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Indigesti, l’amore e la violenza

Fare hardcore nei primissimi anni ’80. Rudy Medea e Silvio Bernelli raccontano la storia della band di ‘Osservati dall’inganno’: il punk in Italia, il caos ai concerti, l’avventura americana, lo scioglimento e la reunion. «Suonare era un gesto coraggioso». E faticoso

Foto: Helge Schreiber

«Era il nostro penultimo concerto del tour americano, al Fender’s Ballroom di Long Beach. Ci fu una rissa devastante che coinvolse centinaia di persone, noi dovemmo scappare dal palco con la sicurezza che ci scortò nei camerini… fuori intanto divampava la rivolta, con la polizia a cavallo che prendeva a bastonate la gente in mezzo alla strada. Quando finalmente riuscimmo ad andar via, ricordo distintamente l’elicottero della polizia che ci puntò addosso il faro e per un attimo ci seguì…».

Questa è una storia rock’n’roll. Una di quelle storie nate nell’underground degli anni ’80, che si bruciò in una manciata di stagioni. Una storia che oggi non potrebbe replicarsi nel contesto attuale, poiché la gavetta delle sale prove, la fatica di registrare un disco in poche copie, i concerti di volume e sudore e rumore e gente che fa stage diving, tutto questo non esiste (quasi) più. E per questo vale la pena di ricordare chi ha vissuto queste cose, 40 anni fa.

Questa è la storia degli Indigesti, band piemontese che insieme a Negazione, Kina, Raw Power, Peggio Punx e alcuni altri fece la storia dell’hardcore italiano. Le poche incisioni discografiche del gruppo sono veri e propri classici per quel genere musicale, e non solo nel nostro Paese; il primissimo 7 pollici, uno split EP con i Wretched, è un Sacro Graal del collezionismo discografico, con quotazioni di parecchie centinaia di euro. I due album ufficiali (Sguardo realtà e soprattutto Osservati dall’inganno), più un live recuperato da incisioni dell’epoca (Live in Lübeck 02.09.1987), sono invece stati ristampati su vinile da FOAD da pochi giorni, con un corredo iconografico spettacolare. Abbiamo colto l’occasione per farci raccontare la vita degli Indigesti con una chiacchierata a 360° con Rudy Medea, cantante e fondatore della band, e con Silvio Bernelli, bassista, che entrò nella band in un secondo tempo, dopo aver militato nei Declino.

«Io sono originario della provincia di Biella, i primi passi avvengono lì, in una delle poche birrerie della città, il Kilt», racconta Rudy Medea. «Con due ragazzi del posto, amici di scuola, iniziamo a suonare, a fare cover dei Ramones. Cercando di concretizzare il progetto, fissiamo una data a Vercelli, grazie a un contatto rimediato a un concerto dei Sorella Maldestra 2. Eravamo in una formazione a quattro, molto punk-rock, facevamo cover di Clash, Stiff Little Fingers, cose così. Beh, fu un flop mostruoso: emerse tutta la nostra inesperienza da palco, con le spie mal funzionanti, le chitarre scordate, eccetera… un disastro. Per quello, era l’inizio del 1981, decidiamo di prenderci una pausa».

Cosa succede poi?
Alla fine dell’81 ci ritentiamo, con la primissima formazione degli Indigesti, sempre nella zona tra Biella e Vercelli: spunta una data a Trino Vercellese. E questa, invece, va molto bene. Non solo: quella stessa sera suona anche un altro gruppo, i Bogart X, che sarebbero poi confluiti negli Indigesti: c’erano Enrico (Giordano, chitarrista, ndr), il Corra (Massimo Corradino, batterista, al quale sarebbe poi subentrato Massimo Ferrusi, ndr) e Roberto (Vernetti, bassista, ndr), che avrebbero di lì a poco sostituito i ragazzi di Biella dando vita alla prima formazione ufficiale della band, quella che avrebbe inciso il primo 7” con i Wretched.

Io in quel periodo già frequentavo il Virus a Milano; avevo conosciuto i ragazzi del centro sociale e stabilito i primi contatti. Sono quindi in condizione di fare una proposta concreta ai ragazzi dei Bogart X: mettiamo su questo nuovo gruppo, cantiamo in italiano, facciamo quanto basta di prove e ci proponiamo subito al Virus, e vediamo se funziona. Detto fatto, andiamo così come siamo, nudi e crudi, e la cosa va in porto: è un piccolo grande successo. Da lì è partito tutto: abbiamo preso contatto con i Wretched, trovato i legami per fare concerti a Milano, Torino, Piacenza, Brescia, eccetera.

La motivazione iniziale quindi nasce chiaramente dal punk, un genere all’epoca nuovissimo, ad appannaggio di pochi…
Rudy Medea: Per me è stata un’evoluzione naturale. In realtà ho iniziato ad ascoltare il punk da subito: già alla fine del ’77 ero sintonizzato su Sex Pistols, Clash, Damned, Buzzcocks, Heartbreakers… era pura passione. È vero che erano anche band difficili da scovare a quei tempi; le avevo scoperte, io come tantissime altre persone, grazie a una trasmissione di Odeon TV che per prima aveva parlato del punk in Italia, seguita a ruota da L’altra domenica di Renzo Arbore, con i servizi da Londra di Michel Pergolani.
Silvio Bernelli: Sì, questo vale per il ’77-’78, ma in realtà nel 1979 già ci sono parecchie radio libere, perlomeno a Torino, che trasmettono punk. I Ramones peraltro vengono a suonare a Torino all’inizio del 1980, e pochi mesi dopo arrivano i Dead Kennedys, e soprattutto loro hanno questo suono americano che supera il punk e guarda all’hardcore. Questi concerti lasciano il segno. E oltre a questi, non bisogna dimenticare che ai tempi avevano avuto successo oltre la nicchia parecchi gruppi della new wave: Siouxsie & The Banshees ad esempio, che facevano concerti da 1500 persone, e tutta la scena più distorta e rumorosa: gente di cui i mass media non parlavano affatto, ma che in realtà aveva un’influenza importante. Tutte le band che hanno transitato per l’Italia in quegli anni, penso ad esempio anche i Killing Joke, hanno sicuramente seminato e sono state decisive per la nascita dell’hardcore dalle nostre parti. Un altro aspetto di cui non si è mai detto abbastanza è poi quello dei testi in italiano. I testi che scriveva Rudy per gli Indigesti, quelli del Declino, dei Negazione… erano un modo per i ragazzi di ritrovarsi facilmente, di identificarsi, erano testi che raccontavano le stesse storie che loro vivevano. E hanno contato tantissimo per l’affermazione della scena hardcore in Italia.

È stata forse la prima volta, se non contiamo le poche eccezioni della new wave italiana, in cui la nostra lingua è stata usata massicciamente in un genere musicale che di italiano non aveva nulla… questo ha anche contribuito a consolidare una scena particolarmente coesa? A facilitare la trasformazione del punk in hardcore italiano?
Silvio: Certamente. Inoltre, già nei primissimi tempi, quindi tra l’81 e l’82, c’era molto l’idea di muoversi in un territorio vergine, di scoprire qualcosa di veramente nuovo. Agli esordi l’hardcore poteva ancora essere modellato, ed è questa la ragione per cui l’hardcore italiano ha le sue particolarità e non somiglia così tanto a quello americano e per niente a quello inglese. Era una generazione di musicisti giovani ed entusiasti che potevano buttarsi a sperimentare, senza freni né preclusioni; successivamente, come accade a tutti i generi, si sarebbe sclerotizzato, ma in quei tempi era tutto inedito.

Oltretutto vi muovevate in un contesto, sociale e musicale, in cui si iniziava a parlare di riflusso, in cui il cosiddetto mainstream stava occupando sempre più spazi.
Silvio: In quel momento l’Italia rappresentava quella che potremmo chiamare sfida adeguata. Si viveva in un Paese abbastanza scomodo, fastidioso e complicato per avere da una parte i giusti stimoli per lottare e imporsi, e dall’altra trarre energia fortificante da questo atto. Suonare era un gesto coraggioso, ma al contempo c’era una scena abbastanza nutrita e coesa per poterlo fare sapendo che esisteva, seppur piccolo, un pubblico per quel tipo di proposta. Non sempre accade che queste circostanze si trovino tutte insieme, per questo l’hardcore ha trovato un terreno fertile per crescere. Ed era una scena che aveva un enorme orgoglio di quello che faceva, aveva la consapevolezza di fare qualcosa di unico, di mai sentito prima.
Rudy: Musicalmente eravamo veramente agli antipodi di quello che passava su DeeJay Television, non avevamo proprio nulla in comune con loro, eravamo un’altra galassia. Prendevamo atto della loro esistenza, niente di più.
Silvio: Aggiungo che bisogna anche capire cosa si intende per mainstream. A mio parere quello che potevamo definire mainstream italiano era terrificante (e lo è ancor oggi). Mi piaceva giusto Battiato, nessun altro. Poi però c’erano cose che magari erano mainstream in altri Paesi, ed erano interessanti, mi piacevano. Ad esempio i Joy Division che vanno al numero uno in Inghilterra dopo la morte di Ian Curtis, o gli Ultravox!, o ancora produzioni più ambiziose come Philip Glass che produce su RCA i Polyrock, o Laurie Anderson che arriva al numero due in Inghilterra con O Superman.
Rudy: Alcune di queste band erano già più vicine al nostro ambito, gli Ultravox! ad esempio facevano parte della prima scena punk e gli stessi Sex Pistols incidevano per la Virgin, così come i Ramones erano sulla Sire, sub-label della RCA… non possiamo denigrare il lavoro di certe major, era tutto molto sfumato…

Certo è che, per i gruppi hardcore come il vostro, trovare spazi adeguati non dev’essere stato facile… è per questo che avete suonato così tanto all’estero?
Rudy: Guarda, i posti dove potevamo esibirci in Italia erano pochissimi: alcuni centri sociali, luoghi di aggregazione più che locali. Il Virus a Milano, come già detto, poi il Victor Charlie a Pisa, e ancora dopo l’Isola nel Cantiere a Bologna, anche se a quel tempo noi non c’eravamo già più, che divenne poi un punto di cerniera tra la scena punk hardcore e quella hip hop dei primi anni ’90. A livello di pubblico, di fatto in Italia una scena hardcore non c’era.
Silvio: Rispetto ai concerti all’estero, non credere però che sia stato così facile, c’è stato un lavoro sottotraccia enorme. Il primo split degli Indigesti con i Wretched era stato un biglietto da visita importantissimo; Jello Biafra dei Dead Kennedys ci aveva definiti una delle cinque migliori band del mondo. Quindi il terreno era favorevole. Io avevo portato alcuni contatti raccolti suonando con i Declino in giro per l’Europa, e quindi abbiamo cominciato a proporci, consapevoli della nostra originalità. Di fatto noi eravamo molto diversi dai gruppi tedeschi e in generale europei; eravamo più articolati, più complessi, molto distanti per dire dai tre accordi del primo punk che “chiunque può suonare”, e che in Europa ancora era predominante. La complessità armonica e ritmica è proprio quella che contraddistingue l’hardcore rispetto al punk originale, e l’hardcore italiano in particolare. E poi, detto senza falsa modestia, c’erano delle canzoni che erano proprio belle. In America ci siamo arrivati dopo, a valle di due tour europei molto complessi, e se ci siamo riusciti è per un motivo che può sembrare incredibile oggi: gli Indigesti non andavano in televisione, erano di nicchia, ma avevano un pubblico anche e soprattutto negli Stati Uniti; magari non enorme, ma c’era. Con un po’ di coraggio, ce la si poteva fare. E alla fine abbiamo fatto 23 date in poco più di un mese di tour, 11 mila miglia di furgone… la tappa record, se non ricordo male, è stata di 38 ore di viaggio…
Rudy: Diciamo che in Europa la controcultura era più presente che in Italia, c’era una maggiore ricettività. Negli Stati Uniti, che sono un Paese enorme, uno spazio di azione in qualche modo si trova. E se posso aggiungere una cosa: noi negli States abbiamo fatto un unico tour; ma se avessimo avuto l’occasione di farne un secondo, con un promoter che ce ne avesse dato l’opportunità, sono sicuro che avremmo lasciato un segno ancora maggiore.

Foto: Vittorio Piaggi

Sono stati momenti memorabili, vero? Anche se non sempre così facili da vivere.
Silvio: Il fatto è che abbiamo frequentato ambienti a noi sconosciuti, che a volte erano anche pericolosi. Il problema della violenza ai concerti era diffuso, risse e accoltellamenti erano merce comune. Non è facile oggi spiegare il perché, ma era un fenomeno molto americano, la violenza si respirava nelle grandi città, bastava poco per farla esplodere. E a volte accadeva, ci è successo a Long Beach, a Detroit… come l’ho in parte raccontato nel mio libro I ragazzi del mucchio.
Rudy: Peraltro non era la prima volta che ci capitava, già a Berlino c’erano stati degli scontri di strada fuori dal SO36. D’altronde quello era un locale nel quartiere di Kreuzberg che ai tempi era la zona degli squat, con una scena anarchica che in pratica creava conflitti con le forze dell’ordine tutti i giorni. Quella volta dovettero addirittura usare gli idranti… e per farci uscire dovettero farci spazio tra i cavalli di frisia che avevano piazzato davanti al locale…

Qual è la cosa che ricordate con maggior piacere di quei tempi?
Rudy: Beh, sicuramente l’esperienza dei concerti, che è stata comunque una cosa meravigliosa. Avevamo l’adrenalina a mille, c’era gente che si buttava da tutte le parti, sopra e sotto il palco, l’energia era esplosiva. E soprattutto tipico dell’hardcore era questo rapporto stretto tra gruppo e pubblico, come in un rito condiviso: un’esperienza che rimarrà irripetibile.

Era una storia troppo bella per poter durare? Di fatto, nell’autunno del 1987 vi sciogliete.
Silvio: Sì, dopo il terzo tour europeo, e quando ormai buona parte di quello che avrebbe dovuto essere il secondo album degli Indigesti era pronto. Le cause sono molteplici.
Rudy: Io in estate non ero stato bene, ero finito in ospedale, e questo evento mi aveva lasciato il segno, non me la sentivo di tornare a suonare in giro.
Silvio: I tour negli Stati Uniti e in Europa erano stati tanto importanti quanto faticosi, e inevitabilmente è affiorata la stanchezza, fisica e soprattutto mentale. A un certo punto, se non è perfettamente oliata e organizzata, la routine disco-tour ti ammazza se non hai una struttura efficiente alle spalle. Devi avere un manager, una rete di promoter, un’etichetta discografica che può investire su di te, un gruppo di roadie, un tour manager affidabile, eccetera. Noi abbiamo avuto tutte queste figure, ma mai tutte insieme, e in più di un caso quasi senza risorse economiche alle spalle. Molti di quei ruoli li abbiamo svolti noi, io sono stato a lungo il tour manager del gruppo, ad esempio; ma a un certo punto hai bisogno di una squadra che lavora per te. Se no non ce la fai a trovarti le date in giro per il mondo, organizzare le trasferte, il merchandise, guidare il furgone, scaricarlo e poi trovare l’energia per fare quei concerti intensissimi e fulminanti che facevamo. A un certo punto sei costretto a dire basta.
Rudy: Anche solo le prove per me erano logisticamente faticose, a volte le facevamo a Biella, a volte a Torino… mi sono reso conto che non reggevo più lo sforzo.

Ok, quindi l’avventura finisce. Ma come spesso avviene in questi casi, dopo oltre 20 anni, nel 2012, arriva la reunion. Alla quale però Silvio non partecipa: come mai?
Silvio: Credo che ci siano due sole ragioni per riformare un gruppo. La prima è non aver riscosso ai tempi il successo meritato, e io credo che con gli Indigesti comunque siamo riusciti ad arrivare molto più lontano di quanto mai avessimo immaginato. La seconda è che, se c’è un’offerta economica così importante da poterti permettere di rifare in scala ancora più grande ciò che hai già fatto, allora si può pensare a una reunion che riattualizza una cosa messa su nel passato. Se non c’è, il rischio è quello di riformarsi soltanto per rifare peggio ciò che hai già fatto bene tanti anni prima. Allora è solo una questione nostalgica, e io sono sempre stato – e ancora sono – un tipo che guarda sempre avanti, anche nella piena consapevolezza del passato.
Rudy: L’entusiasmo c’era, la preparazione è andata benone, anche se forse, per forza di cose, non avevamo lo stesso spirito dei bei tempi; forse io stesso non ero convinto al 100%, chissà, e comunque l’assenza di Silvio un po’ ha pesato. Detto ciò, la reunion ha funzionato alla grande; ci siamo divertiti un sacco e abbiamo fatto dei concerti fenomenali, a livello dei nostri momenti migliori, come quello al Lo-fi a Milano, davanti a 3-400 persone, quello di Bologna, o quello dello United a Torino, che essendo un locale piccolo, da un centinaio di persone, ha consentito di esprimere un’energia spettacolare. Dopo un anno però ci siamo resi conto che non c’era evoluzione, non nascevano stimoli per fare cose nuove, e quindi, per evitare come dice Silvio di fare solo un’operazione nostalgica, ho chiuso anche questa esperienza.

Cosa fate adesso? Quanto è rimasta centrale la musica nelle vostre vite?
Silvio: Dopo gli Indigesti mi sono fermato un paio d’anni; poi ho formato un gruppo funk-rock, i Magnifica Scarlatti, insieme a Elvin Betty, che era stato uno dei batteristi dei Negazione. Abbiamo fatto un po’ di concerti, abbiamo vinto Arezzo Wave nel 1991, ma non abbiamo strappato nessun contratto discografico – eravamo troppo poco orecchiabili, in effetti – e alla fine il gruppo è morto di morte naturale. Dopo la laurea ho cominciato a lavorare come copywriter e a scrivere per me. Nel 2003 ho pubblicato la non fiction-novel I ragazzi del mucchio, dove ricostruivo in chiave romanzata le mie avventure in tour con Declino, Negazione e Indigesti, anche se in realtà era un racconto molto letterario sul tempo, sulla vita che va. Il libro ha avuto un certo successo e così ho cominciato a scrivere sulle pagine culturali de l’Unità e più avanti anche su Il Mucchio. Ho pubblicato altri libri, l’ultimo si intitola In yoga e anche questo per fortuna ha avuto un suo riscontro. Da più di 20 anni mi occupo di Hatha Yoga, lo insegno in una scuola che io stesso ho fondato.
Rudy: Devo dire che dopo tanti anni, proprio da poco mi sembra di aver ritrovato delle vere motivazioni con il mio nuovo progetto musicale, i Bultaco DC (il disco è appena stato pubblicato, nda). È una sorta di continuazione degli Indigesti con altre persone, e me lo sento davvero in pieno, per attitudine, spirito, voglia, entusiasmo. Spero davvero che possa avere una buona risonanza, anche se i tempi sono ovviamente cambiati. Io ci credo moltissimo.

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