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Il prog-punk esiste e i Black Midi lo dimostrano

Teneteli d’occhio. Sono inglesi, giovanissimi e hanno debuttato l’anno scorso con l’album ‘Schlagenheim’. Le loro canzoni sono collage di jam esplosive, fra noise e progressive

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone

Le espressioni “improvvisazioni noise d’avanguardia” e “band emergente” appaiono raramente nella stessa frase, ma è difficile evitarle quando si parla dei londinesi Black Midi. Negli ultimi due anni sono diventati uno dei gruppi più chiacchierati del Regno Unito nonostante (o forse proprio a causa di) un suono fatto apposta per disorientare pieno com’è di stranezze prog-punk.

Da quando si sono formati nel 2017, i Black Midi sono stati al centro di tanto di quell’hype che sembra eccessivo persino per un posto come l’Inghilterra. Ancor prima di pubblicare ufficialmente un disco suonavano in club affollatissimi e attiravano folle estasiate ai festival, e tutto ciò solo grazie al passaparola. Un titolo del 2018 su NME li definiva “la migliore band di Londra che nessuno conosce”, secondo il Times di Londra erano “la band più entusiasmante del 2019”, mentre per il Financial Times erano “la band esordiente più entusiasmante della Gran Bretagna” (manca solo che si esprima l’Economist).

Il bel debutto dei Black Midi Schlagenheim, uscito l’anno scorso su Rough Trade, ha ricevuto una nomination ai Mercury Prize e il gruppo ha fatto segnare una serie di sold out anche in America. «Siamo nati con l’idea di fare un concerto e stop, quindi tutta questa storia è sorprendente», dice il cantante e chitarrista Geordie Greep. «E comunque è tutto relativo. In confronto a Drake siamo ancora underground».

I musicisti dei Black Midi si sono incontrati alla BRIT School di Londra, accademia d’arte e musica da cui sono uscite Adele e Amy Winehouse. Greep e il batterista Morgan Simpson hanno fatto amicizia grazie all’amore comune per la fusion, in particolare per la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin; al bassista e tastierista Cameron Picton piacevano lo stile highlife dell’Africa occidentale e il soukous del Congo; il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin aveva un debole per il rock classico e i gruppi noise giapponesi tipo Boredoms – tutti elementi confluiti nel sound della band.

Anche le loro storie di musicisti sono piuttosto varie. Greep ha deciso che voleva imparare a suonare la chitarra a 8 anni, giocando a Guitar Hero, mentre Simpson si è avvicinato alla batteria a 5 anni, suonando gospel, reggae e soul nella chiesa dove il padre era parroco. «Non parlavamo granché di musica», dice Greep. «Ci piacevano la personalità l’uno dell’altro»

Dopo una jam improvvisata durante la pausa pranzo, i futuri membri di Black Midi hanno deciso di provare insieme e la cosa accadeva anche durante le esibizioni settimanali che facevano parte del loro corso, dove impressionavano e confondevano i compagni di classe con jam improvvisate lunghe anche 20 minuti. «È stato tutto molto facile», dice Simpson. «Ricordo che le prime volte mi dicevo: wow, è come se suonassimo insieme da una vita. Erano come pezzi di un puzzle che combaciavano. Era destino, o qualcosa del genere».

Il suono che hanno iniziato a modellare nel corso delle loro jam, che potevano avvicinarsi a due ore di lunghezza, era un mix esplosivo e assieme sottile di tumultuoso interplay chitarristico, trame ambient e ritmiche vivaci. C’erano solo 15 persone al loro primo concerto al Windmill, un club di Brixton, tra cui un paio dei loro padri che davano una mano a portare l’attrezzatura. Da quel concerto è nato un appuntamento settimanale. «Nei primissimi giorni ero distrutto a fine concerto», ricorda Simpson. «È come fare esercizio fisico. E anche l’emozione ti prova».

Una volta tornati nella sala prove, i quattro hanno registrato tutto il materiale che aveva per le mani, inserendo le parti più riuscite in composizioni sfaccettate e formate da più parti. Un concerto dopo l’altro, Greep ha elaborato uno stile vocale strano e geniale che ricorda un po’ David Byrne dei Talking Heads e un po’ David Thomas dei Pere Ubu. Vede il suo stile come un’alternativa alle urla tipiche di punk e noise. «Non sono un omaccione», dice. «Gridare così sarebbe stato un po’ sceno. Volevo qualcosa di più melodico, più interessante, pieno di sfumature. Così, concerto dopo concerto, ho affinato il mio stile. Sta cambiando anche adesso».

Dopo essere stati contattati da molte etichette discografiche, i Black Midi hanno firmato con Rough Trade. A rassicurarli è stato il fondatore Geoff Travis, figura leggendaria della scena musicale indipendente britannica. «Ha detto che, quando ci ha visti, gli sono venuti in mente i King Crimson negli anni ’60», dice Greep. «Tutto molto figo».

Un paio di canzoni di Schlagenheim come 953 e Speedway sono state scritte da singoli membri e portate alla band per essere rifinite, ma la maggior parte delle canzoni passano attraverso un processo di composizione frammentato, col gruppo che mette assieme pezzi di jam, rielabora, ricostruisce e affina col passare del tempo. «Non c’è un solo modo per capire se una jam è buona oppure no», dice Greep. «Ma lo senti quando siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda o quando emergono un suono o un’idea buoni. A volte è come se stessi correndo verso la luce senza mai arrivarci. In ogni caso, devi sempre metterci la testa e rifinire quel che hai fatto».

Ci sono voluti mesi per finire Schlagenheim a causa del complicato processo di scrittura e dal fatto che la band fatica a ricordare le jam che suona e da cui nascono i pezzi. Greep ricorda in particolare la scrittura del brano finale dell’album, Doctor. «Matt voleva comprare un nuovo televisore e non avevamo soldi. Così abbiamo pensato: ehi, suoniamo per strada e cerchiamo di tirare su un po’ di grana. C’erano giorni in cui ne facevamo un sacco, altri in cui tiravamo su cinque sterline in cinque ore. Una volta facendo una jam è venuto fuori un riff. Ci ha intrippati a tal punto che abbiamo suonato quel riff composto da tre note per, tipo, un’ora. La gente passava, ci guardava e probabilmente pensava: ma che stanno facendo ‘sti tipi? Era un po’ come un riff techno senza grandi variazioni o altro, solo questo riff suonato all’infinito».

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone

La filosofia da jam band dei Black Midi, che potrebbe ricordare un gruppo molto poco punk come i Phish, si traduce nell’idea di suonare a ruota libera, ma non rende la loro musica respingente, comunque meno di quanto ci si possa aspettare. Capita in momenti dell’album come il bel passaggio quasi alla Grateful Dead di Western e nei loro spettacoli dal vivo, dove le improvvisazioni possono inglobare riff ispirati a qualunque cosa, da Hendrix ai Limp Bizkit fino a Tequila, il classico festaiolo dei Champs risalente agli anni ’60. L’anno scorso sono andati in tour con il rapper di Houston Fat Tony, che si è unito alla band sul palco per fare freestyle sulla minacciosa Bmbmbm.

La gente sente questa energia. In autunno a Brooklyn, il pubblico ha sia ballato, sia pogato. All’inizio di quest’anno, i Black Midi hanno anche dimostrato di possedere un certo senso dell’umorismo pubblicato un dissing intitolato Ded Sheeran (Ed Sheeran Send) Part 1 in cui Greep per metà incazzato e per metà divertito dice cose tipo “Ed Sheeran fa schifo / Roscio venduto e cazzone” su una base frenetica che riporta alla mente le mutazioni post genere di 100 Gecs o Death Grips.

In quanto alla direzione che stanno prendendo, Greep dice che la musica che faranno non somiglierà per niente a quel che hanno fatto finora e suggerisco in modo un po’ vago che sarà «più complicata ma più semplice, più intelligente, più sottile».

«Ci piace sfidare noi stessi e provare cose nuove», dice Simpson. «Siamo sempre alla ricerca di nuovi modi per metterci in situazioni scomode».

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