioni da adottare, anche nel capire meglio cosa ci attrae davvero e cosa invece non ci appassiona davvero così tanto (o non ci appassiona più come prima). Ma era il momento di tornare alle origini, ecco. Del resto, è già una cosa abbastanza vista quella del progetto musicale che dopo dieci, quindici anni vuole fare un ritorno alle origini, perché si sta chiedendo «Ma come era suonare all’inizio?»: c’è ad esempio un gruppetto inglese di nome Beatles che ne ha fatto un capitolo abbastanza fondamentale della propria carriera. Senza paragonarci a loro, per carità, penso però che l’esigenza fosse un po’ proprio quella.

Ma ci sono mai stati dei momenti in cui avete sentito che i Calibro fossero diventati troppo una cosa, come dire, ingombrante? Perché tutti voi avete una solida identità professionale e artistica anche da soli; e quindi magari ci sono stati dei momenti in cui avreste preferito continuare a fare le cose per voi, da soli, mentre c’era invece un Moloch-Calibro che in qualche maniera andava nutrito, andava portato avanti…
Enrico: Vai Tommy, rispondi tu, vai vai, che io devo ritirare un pacco allo sportello…
Tommaso: Dal mio punto di vista, che è come ovvio estremamente soggettivo, credo che il grosso pregio del progetto Calibro sia proprio il fatto di non essere l’unico progetto in essere per ciascuno dei suoi componenti. Non penso che nessuno della band lo abbia mai visto come un Moloch. Te lo dico anche perché più di una volta è capitato che qualcuno dicesse: «Ragazzi, ora non riesco, non ho le energie per dedicarmi alla roba Calibro, andate per ora avanti voi». È capitato, e capiterà di sicuro di nuovo. Nel corso degli anni abbiamo poi imparato sempre più e sempre meglio che possiamo supportarci a vicenda, e che non dobbiamo ogni volta autoaffermarci singolarmente. Adesso, ad esempio, che stiamo registrando la colonna sonora per la seconda stagione di Blanca, siamo molto flessibili dal punto di vista organizzativo, non è per forza necessario che si sia presenti tutti assieme in studio. Questo rende le dinamiche molto, molto rilassate fra di noi, ed anzi, è anche uno stimolo ad inventarsi sempre dei nuovi modi per fare bene le cose, se non addirittura proprio per farle meglio. Tutto questo l’ho imparato sulla mia pelle, e…

E…?
Tommaso: E non è stato nemmeno così facile. Perché quando è nato il progetto Calibro 35 io avevo 25 anni, avevo tutte le energie e tutta la smania del mondo, ero insomma un po’ nel mood «Dobbiamo fare questo e solo questo per tutta la vita». Col tempo ho invece imparato che, per come siamo fatti, avere per ciascuno altre vie, altre esplorazioni ed altre attività è bellissimo. Anche perché in questo modo quando ci rivediamo e ci rimettiamo tutti assieme abbiamo una incredibile voglia di fare; e abbiamo voglia di fare proprio i Calibro, non altro, non quello che ciascuno sta facendo singolarmente.
Enrico: Penso che questo sia un meccanismo assolutamente fondamentale per longevità del nostro gruppo. Ma ti dirò: in realtà, è proprio un consiglio che darei a quasi tutti i gruppi in generale. È bello creare e viversi il gruppo-famiglia, ci mancherebbe, ma occhio, è una cosa molto complessa: perché per farlo devi investire tante cose che non sono solo artistiche.

Vero.
Enrico: Io ad esempio per anni ho fatto parte dei Mariposa, è stata la band che mi ha formato, e loro sono il classico gruppo-famiglia: si fa tutto assieme, sempre, proprio come regola. Cosa che però faceva anche scattare dinamiche di gelosia e di possesso, se qualcuno provava a fare qualcosa con altri. Ma è naturale, eh. Quando si è giovani, si è così. Ma non so nel lungo periodo quanto sia sostenibile una cosa di questo tipo, soprattutto se sei poi un musicista italiano che suona praticamente solo in Italia, alla fine il nostro Paese è un campo d’azione comunque limitato. E poi quando cresci, succede che metti su famiglia e avere un progetto “libero” che sa accoglierti senza chiederti che tu gli devolva tutta la tua vita può essere una grande boccata d’aria. Per dire: i Calibro sono per me tra le varie cose sempre una bella scusa per tornare a Milano, ora che vivo a Torino. Quando Tommy nelle nostre comunicazioni di gruppo inizia a dire «Ci sarebbe la possibilità di…» io spesso rispondo «Sì! Va bene!» prima ancora che abbia terminato la frase (risate). E quando continua dicendo «Ma non è necessario che ci troviamo tutti assieme…».
Tommaso: Tu hai già preso il biglietto del treno per Milano.
Enrico: Esatto. E credimi: nei primi anni non era così. È solo di recente che abbiamo maturato questo bel tipo di entusiasmo ed equilibrio al tempo stesso.

Ad ogni modo: è l’anno di Napoli, tutti parlando di Napoli, il Napoli vince pure lo scudetto, e voilà: voi andate a registrare il disco a Napoli…
Enrico: Però di calcio ne capiamo gran poco, e ce ne interessiamo altrettanto poco. Io ti posso dire al massimo che mio padre tifa Fiorentina, ecco. Ma dei miei compari di gruppo, proprio non saprei. Tommy, ad esempio, tu per chi tifi? Non l’ho mai capito.
Tommaso: Io per tradizione famigliare dovrei essere juventino, perché mia mamma di Torino e mio nonno tifava decisamente Juventus…
Enrico: Veramente?
Tommaso: Sì, sì.
Enrico: Ma sai che lo sto scoprendo solo adesso, tutto questo? Però sì, come dicevamo noi siamo proprio una causa persa. Uno di noi è di Frosinone, un altro di Roma ma di calcio non gliene frega niente…

Foto: Chiara Mirelli

Ma calcio a parte, la musica in arrivo da Napoli è gettonatissima di questi tempi. C’è un hype continuo.
Tommaso: In realtà è tutto un po’ un caso. Quando ci siamo detti «Facciamo un disco nuovo», ci siamo anche detti: «Abbiamo però bisogno di concentrarci per bene». Dovevamo cioè smettere di essere quel gruppo che si incontrava perché ci sono già delle cose precise da fare: appunto un progetto su Morricone, o una colonna sonora per una serie. Però ecco, se ci fossimo ritrovati in studio da me di nuovo saremmo stati più degli artigiani che vengono al lavoro che degli artisti, capisci che intendo? Dovevamo stare in un posto diverso. E in un posto stimolate. Del resto già Ogni riferimento a persone esistenti lo avevamo registrato a New York, S.P.A.C.E. a Londra: sapevamo quindi cosa poteva darci in più il fatto di andare da un’altra parte, tutti insieme, a creare un album ex novo. È qualcosa che porta ispirazione: e non perché devi imitare o immedesimarti meglio in un suono preciso, o in una scena musicale ben definita. Anche solo il cambiare luogo e il cambiare la strumentazione in studio, così come l’avere la necessità di chiudere i lavori entro un determinato tempo, aiuta. E cambia le carte in tavola. Quindi l’anno scorso, non mi ricordo neanche bene come, avevamo saputo di questa cosa dell’Auditorium Novecento a Napoli.

Uno studio di registrazione che nasce nei luoghi della fu Phonotype, una delle primissime aziende a fabbricare dischi in Italia, e che ha fatto la storia della canzone melodica napoletana.
Tommaso: Già. In qualche modo l’Auditorium Novecento è comparso nella mia bolla; e ho subito pensato «Accidenti, bellissimo questo posto».
Enrico: A me ne aveva parlato Francesco Forni.
Tommaso: Ah, Francesco Forni c’entra di sicuro! Io già ne avevo sentito parlare, dell’Auditorium Novecento, ma poi incontrai proprio Forni al Primo Maggio, e a suonare il basso con lui c’era proprio una delle persone che porta avanti il Novecento, Bruno, con cui facemmo delle grandissime chiacchierate su Roberto De Simone. Insomma: la decisione di finire lì è stata quasi inevitabile, da un certo momento in avanti. Ma ci permettiamo di essere orgogliosi di una cosa: non abbiamo fatto in alcun modo appropriazione culturale, su Napoli.

No, eh?
Tommaso: In nessuno modo abbiamo cavalcato l’onda della Napoli disco-funk-melodica, che ora tanto funziona. E questo nonostante un sacco di musica napoletana, di quell’indirizzo e non solo, ci piaccia proprio tanto: io ad esempio sono un grandissimo fan di Rosso napoletano di Tony Esposito, o di alcune cose del Roberto De Simone prima citato. Ma se avessimo voluto seguire quella direzione lì in quel caso effettivamente sarebbe stato un po’ un “mettere il cappello”. Il fatto di andare a Napoli era invece solo la voglia di andare in un posto nuovo, diverso, dove potersi concentrare su un disco nuovo. L’Auditorium Novecento è stato perfetto in questo senso. Si respirava l’aria giusta per creare, ed era talmente ben allestito che ci siamo potuti permettere di vivere lì per una settimana come in una bolla, senza il minimo bisogno di cercare per un attimo cose fuori in giro. Siamo stati a Napoli sì, ma non abbiamo visto un cazzo di niente e un cazzo di nessuno. Ci siamo chiusi in studio. Ed abbiamo tirato fuori un disco.
Enrico: Siamo arrivati a Napoli già con le idee piuttosto chiare, peraltro. Sai, lavorando per la colonna sonora di Blanca sei quasi costretto a buttare fuori di continuo idee, soluzioni, lasciare insomma sempre aperto il rubinetto della creatività e delle possibilità; Nouvelle Aventures è invece molto più scientifico, strutturato.
Tommaso: Ci sono un paio di episodi nell’album che nascono effettivamente da improvvisazioni, penso ad esempio a Mompracem e Novecento e Mille: quando cioè parti senza avere nulla di preparato e vedi cosa succede, poi in un secondo momento raccogli quanto registrato e lo riordini. Ma questo modo di lavorare per noi è l’eccezione, non la regola. Guarda: proprio l’altro giorno ho ascoltato il disco degli Heliocentrics – di cui sono un grandissimo fan – con Gaslamp Killer, e lì effettivamente capisci subito che sono andati un po’ a braccio, «Iniziamo a suonare ed improvvisare e vediamo cosa ne viene fuori…».

Mentre voi…
Tommaso: Noi, forse anche per il fatto che siamo così legati al mondo e all’immaginario delle colonne sonore, abbiamo invece quasi sempre bisogno di una sceneggiatura ben precisa da cui partire.

E la mia traccia preferita dell’album, Eterataco? Come è nata?
Tommaso: Quella è opera del maestro Gabrielli.

Che però ora si sta mangiando un gelato, vedo.
Enrico: Il pacco che sono andato a ritirare alle Poste è stato rispedito ieri al mittente, ho fatto un’ora di fila per nulla. E allora, per consolarmi, mi sono preso un gelato.

Va bene, va bene: concesso.
Enrico: Eteretaco nasce per una sincronizzazione cinematografica, che poi però non è mai andata in porto. Esiste da anni, insomma, ma ritirarla fuori è stato complesso. Nasce tutto da un concetto molto mio personale: parla di un veicolo che viaggia nell’etere. Lo spunto originale arriva da un libro di fantascienza di fine Ottocento scritto da Paolo Mantegazza, L’anno 3000 – Sogno: un libro di fantascienza che si immagina le grandi città nel nuovo millennio. Dove appunto le persone si spostano in giro usando un aerotaco, un veicolo volante insomma. Io ho ripreso questa cosa in uno dei racconti che componevano un libro che ho fatto uscire qualche anno fa, immaginandomi in una disfida immaginaria tra Mantegazza e Lombroso una macchina che viaggiasse proprio nell’etere: nasce così l’eteretaco.

Mi viene da dire che, sentendo riferimenti di questo tipo, può essere uno si spaventi, no? Poi in realtà chi vi conosce di persona sa quanto simpatici e alla mano siate, ok; ma leggendo invece tutti questi alti riferimenti letterari…
Tommaso: A cui però teniamo tantissimo (ride).

Vedo!
Tommaso: In realtà siamo consci di quanto spaccamaroni possano sembrare certi riferimenti molto letterari; ma devo dire che anche quando li mettiamo in campo, lo facciamo – credo – con molta leggerezza. Che è la cosa che ci salva. Come già detto in passato, ma è sempre bene ripeterlo: non siamo dei collezionisti maniacali di colonne sonore, libri, dischi, film. Io personalmente ho smesso di collezionare dischi…
Enrico: Da quando hai iniziato a farli (risate).
Tommaso: No, diciamo che ho smesso quando è esploso il fenomeno del peer to peer, ecco: perché a me interessava ascoltarli, i dischi, non collezionarli. E tutti i riferimenti di senso che possiamo buttare dentro in quello che facciamo, è più che altro per una per una spasmodica ricerca di senso e di riferimenti in mondo che – di senso e riferimenti – ne ha sempre meno. Insomma, una cosa tipo «Se facciamo un sacco di citazioni, almeno ci copriamo le spalle» (sorride).

Domanda finale meno divertente, ma non posso non farvela: cosa avete imparato del rapporto col vostro pubblico, dopo tutto il casino che c’è stato sul web attorno all’annuncio-non-annuncio del cambio di organico, con Luca Cavina che non fa più parte dei Calibro?
Enrico: Non abbiamo imparato niente. Almeno io personalmente non ho imparato nulla. Se non che il mondo dei social e di internet è un mondo un po’ psicotico. E non so quindi quanto vada preso sul serio. Perché un conto è parlarne con degli amici, un conto invece…

Mmm.
Enrico: Sai, la fuoriuscita di una persona da una band è una cosa complessa, spesso ha a che fare con motivazioni molto più relazionali – anzi, direi proprio famigliari – che artistiche e musicali. E da quando esiste internet ed esistono i social, mi pare che si debordi un po’ troppo quando si tratta di ricostruire la cronistoria di qualcosa. In tutta questa vicenda, gli unici momenti utili sono stati quando mi sono confrontato con gli amici veri, quelli che magari abbiamo in comune proprio con Luca. E sono persone con cui ho vissuto anni ed anni non solo di vita artistica in comune, ma anche di cose personali, avventure, vacanze assieme. Capisci? Vita vera. Quando però queste cose finiscono in pasto alla comunicazione social, si deformano. Diventano tutte brutte. È come se io parlassi di una mia relazione che finisce, e ne scrivo su Instagram: mi arriverebbero i commenti più impensabili, dalle persone più impensabili.
Tommaso: Non c’è niente da fare: le dinamiche da social lo sai che ci sono, sai come sono, ma quando le tocchi con mano…

Sono un’altra cosa.
Tommaso: Esatto. Che Calibro per 15 anni siano stati sempre le stesse cinque persone mi pare un risultato incredibile. Un risultato a cui siamo arrivati anche grazie a regole e a discipline interne che non mi interessa si vengano a sapere, e non è nemmeno giusto – credo – che si vengano a sapere. Perché passano anche attraverso passaggi spinosi. Quando poi però tutto questo diventa preda della comunicazione da social, dove un sacco di persone giudicano dall’esterno – con una visione assolutamente parziale – questo allora ti può fare effettivamente male. Ad ogni modo, tutto quello che ti posso dire è che noi Calibro abbiamo, oggi, tanta voglia di stare assieme. E di scoprire cose nuove. E di metterci alla prova. Se per qualcuno il fatto che ci sia stato un cambio d’organico è un dealbreaker, beh, siamo tutti liberissimi di ascoltare o non ascoltare quella particolare musica, o quella particolare band. E credimi: va benissimo così.