Il ritorno in Mongolia di Massimo Zamboni | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Il ritorno in Mongolia di Massimo Zamboni

Quasi 25 anni dopo ‘Tabula Rasa Elettrificata’, il chitarrista dei C.S.I. è tornato nel Paese asiatico, questa volta con la figlia. Il viaggio gli ha ispirato un documentario, un disco, un libro. E gli ha insegnato che «l’altrove è dentro di noi»

Foto: Paolo Degan

Nel 1996 Massimo Zamboni parte con la moglie Daniela e Giovanni Lindo Ferretti per un viaggio in Mongolia al seguito di una troupe televisiva locale. Da quell’esperienza nasceranno un disco, quel Tabula Rasa Elettrificata dei CSI che nel ’97 raggiunse la vetta della classifica degli album più venduti in Italia, e una promessa di vita: esplorando l’antica terra resa immortale dalle gesta di Gengis Khan, attraversata da Marco Polo, conquistata dalla Russia sovietica, il chitarrista Zamboni, classe ’57, avverte per la prima volta il desiderio di paternità che lo condurrà al concepimento di sua figlia Caterina Zamboni Russia.

Sarà quest’ultima, nel 2016, in vista del suo 18esimo compleanno, a chiedergli di portarla in Mongolia con la madre. A spingerla, una suggestione: alla sua nascita le era apparsa sulla pelle una voglia bluastra, una macchia nella zona del coccige destinata a scomparire presto e definita in gergo medico “mongolica”, comune alla quasi totalità dei neonati mongoli e a poche altre persone al mondo. Una coincidenza o qualcosa di più?

Attorno a quel segno – simbolo di appartenenza a due mondi, l’Emilia dei padri e la Mongolia del desiderio – si sviluppa il nuovo progetto di Zamboni: La macchia mongolica è un documentario diretto da Piergiorgio Casotti, un album pensato come una colonna sonora in 13 tracce quasi interamente strumentali da lui composte e suonate con Cristiano Roversi e Simone Beneventi, e un libro edito da Baldini+Castoldi, scritto dallo stesso Zamboni e arricchito dalla testimonianza della stessa Caterina. Al centro il tema del viaggio come trasformazione interiore e “scoperta dell’Altrove che c’è in noi”. «Fatico, ormai, a concentrarmi su un’unica forma di espressione», dice Zamboni, «perché mi rendo conto di quanta musica contengano le parole e di quanta letteratura, quanto pensiero scritto, contengano i brani musicali. La forma del film è quella che forse, attraverso le immagini, corona tutto quanto».

Steppe, montagne, deserti, paesaggi sterminati: il documentario ci mette al cospetto della bellezza mozzafiato della Mongolia, terra che accosti alla tua Emilia.
Sai, quando si è lontani si ha comunque sempre bisogno di tenere un piede anche a casa. Lo sradicamento e lo spiazzamento totali, quel dedicarsi completamente all’altro rischiano sempre di contenere una percentuale di esotismo che falsa la prospettiva. Invece a me piace sapere da dove sono partito, dove tornerò e dove andrà a finire il bagaglio che mi porto dentro. Concepisco il viaggio come qualcosa che mi serve per arricchire la mia vita quotidiana, non voglio si tratti solo di una parentesi o di un’evasione.

Foto: Caterina Zamboni Russia

In questo caso parli di un’identità lacerata: da un lato l’Emilia dove sei cresciuto e dove vivi, dall’altro la Mongolia che visitasti negli anni ’90 e che tramite una macchia sul corpo di tua figlia ti ha richiamato a sé. È ciò che definisci “l’Altrove che c’è in noi”.
Sì, perché noi abbiamo un’idea della nostra identità personale compiuta, limitata e circoscritta, e questo in un certo senso ci sorregge, ci fa stare in piedi, ha una funzione. Peccato che basti allontanarsi dai luoghi cui quell’identità è legata per rendersi conto di quanto in fondo sia un’impostura, di come ci creiamo l’identità a nostra immagine e somiglianza senza tenere conto del passare dei secoli, delle complicazioni, delle invasioni barbariche, delle ritorsioni, degli incroci impossibili. In realtà non sappiamo nulla di ciò che ci costituisce, ne abbiamo solo una vaga percezione e quando si manifesta è una sorpresa, com’è avvenuto nel caso della macchia mongolica spuntata sul corpo di mia figlia quando è nata: un segnale che puoi decidere di accogliere, d’ingrandire e che può far scattare un ragionamento.

Tu e tua moglie quel segnale non l’avete lasciato disperdere, anzi, con Caterina vi siete messi sulle sue tracce. Eppure il rapporto tra gli emiliani e la loro terra sembra fortemente identitario.
Già, e le elezioni regionali di domenica scorsa hanno mostrato ancora di più il carattere profondo dell’Emilia, quella capace di scendere in piazza, quella che vuole tenere in mano la propria sorte. Negli ultimi 100-120 anni di storia gli emiliani si sono contraddistinti per aver partecipato ai fatti del mondo, erano contadini che non conoscevano neppure la città di Reggio Emilia, eppure sapevano perfettamente cosa accadeva a tremila chilometri di distanza, in Unione Sovietica. Non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi, ma quel che avveniva là parlava anche per loro. Tutto ciò ha reso quello emiliano un popolo sanguigno, difficile da tenere schiacciato, e in questo, sì, mi ci ritrovo.

Poi ecco, però, che una voglia bluastra sull’epidermide di una neonata scombina le carte: che effetto ti fece venire a sapere che si trattava di una macchia mongolica?
Beh, quando nasce un bambino non hai il tempo di fare null’altro che stringerlo a te e cercare di non cadere a pezzi: è un evento che colpisce molto e che metti in un angolo per tornare a rifletterci su in tempi più quieti, più calmi. Lo stesso è valso per noi: della macchia mongolica abbiamo saputo subito, ma è rimasta silente per un buon numero di anni, finché si è fatta largo, ha catturato l’immaginazione di Caterina, è diventata uno dei suoi assilli, dei suoi bisogni di sapere. Ci ha chiesto di accompagnarla in Mongolia perché voleva capirne di più.

Perché proprio in Mongolia, tempo addietro, tu e tua moglie avevate concepito per la prima volta l’idea di avere un figlio. Hai capito come mai?
Vedi, noi viviamo in un mondo che è l’unico che abbiamo e che in fin dei conti io amo, anche se ci litigo tutti i giorni perché osservo quanto sia portatore di disagio, di scompensi. Nel ’96 la Mongolia allineò questi scompensi: vedere così tanti bambini non dico sereni – altrimenti sembra la favola del buon selvaggio –, ma naturalmente capaci di vivere in condizioni disagiate e di accettarle ci colpì nel profondo, ci fece comprendere che, al di là di tutte le sovrastrutture, la genitorialità era una dimensione che potevamo praticare anche noi.

Oggi siamo nel paradosso di una civiltà incentrata sull’istituzione della famiglia, ma portatrice di pressioni economiche e sociali che spesso allontanano dall’idea di fare figli.
Ci sono troppi stimoli, troppe tentazioni che non lasciano il tempo di pensare che quell’idea sia realizzabile. Se a questo si aggiungono le difficoltà economiche concrete e sempre più diffuse… In più la famiglia è di frequente un’associazione a delinquere, un nucleo isolato dove si pratica violenza in forme sia evidenti sia sottili, e questo fa sì che possano innescarsi dei meccanismi di rigetto: a me, con la mia famiglia di provenienza, è successo questo; sono scappato via, non potevo fare altro, per poi recuperarla in seguito.

Foto: Caterina Zamboni Russia

Tornando al viaggio in Mongolia, affermi che “l’Altrove che sta dentro di noi” ci insegna anche che l’altro non esiste.
Sì, perché quando sei disponibile a riconoscere che l’altrove è dentro di noi e ci costituisce, allora l’altro non c’è più, l’altro è uguale a te, è uno specchio. Per quanto siamo tutti diversi gli uni dagli altri, emiliani e mongoli in particolare, ci sono delle rispondenze che ti legano, ti incatenano, che non puoi sconfessare.

Tanti non vi prestano attenzione.
A me piace scavare, da questo punto di vista sarei un buon minatore. Amo di più i viaggi in profondità che quelli di superficie, di estensione: tante volte mi accanisco su un punto e mi ci immergo fino in fondo. Feci lo stesso con un viaggio microscopico come quello in zattera sul Po con Vasco Brondi. Sono cose che racchiudono nuclei di verità e di mistero.

È il viaggiare verticale contrapposto a quello orizzontale, ossia alla modalità turistica del viaggiare.
Modalità sacrosanta per chi lavora tutti i giorni e non vede l’ora di tirare una boccata d’aria, non giudico né critico. Ma insomma, noi esistiamo, abbiamo bisogno di comprendere, di ragionare, e per questo bastano due o tre viaggi nella vita. Io, poi, adoro ripercorrere le stesse tappe a distanza di anni, non è un caso che torni spesso a Berlino (dove nel 1981 conobbe Ferretti, con cui avrebbe poi fondato i CCCP, nda), che stia pensando di tornare una volta ancora a Mostar: sono esperienze che mi aiutano a capire sempre meglio quel che è stato.

Invece c’è la tendenza a porre una crocetta sui Paesi visitati e a non tornarci più.
Sa un po’ di conquista, di espansione: pianto tante bandierine in giro per il mondo e il mondo è mio. È ridicolo, perché in realtà tante volte nemmeno casa nostra è casa nostra: non sappiamo nulla. 

Tu che differenze hai notato tra la Mongolia del ’96 e quella odierna?
Oggi Ulan Bator è la capitale di Stato più inquinata del mondo, 24 anni fa non lo era. In compenso, visto che molti sono andati a vivere in città, tutte le zone spopolate lo sono diventate ancora di più, quindi clamorosamente c’è ancora più spazio di quanto ce ne fosse prima. Un’altra differenza sono i cellulari, in questo momento i mongoli sono parecchio tecnologici. Personalmente li ho trovati indifesi di fronte alla modernità: quest’ultima per noi si è scatenata nel giro di 50 anni, tempo di per sé già brevissimo per la capacità umana di adattamento; là ne hanno avuto ancora meno e questo li rende fragili e facilmente propensi ad abboccare all’amo. Tant’è che la maggior parte della popolazione che abita attorno a Ulan Bator vive male, in baracche, non ha lavoro, razzola nei rifiuti aspettando il turno di entrare in un paradiso che non vedrà mai. Chi ha avuto il coraggio di rimanere fuori con delle mandrie è decisamente più ricco, anche economicamente. 

Dove sta l’equivoco?
L’equivoco è lo stesso che abbiamo subito noi. Guardando l’Italia dall’alto ci si rende conto di quanta terra disabitata ci sia, bellissima e praticabile, e ti domandi come mai tutti vogliano vivere in città, tanto più che oggi disponiamo di tecnologie che consentono di abitare più tranquillamente di un tempo ovunque. Probabilmente l’ansia impedisce uno sguardo lucido.

Foto: Caterina Zamboni Russia

Tu hai scelto di vivere in montagna, tra i boschi dell’Appennino. In questo, e per il vostro continuo ricercare qualcosa che sta oltre il qui e ora, tu e Ferretti non siete così distanti.
Non saprei, difficile da dire… Diciamo che la cosa che ci allontana sul serio sono i 40 chilometri che separano le nostre case.

Chilometri che non percorrete per raggiungervi.
Nel libro c’è scritto che le montagne non s’incontrano e che forse noi siamo montagne…

Però il libro parte proprio dal racconto del viaggio in Mongolia con Ferretti: 24 anni dopo come lo ricordi?
Come una svolta della mia vita, sia artistica sia personale. Se per me e mia moglie quel viaggio coincise con il desiderio di diventare genitori, per me e Giovanni rappresentò la realizzazione di un sogno, per i CSI un momento di massima esposizione pubblica. 

Vedi un nesso tra il successo di Tabula rasa elettrificata e la magia che vi portaste dietro dalla Mongolia?
Il fascino che la Mongolia ha su noi occidentali indubbiamente aiutò, ma sono convinto che quel successo fu semplicemente il frutto del lavoro portato avanti fino a quel momento, prima con le storie incrociate di CCCP e Litfiba, poi con dischi, concerti, e con la creazione del Consorzio Suonatori Indipendenti. Si era creata un’aspettativa. Non voglio dire che qualunque cosa avessimo fatto al posto di Tabula rasa avrebbe riscosso il medesimo successo, ma potrebbe anche essere così: ai tempi sentivamo che qualcosa stava per accadere ancora prima che il disco uscisse.

Quando sei tornato in Mongolia lo hai riascoltato?
Sì, si adattava perfettamente al panorama. E per me quando una musica raccoglie un panorama è al massimo della sua espressione.

Volevi ottenere questo con l’album La macchia mongolica? Dentro si rincorrono trame sonore ipnotiche, l’atmosfera è come sospesa.
Volevo evocare la Mongolia con il suono e l’immaginazione. Volevo cantare un paesaggio come fanno gli stessi mongoli, in grado, con il canto e la musica, di descrivere una montagna. È difficile per un europeo fare lo stesso senza ricorrere alle parole, io ho voluto provarci, ho cercato di recuperare quell’attitudine musicando gli ambienti che avevo davanti agli occhi con il suono, molto più che con la partitura. In attesa di un altro disco su cui sto già lavorando e che, invece, sarà tutto cantato e tutto di canzoni. 

Mentre qui canti solo in Lunghe d’ombre. E tra l’altro nel libro confessi che essere un cantante ti imbarazza: in che senso?
Ho avuto dei disagi educativi che per 20 anni mi hanno tenuto lontano dalla mia voce facendomi vivere in una sorta di mutismo. Poi, pian piano, ho percorso a tappe forzate un avvicinamento graduale alla mia capacità di esprimermi, ma ancora adesso constato di non essere capace di cantare di mia iniziativa, di avere l’esigenza di qualcuno che mi assegni quel ruolo, di un palco, di un microfono, di una richiesta esplicita. Probabilmente mi si adatta di più la scrittura, però non può bastare, sento lo stimolo di sforzarmi in più ambiti. Sai, quando vivi in montagna o in campagna diventi contadino nel vero senso della parola: vuoi che le cose che fai si sviluppino, se metti una pianta nell’orto la vuoi vedere crescere fino alla fine del suo ciclo.

Foto: Piergiorgio Casotti

A un certo punto tua figlia Caterina decide di tornare in Mongolia da sola, come racconta nell’ultima parte del libro. Non si può non notare che ti assomiglia molto, del resto tu stesso dici che in assenza di specchi puoi specchiarti in lei.
È vero. Siamo abituati a controllare di continuo la nostra immagine allo specchio per vedere se assomigliamo a quel che pensiamo di noi, mentre durante il viaggio in Mongolia non avevamo occasioni per specchiarci e quando è così nel momento in cui ti riguardi scatta sempre una sorpresa: io, per esempio, in quei frangenti mi rendo conto di quanto abbia i tratti somatici della mia famiglia paterna, un po’ come quando vedi una persona dopo un po’ di tempo e di colpo hai la percezione esatta dei suoi lineamenti.

In tutto ciò Caterina come l’hai educata? Sembrate affini, unitissimi: nel documentario c’è un momento molto dolce in cui vi abbracciate a lungo.
È stato strano per noi tenere quella scena che non è altro che vita, ci imbarazza, però avevamo deciso di metterci in gioco, era giusto lasciarla. Quanto all’educazione, nel rapporto con un figlio le contingenze del quotidiano fanno sì che per un periodo ciò che emerge di te sia quel tuo agire meccanico e inconsapevole indotto da una catena famigliare che tenti di controllare senza successo, tra il lavoro, il cambio di un pannolino, le urla, i parenti e tutto il resto. Solo col tempo, man mano, realizzi che nonostante tutto la crescita di quel figlio ha seguito una linea precisa che si può chiamare educazione. Nel mio caso un’educazione basata sull’esempio: sì, l’esempio è assolutamente fondamentale, così come la capacità di non smorzare i sogni dei figli, qualsiasi essi siano, anche quando implicano dei pericoli. Penso all’idea di Caterina di tornare da sola in Mongolia, è stata un mese in un monastero: se decidi di contrastare una cosa del genere hai chiuso un rapporto. Ogni figlio porta in sé una percentuale di crollo possibile che è qualcosa d’insostenibile per un genitore, ma che non si può fare altro che accettare.

Prossimamente La macchia mongolica diventerà un tour, è vero che girerai a bordo di un furgone sovietico Uaz come quello usato in Mongolia?
No, ci sarebbe il problema del carburante. In realtà sto cercando di organizzare una serie di spettacoli dentro a una gher, una tenda mongola. Si tratterebbe di concerti riservati a 20-25 persone per volta e dato che in quel genere di abitazioni la porta d’ingresso è piuttosto bassa, per entrare dovremo inchinarci tutti, me compreso: sarebbe molto bello. 

Foto: Piergiorgio Casotti

Leggi altro