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Il realismo magico di Tame Impala

Kevin Parker racconta il nuovo album ‘The Slow Rush’ influenzato da Gabriel García Márquez. Tra riverberi cosmici e visioni psichedeliche, il disco «parla di come il tempo ci influenza e di come reagiamo»

Foto: Neil Krug

La foto della copertina del nuovo album di Tame Impala stava per essere scattata in Italia. Kevin Parker aveva visto online una serie di immagini di vecchie discoteche italiane abbandonate e voleva ritrarle perché «bellissime e deprimenti insieme». Poi però ha scoperto un posto con caratteristiche simili e più esotico: la città fantasma di Kolmanskop in Namibia. Ha richiesto un permesso turistico ed è partito col suo fotografo Neil Krug per esplorare un luogo in cui il tempo dell’uomo si è fermato, ma quello della natura continua. Il vento ha infranto le finestre di palazzi e abitazioni, e la sabbia ha iniziato a impossessarsi di spazi che all’inizio del secolo scorso brulicavano di vita, accesi dalla febbre dei diamanti. I coloni tedeschi abbandonarono Kolmanskop negli anni ’50, quando il materiale prezioso finì, creando una capsula temporale in mezzo al deserto e una piccola ma efficace parabola sulla noncuranza dell’uomo verso l’ambiente. La foto scelta per la copertina di The Slow Rush è stata appena ritoccata per rendere i colori più vivaci e accentuarne il tono surreale. «Mentre la scattavamo, abbiamo pensato che era perfetta per questo momento, col suo aspetto post apocalittico»: sembra dirci che «il tempo sta finendo».

The Slow Rush arriva il 14 febbraio, dopo quattro anni e mezzo da Currents, il disco che ha vinto il premio per Album dell’anno agli ARIA Music Awards (la più importante cerimonia dell’industria discografica australiana), guadagnato una nomination ai Grammy Awards e consolidato Tame Impala come la band (o one-man band) alternativa più significativa del decennio. Kevin Parker è noto per non andare di fretta quando si tratta di incidere, e di continuare anzi ad apportare modifiche all’infinito ai suoi brani («Avrò passato 100 ore sulla batteria di Tomorrow’s Dust!»). In una vecchia intervista diceva che un album non è finito finché non glielo tolgono dalle mani e gli chiedo se è ancora così. «Ho mancato una scadenza e a un certo punto ho semplicemente dovuto annunciare una data di uscita». Ha lavorato di conseguenza perché «una volta che la data è pubblica non hai scampo». E adesso è contento del risultato? «No comment» dice finendo la sua colazione in una stanza d’hotel con vista su Piccadilly Circus. Poi sorride e aggiunge: «Dipende dal sound system. Non riesco ad ascoltare l’album con un impianto buono: si scoprono troppi dettagli. Se l’impianto fa schifo, almeno posso dare la colpa all’impianto».

Ma non è solo il perfezionismo ad avere ritardato la chiusura dell’album. Nell’autunno del 2018, Kevin si trovava a Malibu per scrivere e comporre, in una casa in affitto sul mare. Un giorno si è svegliato con un messaggio del suo manager che, preoccupato, gli diceva di informarsi sugli incendi nella sua zona. Ha avuto la fortuna di uscire in tempo, ha visto che le colline dietro la casa erano in fiamme e alcune abitazioni erano già state toccate. È riuscito a salvare il lavoro svolto fino a quel punto, ma ha perso tutta la sua strumentazione tranne un basso. Su Instagram ha pubblicato foto e video della devastazione scrivendo nella didascalia: «Sono riuscito a scappare col laptop e l’Hofner. Ho il cuore a pezzi per gli animali».

La nostra conversazione è avvenuta prima degli eccezionali incendi che stanno colpendo l’Australia, ma gli chiedo, mettendo insieme la tragedia di Malibu e la storia dietro alla copertina, se abbia intenzione di affrontare il tema dell’emergenza climatica anche nella sua musica. «Sì, ma non ho ancora trovato un modo per parlarne nei testi. Vorrei farlo in futuro, ma assicurandomi che sia in modo genuino e con un approccio costruttivo». E l’esperienza dell’incendio ha influito sulla sua arte? «È una cosa che ho vissuto. Non so se mi ha cambiato, e se l’ha fatto non ne sono cosciente. Una volta scrivevo per me, ora scrivo per un pubblico. Non so se riuscirei a trasformare l’esperienza in una canzone in cui altre persone possono ritrovarsi. Non avrebbe senso pubblicare qualcosa solo per me».

Tuttavia, alcuni contenuti di The Slow Rush sono molto personali. Posthumous Forgiveness parla di «qualcuno che non ha avuto l’occasione per spiegarsi e che quindi devi decidere tu di perdonare» e «del desiderio di raccontargli le cose che avrebbe voluto sentire». La vaghezza con cui descrive il destinatario del testo mi suggerisce di non approfondire, anche se di lì a poco la canzone uscirà come singolo. È una specie di lettera al padre, morto dieci anni fa, in cui il figlio gli racconta storie successe dopo la sua scomparsa: quella volta che è stato negli studi di Abbey Road, quella volta che ha parlato al telefono con Mick Jagger… Forse quel genitore assente, ma con cui condivideva la passione per il rock, sarebbe stato orgoglioso; forse sarebbero riusciti a chiarirsi, se solo avessero avuto più tempo.

Il tempo – passato, perduto, idealizzato, immaginato – è il filo conduttore di The Slow Rush. Non è stata una decisione a priori: a un certo punto, nella scrittura dell’album, Kevin si è reso conto che «[il concetto di] tempo era ciò che tirava fuori le cose più cariche d’emozione. [L’album parla] di come il tempo ci influenza e di come reagiamo». Non è un caso se una delle fonti d’ispirazione di The Slow Rush è Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, un romanzo in cui il tempo è delimitato, a partire dal titolo, e lineare nel raccontare la storia di una famiglia, ma anche circolare nella ripetizione degli eventi, e continuamente evocato dal dualismo tra mortalità ed eternità. E lo stile musicale di Tame Impala si può paragonare al realismo magico: si espande tra riverberi cosmici e visioni psichedeliche, e ritrova poi un contatto con la realtà terrena nei dettagli semi-autobiografici dell’artista nonché la voce della persona che ama. In Tomorrow’s Dust si può infatti sentire la moglie di Kevin: le ha chiesto di parlare del futuro, o meglio, di interpretare sé stessa otto anni fa mentre parla del suo futuro, quando stava attraversando un momento di incertezza perché doveva cambiare città. Anche la traccia conclusiva One More Hour parla dell’ansia per il futuro, ma offre una soluzione. «Ogni volta che si apre un nuovo capitolo, ti chiedi “come faccio?”, e fa paura. Ma finché so chi sono, posso superare nuove sfide, posso affrontare qualsiasi cosa capiti». Gli piaceva chiudere l’album su questa nota cautamente ottimista: «Molte cose nell’album rappresentano dei problemi, e questa è una soluzione».

Gli chiedo se è nostalgico, riferendomi a Lost in Yesterday e il verso “Quando vivevamo nello squallore, non era il paradiso?”. Dice che anche questo è semi-autobiografico, ma racchiude un concetto universale: «Per qualche ragione, il tempo trasforma la merda in oro». E lui ha un modo particolare per riportare i ricordi in superficie: «A casa ho una scatola piena di vecchi deodoranti. L’olfatto è lo stimolante più potente per la memoria. Una foto ha un decimo del potere di un odore. Se il deodorante di quando eri adolescente è ancora in vendita, compralo e odoralo. Il mio era Lynx Accelerate» (in Italia viene venduto col nome Axe). Gli chiedo se ora che è una rockstar ha adottato profumi più sofisticati e mi rassicura dicendo che è passato ad altri marchi: «Più sofisticati no, ma di sicuro meno… audaci».

Passiamo a parlare delle tante collaborazioni che l’hanno tenuto occupato tra un album e l’altro. Ce n’è una in cantiere di cui non può dire nulla, ma quella con Lady Gaga e Mark Ronson, coi quali ha scritto Perfect Illusion nel 2016, è ben documentata. Per un artista che passa ore in solitudine scegliendo il suono di batteria giusto dev’essere difficile adattarsi ai meccanismi della collaborazione. «Sono abituato a lavorare da solo. [In queste situazioni] passi dal dire ‘ciao’ al raccontare cose molto intime in pochissimo tempo. Ma Gaga è una persona così emotivamente aperta che scrivere con lei diventa normale. Fa sembrare facile scrivere con degli sconosciuti, ed è anche un modo per conoscersi».

Gli chiedo qual è il suo contributo quando entra in una stanza con due giganti del pop contemporaneo come Mark Ronson e Lady Gaga. «Porto il chilled vibe dall’Australia!», dice ridendo. «Mark ha un’etica del lavoro ferrea, con lui si lavora anche di mattina in hangover. Si lamentava sempre della mia pigrizia. Nel primo giorno in studio con Gaga avevo trovato un bel giro di synth. Voleva che lo suonassi per tutta la canzone, ma gli ho detto: ‘dai, mettilo in loop’. E lui: ‘Kevin, sei il genio più pigro che ho mai conosciuto’. Non credo di essere un genio, ma mi ha fatto ridere».

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