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‘Incontro con gli dei’: l’intervista storica ai Led Zeppelin

Nel 1975, nel pieno del loro ultimo tour, Jimmy Page e Robert Plant invitano Rolling Stone ad andare in tour con loro, per dare un'occhiata nelle loro suite e vedere cos'è che fa volare i Led Zeppelin

Il bassista e tastierista dei Led Zeppelin, John Paul Jones, gioca a backgammon e intanto ascolta un talk show radiofonico su New York FM. A un certo punto, il conduttore dice: «L’altra sera ero in un club e qualcuno mi ha chiesto se volevo incontrare Jimmy Page. Sapete, al mondo non c’è nessuno che io abbia meno voglia di incontrare del disgustoso Jimmy Page». Jones molla il suo gioco. «Lasciatemi dire una cosa», continua il conduttore, «i Led Slime sono degli incapaci e sappiate che, se avete intenzione di andarli a vedere domani sera al Garden, quei buffoni vi stanno fregando. Non fatemi perdere tempo, se avete intenzione di chiamare per difendere i Led Slime, mettete la testa nel cesso e tirate lo sciacquone». Jones che normalmente è un tipo molto tranquillo, si alza e attraversa la stanza infuriato. Prende il telefono e chiama la radio. Il conduttore prende la chiamata. «Di cosa vuoi parlare?». «Led Zeppelin», risponde Jones calmo, con il suo accento britannico. La linea cade. Lo scambio di opinioni non va in onda. È la solita battaglia, secondo Jones.

Nonostante i Led Zeppelin abbiano venduto più di un milione di copie di ognuno dei loro cinque album e si stiano preparando per fare un tour che ci si aspetta diventi il più redditizio nella storia del rock, sono stati costantemente presi a calci nelle palle da ogni critico sulla faccia della Terra. «So che non serve a niente reagire», mi dice Jones, «volevo solo difendermi un’ultima volta».La sera dopo, nella prima di tre serate al Madison Square Garden, i Led Zeppelin fanno cadere il pubblico ai loro piedi con uno dei migliori concerti in sei anni di carriera. Guidati da un’intuizione di Page, a metà scaletta si lanciano anche in una versione improvvisata di Dazed and Confused che dura 20 minuti.La tensione verso un successo che rimane comunque incerto nonostante tutto è un elemento evidente e molto elettrico nella loro performance. «Non c’è dubbio», ha detto Plant entusiasta prima di uscire sul palco per il secondo bis, Communication Breakdown, «il tour è cominciato».

È passato molto tempo dall’ultima volta in cui i Led Zeppelin hanno fatto del rock&roll. Dopo 18 mesi passati a lavorare duramente al loro nuovo album Physical Graffiti, Page, Plant, Jones e il batterista John Bonham devono scaldarsi un po’: «Dobbiamo sentirci a posto», dice Plant, «c’è molta energia in questo tour, molto più che nell’ultimo». La prima data, il 18 gennaio al Minneapolis Sports Center, è andata bene, considerata la situazione. Una settimana fa Page si è chiuso accidentalmente la mano in una porta di un treno e si è rotto l’ultima falange dell’anulare sinistro. Manca solo una prova per perfezionare quella che ora Page chiama «la mia tecnica con tre dita» e la band ha dovuto eliminare a tempo indefinito dalla scaletta pezzi classici come Dazed and Confused e Since I’ve Been Loving You. Pastiglie di codeina e una bottiglia di Jack Daniel’s hanno aiutato Page a tenere sotto controllo il dolore fino alla fine di tre estenuanti ore di concerto. La sua reazione all’infortunio è una specie di muta disperazione: «Non ho dubbi sul fatto che il tour andrà bene, è solo che – dannazione – sono rammaricato di non poter fare tutto quello che so fare». Batte il pugno dolcemente contro il palmo della mano ferita: «Voglio sempre dare il meglio, è frustrante avere qualcosa che ti limita. Puoi scommetterci: Dazed and Confused tornerà in scaletta appena sarò pronto. Forse non saremo fantastici per qualche sera, ma saremo sempre bravi».



Il tour è andato avanti in modo soddisfacente con tre date al Chicago Stadium seguite da Cleveland e Indianapolis, poi a Plant è venuta la febbre. Il concerto di St. Louis è stato posticipato fino a metà febbraio e mentre Plant si è fermato per curarsi, la band è andata a Los Angeles per un giorno di pausa. La sosta ha fatto bene a Plant, e i concerti successivi a Greensboro, Detroit e Pittsburgh sono stati uno migliore dell’altro, aprendo la strada alla vittoria roboante di New York e alla prima esecuzione dal vivo di Dazed and Confused nel tour. «Non abbiamo avuto molto tempo», dice John Bonham con un tono un po’ triste, «la musica è stata la nostra principale preoccupazione».

Questa intervista con Page e Plant si è svolta nel corso di due settimane. Abbiamo iniziato davanti a una tazza di tè nella suite di Plant all’Ambassador Hotel di Chicago e abbiamo continuato tre giorni dopo nella camera di Page, che ha le tende chiuse per tenere fuori la luce. «È ancora mattina», dice rabbrividendo mentre si copre con una coperta seduto sul divano, «dobbiamo parlare per almeno tre ore, prima che io dica qualcosa che abbia un senso». La conversazione va avanti fino al tardo pomeriggio, quando scopro che Page preferisce la luce delle candele alla luce naturale. Un incontro con Plant qualche giorno dopo fornisce altro materiale e gli ultimi dettagli me li dà Page su un aereo diretto a New York. «In questo tour io e Page siamo più uniti che mai», mi dice Plant dopo il concerto a New York, «siamo praticamente fusi in una sola persona».

Robert Plant. Foto di Jeffrey Mayer/WireImage)


I media non hanno riconosciuto la popolarità dei Led Zeppelin fino all’ultimo tour americano del 1973.
Plant: «Abbiamo deciso di affidarci per la prima volta a un’agenzia di comunicazione dopo il tour in America dell’estate del 1973. Era la stessa estate in cui qui c’erano anche gli Stones. Sapevamo che stavamo andando meglio di loro. Facevamo molti più incassi di altre band che venivano glorificate molto più di noi, quindi senza voler essere troppo egocentrici abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di dire alla gente qualcosa di noi, qualcosa di diverso dalle leggende secondo cui mangiamo le donne e poi gettiamo le loro ossa fuori dalla finestra. Sembrava che tutti sapessero qualcosa di noi, ma erano solo voci che giravano. Tutta quella follia era ok, ma noi non siamo e non siamo mai stati dei mostri. Siamo dei ragazzi a cui piace divertirsi, amati dai fan e odiati dai critici».

Vi sentite in competizione con gli Stones?
Page: «No, assolutamente. Gli Stones sono grandi e sono sempre stati grandi, i testi di Jagger sono fantastici, sempre dritti al punto. So che veniamo sempre considerati la più grande rock band del mondo, ma io non ci penso mai. È una competizione che non esiste. Il punto è chi fa buona musica e chi no, e chi è riuscito a mantenersi con quello che fa».

Arrivati a questo punto, qual è la vostra motivazione?
Page: «Adoro suonare. Se la questione fosse tutta lì sarebbe una specie di utopia. Ma non lo è. È aeroplani, limousine e guardie armate davanti alla porta delle nostre stanze in hotel. Non mi piace, ma è il prezzo che sono disposto a pagare per continuare a suonare. Negli ultimi 18 mesi, in cui ci siamo fermati e poi abbiamo lavorato al nuovo album, ero molto irrequieto».
Plant: «Io vivo una sorta di costante conflitto interiore. Mi piace molto la mia vita a casa: gioco a calcio nella mia piccola squadra, partecipo alle attività del quartiere, faccio quello che fanno le persone normali. Ma sono sempre pensieroso e malinconico, in preda a una sensazione che non riesco mai a eliminare: mi manca la band. Devo sempre chiamare Jimmy per tranquillizzarmi. L’altra sera, quando abbiamo ricominciato a suonare, avevo il sorriso più grande del mondo stampato in faccia».

Jimmy, cosa dici delle voci secondo cui stai facendo un disco solista?
Page: «È tutta colpa di Keith Richards e del suo senso dell’umorismo. Ho solo fatto quello che potrebbe essere il prossimo B-side degli Stones: una canzone intitolata Scarlet fatta da me, Keith, Ric Grech e un batterista di cui non ricordo il nome. È simile come atmosfera e come stile ai pezzi di Blonde on Blonde di Bob Dylan. L’abbiamo provata tutta la notte e poi siamo andati negli studi della Island Records, dove Keith ha aggiunto delle chitarre reggae. Io ho fatto un assolo, erano ormai le otto del mattino. Keith ha portato i nastri in Svizzera, qualcuno lo ha saputo e lui ha detto che era una canzone per il mio prossimo album solista. Non ho bisogno di fare un album da solo. C’è una chimica così forte nei Led Zeppelin che nessuno di noi si sente frustrato al punto di voler fare il suo disco. Non sono come Pete Townshend, che dice a tutti esattamente quello che devono suonare. In fondo, una band è una band, giusto?».

Siete riusciti ad andare avanti rimanendo impassibili in mezzo alle critiche, soprattutto agli inizi della vostra carriera. Quanto credete in voi stessi?
Page: «Forse non credo molto in me stesso, ma credo in quello che sto facendo. So dove sto andando musicalmente, vedo il mio percorso e so che sto andando più lentamente di quanto pensassi. Posso dirti che so anche quanto posso andare ancora avanti, e l’unica cosa che posso fare è continuare a suonare. Può sembrare strano quando pensi che ci sono artisti come John McLaughlin, uno che sembra suonare in un’altra dimensione. Forse è un po’ come la favola della lepre e della tartaruga. Non sono un chitarrista tecnico, prendo la chitarra e suono. Non ho tecnica, io mi occupo di emozioni. L’armonia è molto importante per me, ecco il punto in cui pensavo di poter migliorare. Devo continuare, ci sono così tanti stili e forme d’arte diverse dentro la chitarra: flamenco, jazz, rock, blues. Dimmene una e c’è. All’inizio il mio sogno era riuscire a fonderli tutti insieme, adesso la composizione musicale è diventata altrettanto importante. Inoltre credo che sia arrivato il momento di viaggiare, fare esperienze sul campo con musicisti di strada marocchini o indiani… Non sarebbe male viaggiare un po’ quest’anno. Non so cosa ne pensano gli altri, ma questa è la direzione che sto prendendo ora. Questa settimana sono uno zingaro, magari la settimana prossima sarò glitter rock».

Cosa credi che potresti guadagnare da questi viaggi?
Page: «Stai scherzando? Hai idea di cosa vuol dire sedersi a suonare con un musicista marocchino, come uomo e come musicista? È così che si cresce, non certo vivendo così. Ordinando dal servizio in camera in hotel. Bisogna stare esattamente dall’altra parte. Voglio che la situazione si sbilanci tutta da quella parte, fino a ritrovarmi da solo con il mio strumento e niente altro. Tanto tempo fa viaggiavo così, con una chitarra e basta, non c’è motivo per cui non debba farlo ancora. C’è sempre questo problema del tempo. Non si può comprare il tempo. È tutta una corsa contro il tempo, soprattutto nella musica. So cosa voglio ottenere, e non ho molto tempo. Mi era anche venuta l’idea di prendere un furgone di quelli che si aprono di lato e andarmene in giro per l’Inghilterra. Ti sembrerà una follia, ma in quella situazione così rurale si può fare. Apri il furgone e suoni con un mixer, un amplificatore e un grosso generatore. Puoi farlo per un po’ di tempo o in modo stabile. Mi piacciono i cambiamenti e mi piacciono i contrasti, non mi piace rimanere bloccato in una sola situazione un giorno dopo l’altro. La vita domestica non fa per me e neanche stare in questo hotel per una settimana. Mi parte la febbre del tour ed è lì che cominciano i danni. Ma non sono ancora arrivato a quel punto. Finora sono stato tranquillo, ma attenzione, il tour è iniziato solo da una settimana».

Ricordate il vostro primo tour in America?
Plant: «Avevo 19 anni ed ero innocente e naïf, certo che me lo ricordo! È passato molto tempo, oggi stiamo in albergo a leggere Nietzsche. C’era da divertirsi molto e c’erano anche molte più persone con cui spassarsela. Gli Stati Uniti erano più divertenti e Los Angeles era Los Angeles. La L.A. di adesso, infestata da 12enni sbandati, non è quella che piace a me. È la prima città americana che ho visitato, il primo posto in cui ho visto un poliziotto con la pistola e una macchina lunga sei metri. Era pieno di gente divertente, ci hanno accolto tutti calorosamente, siamo partiti con una botta di divertimento ed energia positiva. Ci tiravamo le uova da un piano all’altro dell’hotel, facevamo battaglie con i gavettoni, tutte quelle cose stupide che tutti i 19enni dovrebbero fare. Sono stati i primi passi per imparare cosa vuol dire essere folli. Molte delle persone che abbiamo conosciuto al tempo sono ancora con noi, altre sono sparite, qualcuno è morto di overdose, qualcuno è semplicemente cresciuto. Io non vedo la ragione per cui si debba crescere».

Sembri davvero sconfortato al pensiero.
Plant: «Beh, sì, lo sono. Non ho mai perso la mia innocenza, faccio sempre finta che non sia così. Sì, è un peccato. È anche un peccato vedere tutte queste ragazze giovani che si incasinano la vita per cercare di competere con le groupie dei vecchi tempi, le GTO e tutte le altre. Noi abbiamo nostalgia di loro e bei ricordi quanti loro ne hanno di noi. Adesso è una vergogna. C’è un pezzo su Physical Graffiti, intitolato Sick Again, in cui dico quanto mi dispiace per loro: “Tieni strette le pagine del tuo sogno adolescenziale nella lobby dell’Hotel Paradise / Nel circo delle regine di L.A. imparerai presto qual è la strada che porta verso il basso”. Hanno 12 anni, un attimo dopo ne hanno 13 e sono già oltre il limite. È una vergogna, non hanno lo stile che avevano le ragazze ai vecchi tempi, nel 1968. Non che non mi piaccia, ma la prendo sul ridere. È divertente. Mi manca tutto il casino. La corsa sfrenata dalle topaie agli hotel di lusso. È stato divertente, dallo Shadow Box Motel dove sette anni fa sono crollate le pareti durante la notte, all’Hotel Plaza di New York in cui il procuratore generale, che dormiva un piano sopra al mio, si lamentava perché ascoltavo i dischi dei Little Feat a volume troppo alto».

John Paul Jones, John Bonham, Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin, New York, 24 luglio 1973. © Bob Gruen

Quanto è stato difficile pubblicare il primo album dei Led Zeppelin?
Page: «È stato molto veloce. Lo abbiamo registrato subito dopo aver formato la band, le uniche prove che avevamo fatto insieme erano le due settimane di tour in Scandinavia, quando ci chiamavamo ancora The New Yardbirds. Per la scelta del materiale abbiamo scavato nelle nostre radici blues, ovviamente. Avevo anche un sacco di riff degli Yardbirds da parte. Quando Jeff Beck se n’è andato, il compito di comporre è passato a me. Clapton aveva creato un precedente piuttosto importante negli Yardbirds, Beck l’ha portato avanti, poi sono arrivato io ed era ancora più difficile, perché ero il secondo chitarrista che improvvisamente era diventato il primo. Ero sotto pressione, dovevo tirare fuori dei riff. Quindi nel primo album ero ancora profondamente influenzato dagli anni degli esordi, e credo che si senta. Lo abbiamo registrato in tre settimane, era ovvio che qualcuno dovesse prendere il controllo della situazione, altrimenti saremmo rimasti lì a improvvisare e a non combinare niente per mesi. Nel secondo album, invece, si sente l’identità della band».
Plant: «Con il primo album io ho scoperto le cuffie, prima non sapevo neanche cosa fossero. Quello che ci sentivo dentro mentre cantavo era meglio della ragazza più bella del mondo. Era pesante, potente, era devastante. Dovevo ancora migliorare molto come cantante, ma si sente l’entusiasmo di lavorare con la chitarra di Jimmy. Al tempo eravamo molto sfacciati e quello è diventato il nostro marchio di fabbrica. Stavamo imparando cosa piaceva a noi e al pubblico e il risultato erano sempre più ragazze che venivano nel nostro albergo dopo i concerti. Con il primo tour non abbiamo guadagnato niente. Neanche un centesimo. Jimmy aveva investito tutti i soldi che aveva messo da parte con gli Yardbirds, fino all’ultimo penny. Non erano molti, perché fino a quando non è arrivato Peter Grant a gestire i loro affari non hanno fatto i soldi che avrebbero potuto fare. Abbiamo registrato il disco e poi siamo partiti in tour con una crew composta da una sola persona».

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