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Il ritorno del Marcio

Intervista a un uomo saggio in un mondo marcio: l'album 'Magico', l'importanza di fregarsene di ciò che la gente pensa, gli psicofarmaci, le lezioni che s’imparano quando cadi e ti rialzi

Il ritorno del Marcio

Mondo Marcio

Foto press

Il ritorno di Mondo Marcio, che pubblicherà il nuovo album Magico il 7 ottobre, è anticipato da un cosiddetto motivational video diffuso sui suoi social. «Non andarci piano, non essere timido, non hai tempo per farlo. La candela non sai quanto a lungo brucia», dice tra le altre cose. Qualcuno penserà che si tratta di un riferimento alla sua carriera musicale, cominciata nel 2004 con le prime autoproduzioni – aveva appena 17 anni – e coronata nel 2006 con la pubblicazione di Solo un uomo, che lo rese il primo rapper italiano del nuovo millennio ad essere messo sotto contratto da una major e a sperimentare il successo di massa. Nonché il primo a rischiare di essere triturato da un meccanismo che, abituato a sfornare fenomeni pop in serie, non aveva grande dimestichezza con i prodotti hip hop. (Per la cronaca: dopo due album in major deciderà di aprire una sua etichetta e continuerà a fare musica da indipendente, con minori riscontri in termini di pubblico e classifica, ma con un affezionatissimo zoccolo duro di fan che lo segue ininterrottamente dagli esordi).

In realtà, Magico è molto più legato alla sfera personale che a quella professionale. «Parla del tenersi stretti la propria magia interiore», ci racconta in uno degli ultimi pomeriggi di sole milanesi. «Scrivere questo disco mi ha insegnato ad apprezzare di più le piccole cose, e a esercitare la gratitudine, una cosa che quando sei ambizioso come me tendi a non considerare neanche».

Come mai hai scelto proprio questo concept?
Per me era un po’ come chiudere un cerchio. Ho cercato di esprimerlo anche nella copertina dell’album: il ragazzo in cameretta rappresenta ciò che ero, un giovanissimo rapper con un alter ego artistico che lo ha fatto uscire dal tunnel in cui era intrappolato, ma è anche chiunque abbia bisogno di evadere da una situazione traumatica o difficile. Credo sia importante avere delle aspirazioni, è una fiammella che ti tiene vivo. Devi fare quello che ami, fregandotene di ciò che la gente pensa di te. Ormai siamo totalmente condizionati dal giudizio altrui, faremmo di tutti per integrarci ed essere accettati (anche dal pubblico), e non va bene.

Da giovanissimo rapper sei stato un apripista per l’hip hop italiano in major, ma allo stesso tempo il mercato ti ha trattato un po’ come un teen idol, cercando di cucirti addosso un vestito che ti stava stretto per poi accantonarti e passare al successivo. Come l’hai vissuta?
All’inizio avevo poco controllo della mia carriera, ma è normale: avevo 18/20 anni, e oltretutto non c’era una case history precedente alla mia, in termini di rapper. Era come essere i primi cowboy che si affacciavano sulla collina: qualche freccia vagante ci doveva colpire per forza prima o poi, era inevitabile. Come l’ho vissuta? Bene e male, perché seguire la mia strada è stato sia ciò che mi ha messo in difficoltà, sia ciò che mi ha poi salvato. È un po’ lo stesso concetto che cerco di esprimere in Magico: è importante lasciare perdere i pareri altrui, mettere una sorta di paraocchi – un termine che in questo caso uso con un’accezione positiva – e andare avanti. In pezzi come Mezzanotte o Allo specchio racconto di come la soluzione ai problemi vada cercata dentro di noi, e non fuori. Gli ultimi due anni, per me, sono stati di introspezione forzata: ho dovuto prendermi seriamente cura della mia salute mentale, e prendere psicofarmaci per la prima volta non è stata esattamente una passeggiata. Ne parlo apertamente perché sento sempre più persone che stanno vivendo la stessa cosa: questo periodo ha messo a dura prova tutti.

La crisi a cosa era dovuta? Ai disagi della pandemia?
Quelli erano solo la cornice del mio, di disagio. Ci sono state varie vicende personali che mi hanno creato uno stress emotivo molto alto. L’ho raccontato in un EP che ho pubblicato nel 2021, My Beautiful Body Break Up. Diciamo che c’era un grande senso di claustrofobia: non potevo viaggiare, lavorare, stare con la persona con cui volevo stare… Mi sentivo le mani tranciate, più che legate. Però tutto questo mi è servito a crescere. Ho capito che per essere davvero libero devo cercare di lasciare andare l’ego, il costrutto artificiale che ci creiamo in base agli input che riceviamo dalla società. Non si può cancellare, soprattutto quando si parla di artisti, che hanno anche un alter ego, oltre che un ego normale, ma sto imparando ad accenderlo e spegnerlo nei momenti giusti.

A proposito di introspezione, nell’album parli molto spesso di Dio, un concetto molto presente negli album di rap americano, ma quasi assente in quelli dei tuoi colleghi italiani…
Non è questione di religione in sé: non sono praticante e a ben guardare non mi sento neanche cristiano in senso stretto. Ho molto rispetto per chi lo è, ma nella mia esperienza i dogmi creano separazione, e in un momento in cui tutto è già frammentato e polarizzato non credo che servano. Se parlo di Dio è perché è un modo di parlare a me stesso: la spiritualità è dentro di noi, ed è un continuo braccio di ferro tra paradiso e inferno, che in fondo non sono altro che stati mentali.

Insomma, se ho ben capito Magico è un album che mostra poco i muscoli ma dà grande spazio alla vulnerabilità.
È stata una scelta obbligata, perché volevo fare qualcosa che mi rappresentasse. Mi piace fare pezzi tecnici e da battaglia come Show Off, così come mi piace fare pezzi più giocosi, come Senza veli o Bambola voodoo, ma ho la sana ambizione di fare musica che resti, e non semplicemente musica orecchiabile e trendy. Per farti battere il cuore devo parlare di ciò che fa battere il cuore a me. Più una cosa è personale, più è universale.

Citavi Senza veli, una traccia in cui racconti nel dettaglio un incontro hot: potrebbe risultare fin troppo grafica, ma è sdrammatizzata da un flow scherzoso e da un beat altrettanto ironico…
Affrontare la giornata con un sorriso è necessario, quindi sì, mi piace sdrammatizzare, fare uscire la mia parte bambina. Il sesso è istintivo, viscerale, organico, e giocarci mi ha sempre divertito. Ogni tanto devi dare all’ascoltatore un po’ di respiro, soprattutto in album in cui gli chiedi continuamente di fare un’autoanalisi. In generale, in tutte le tracce dell’album, ho imparato a dare al pubblico quello che vuole: da me ci si aspetta certe cose e, se in passato me ne fregavo un po’ e cercavo di fare sempre e solo ciò che mi incuriosiva di più, ho capito che è bello rafforzare il legame che ho con i fan. Ho la responsabilità di portare avanti la conversazione per la quale si sono interessati a me inizialmente.

Hai da sempre una fanbase molto affezionata. Chi è il tuo pubblico oggi?
Forse non è una risposta così sorprendente, ma sono persone molto simili a me, in termini di esperienze di vita. Ragazze e ragazzi che hanno avuto parecchie difficoltà, e le hanno superate con le loro forze. Sono caduti e si sono rialzati. Tanti di loro hanno avuto problemi familiari; altri arrivano da famiglie normalissime, ma hanno dovuto guadagnarsi tutto ciò che hanno lottando con le unghie e con i denti. Sono molto grato a tutti loro.

A proposito di difficoltà familiari, colpisce molto il fatto che in una traccia dell’album, Marcio non farlo, tu parli ancora del traumatico divorzio dei tuoi genitori, come facevi nei tuoi brani degli inizi come Tieni duro o Dentro alla scatola. Di solito si immagina che un uomo adulto sia ormai riuscito ad archiviare la pratica…
Per me è una questione di onestà, di tenerlo vero, come dicevamo nel rap di una volta. I nostri demoni non ci abbandonano mai, impariamo solo a conviverci. È una cosa che non mi tocca più, ma non per questo posso comportarmi come se non fosse mai successa. E credo sia interessante, per chi mi ascolta, vedere come la prospettiva è cambiata nel tempo: può anche essere una fonte di speranza. Se pensi a come ne parlavo a 16 anni, con tutta la rabbia e il rancore del caso, c’è un abisso rispetto ad adesso, in cui è ormai una vicenda passata. È giusto continuare a raccontarla, ma come una situazione che ho superato. Anzi, come una situazione che chiunque può superare.

Nell’album ci sono pochi featuring, e quasi tutti esterni al mondo del rap…
Volevo dare significato alle collaborazioni, perciò non volevo mettere troppi nomi. Ormai vanno molto di moda degli album che sembrano quasi delle compilation: in questo modo, però, la musica perde un po’ di spessore. Se io e te ci vediamo per raccontarci come stiamo, non voglio che ci siano altre 30 persone che fanno casino mentre ci parliamo, perché vuol dire che non ci stiamo dicendo un cazzo. E poi volevo che ci fosse una componente femminile forte, per bilanciare la mia. L’unico rapper è Gemitaiz, che non è uno che insegue i trend: ha un suo stile e una sua poetica. Nonostante sia sulla scena da molti anni non ho molti amici tra i rapper, perché si cresce, si cambia: è difficile mantenere un legame costante. Sicuramente ne ho mantenuto uno speciale con Bassi Maestro e Rido, le persone con cui tutta quest’avventura è iniziata.

Un tributo a quel periodo lo hai fatto intitolando una traccia dell’album Show Off, dal nome della leggendaria serata rap da loro organizzata: uno scantinato in via Farini a Milano in cui hai mosso i tuoi primissimi passi da freestyler. Cosa ricordi di quel periodo?
La prima volta che sono salito sul palco ero così teso che non mi è neanche uscita la voce. Ero un ragazzino che si vestiva e atteggiava come un rapper di New York, e all’inizio gli altri rapper, abituati a tutt’altro stile, non mi vedevano di buon occhio: mi dicevano di andare in America, se proprio volevo fare l’americano. Da un lato era un po’ limitante, ma dall’altro mi metteva addosso un’adrenalina che non ho mai più ritrovato da nessun’altra parte: tanta competizione, tanta carica, tanta voglia di spaccare. C’era un clima pacifico, era una serata tra amici, ma per me ogni volta che salivo su quel palco era una questione di vita o morte. Vincere o perdere una battle di freestyle mi cambiava completamente la settimana, non sarei riuscito a dormire la notte se la mia strofa non fosse piaciuta.

La scena è cambiata completamente. Ti chiedi mai come sarebbe andata, se tu fossi stato un rapper sedicenne emergente oggi?
(Lunga pausa di silenzio, nda) Non lo so, è difficile da dire. Sono cresciuto con presupposti lontanissimi da quelli di oggi: tanto per cominciare i soldi non c’erano, era un mercato inesistente. Gli strumenti e i mezzi di comunicazione che avevo a disposizione erano completamente diversi. Le cose che ai tempi ci limitavano erano le stesse che ci davano la carica. Sapevamo di non avere una strada spianata di fronte, ma una montagna da scalare, senza nessun percorso tracciato: questa consapevolezza ci faceva dare il 200%. Adesso è più immediato, ma tutto sembra dovuto. Non ti fai le ossa.

In molti rapper della tua generazione (o anche più anziani) a volte si percepisce una certa amarezza per aver azzeccato il genere musicale che sarebbe diventato il più ascoltato in Italia, ma con 20/30 anni di anticipo. A te capita mai di pensarci?
No, non è proprio il mio modo di ragionare, anche perché è davvero disfunzionale. Ti spinge a rimuginare su un mondo che non esiste. La cosa più sana che posso fare è vivere nel presente. Nella vita devi fare il meglio che puoi con le carte che hai, punto. So di averlo fatto, e di continuare a farlo. Tutto il resto sono seghe mentali.

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