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Il ritorno agli esordi di Beth Orton nel suo nuovo “cazzutissimo” album

Ne ha fatta di strada dopo la collaborazione con i Chemical Brothers: "Kidsticks" è il suo settimo album, dove riprende in mano i synth per raccontare nuove storie
Beth Orton

Beth Orton

Quando ho detto a un mio amico che dovevo intervistare Beth Orton, mi fa: «Ah, quella con la voce fichissima che cantava sul primo album dei Chemical Brothers». Diciamo che Beth Orton da allora ha fatto svariate altre cose, tra cui sei album, imponendosi come una delle musiciste più apprezzate di quella che va sotto il nome di folktronica. Con il suo ultimo lavoro, Kidsticks, Beth torna un po’ agli esordi, allontanandosi dalle seduzioni acustiche per spingersi sempre più sul versante elettronico.

È stata una scelta consapevole fin dall’inizio?
Non lo so, avevo bisogno di un cambiamento e quando sono andata in studio con Andy Hung (Fuck Buttons, nda) abbiamo cominciato a buttare giù delle cose. Era la mia prima volta al synth, dopo dieci giorni avevamo questi venti loop, e così è nato l’album. Quindi non c’è stata un’intenzione di partenza, ma ho capito subito che era quella la direzione che cercavo.

Come sono entrati gli altri musicisti?
Un giorno è passato in studio un amico, Shaszad Ismaily, e ha provato a mettere il basso su un pezzo, Moon. Da lì ho capito che volevo scrivere melodie più complesse, con più livelli, e sperimentare di più con la mia voce. Così ho chiamato George Lewis Jr., Chris Taylor e tutti gli altri, ho detto quello che volevo e loro hanno fatto un lavoro fantastico. Per me è stato un momento fondamentale, perché era la prima volta che partecipavo attivamente alla produzione di un disco.

È un caso che siano tutti musicisti maschi?
Be’ quando faccio musica non penso a queste cose, sono i musicisti che ho incontrato sulla mia strada, quelli che frequentavo in quel momento e che trovavo eccezionali. Non è che dovessi dimostrare qualcosa o fare uno statement politico.

No, infatti, non ti stavo chiedendo uno statement politico…
E poi alla fine le scelte sono state tutte mie, se la vogliamo mettere da questo punto di vista: ho co-prodotto l’album, ho lavorato duro e si tratta dell’album cazzutissimo di una donna!

Nei testi ci sono molti elementi legati alla natura e alla luce: c’entra il fatto di aver registrato a Los Angeles?
Sì, Los Angeles nonostante sia una città così popolata ha ancora un accesso molto forte alla natura. È una città ideale, perché è una delle poche metropoli dove puoi permetterti di vivere bene con la tua famiglia, avere intorno un underground iper-creativo, e conservare un rapporto profondo con la natura. Londra non è così.

Sempre parlando di testi, ti rivolgi spesso a un ipotetico “tu”. Si tratta di una persona reale o è semplicemente il bisogno di avere un destinatario?
Non lo so, per me le canzoni di base sono delle storie. E sì, è vero, ci sono molti “tu”, ma poi c’è un “io”, c’è un “noi”, e tutti questi elementi possono variare all’interno di uno stesso pezzo, cioè non è detto che il “tu” resti lo stesso dall’inizio alla fine. Ad esempio, Petals è una canzone che avevo scritto molti anni fa e che continuava a evolversi: ogni volta si aggiungeva un grado diverso di esperienza. In generale per me funziona così, le canzoni sono dei processi.

E 1973, uno dei pezzi dell’album, che tipo di storia di è? Rappresenta una data simbolica?
No, anche in quel caso è un processo molto simile alla vita, perché si tratta di un copia e incolla di ricordi, che è quello che a volte facciamo per ricreare una nuova realtà. È una canzone sull’essere stati al tempo stesso presenti e non presenti da qualche parte.

Musicalmente c’è qualcuno che ti ha ispirato particolarmente per questo album?
Mentre registravo, non ho ascoltato musica. Ma sono stata a due concerti: quello di Sufjan Stevens e quello di Wayne Shorter. Il concerto di Sufjan, davvero, credo sia una delle cose più belle che abbia mai visto nella vita.

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