Ernia, il problema non è l’atterraggio ma la caduta | Rolling Stone Italia
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Ernia, il problema non è l’atterraggio ma la caduta

Nel 1995, il film culto 'L'odio' si apriva con la storia di un uomo che cade da un palazzo di 40 piani. Mano a mano che Ernia e la sua generazione si preparano all'impatto, gli ostacoli si moltiplicano e la forza di gravità si fa più pressante. Un estratto dell'intervista a Ernia tratta dal numero speciale di Rolling Stone che trovate in edicola

Foto: Gabriele Micalizzi. Stylist: Anna Pastore. Assistente stylist: Sara Dozio. Mua & hair stylist: Francesca Olmi per Giorgia Lecce

Contrariamente a molti, Ernia non teme di morire: «Quello è un problema che affronterò dopo, ora pensiamo a vivere, che è già abbastanza complicato» ci ha detto ridendo quando abbiamo cominciato a lavorare a questo numero. Sarà che la paura è un sentimento con cui ha imparato a convivere, ormai. «Che io ricordi l’ho sempre avuta, mi ci sono rassegnato. Soprattutto ho paura di ciò che sarà, perché l’avvenire è un’incognita. Non poterlo controllare mi destabilizza molto».. E mai come in questo periodo storico chi si affaccia all’età adulta si trova di fronte a un futuro non scritto, nella peggiore delle accezioni. Un futuro in cui tutto è davvero possibile, purtroppo: da un olocausto nucleare alla Ken Shiro a cambiamenti climatici che assomigliano più a piaghe bibliche. Per non parlare di problematiche banali e quotidiane come il non riuscire a rendersi indipendenti dai genitori, o a trovare il proprio posto nel mondo. A queste preoccupazioni, la politica – spesso incarnata da una classe dirigente di anziani, che non vivrà abbastanza per vedere gli effetti di ciò che ha innescato – risponde mettendo la testa sotto la sabbia, o peggio distogliendo l’attenzione dalle questioni davvero importanti. «Ad esempio puntano i riflettori sull’immigrazione, perché sanno che quello spauracchio servirà allo scopo» osserva. «L’Italia è fatta in gran parte di provincia: se abiti in un paesino di 3000 anime e arrivano anche solo 20 stranieri, è una cosa destabilizzante, soprattutto quando in TV continuano a martellarti instillandoti l’idea che siano pericolosi».

Per Ernia esorcizzare i suoi timori, quelli della società intera e i suoi personali, passa in primis dalla musica. Il suo nuovo album Io non ho paura, oltre a essere una dichiarazione d’intenti, racchiude in sé le ansie dei suoi coetanei. In realtà la paura ce l’ha, come dicevamo. «Ma la nascondo in un angolo, insieme a tutti gli altri piccoli traumi della quotidianità», confessa. «A furia di accumularla sono sempre all’erta. Da un lato è un metodo che funziona, perché difficilmente mi puoi trovare impreparato, però è un problema, alla lunga. Quando parlo con la mia strizzacervelli, me lo dice sempre: “Nella pratica sei bravissimo a cavartela, ma dentro di te non risolvi nulla”». Scrivere canzoni è un buon punto di partenza per cominciare. La copertina, dark e minimale, è un omaggio alla locandina del film omonimo di Gabriele Salvatores, a sua volta tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, e lo mostra affacciato sull’orlo di un pozzo buio e profondo, pronto a calarsi di sotto. E dire che a incontrarlo di persona sembra uno dei rapper più solari e risolti della scena. Anche perché ha dovuto imparare molto in fretta a convivere con gli alti e i bassi della sua professione – nomen omen: all’anagrafe si chiama Matteo Professione.

Foto: Gabriele Micalizzi

Giunto ormai alla soglia dei trent’anni, nato e cresciuto a Milano, è arrivato al successo a 19 grazie al gruppo che ha contribuito a fondare, i Troupe D’Elite, tra i primi a portare sonorità pop-trap all’interno del panorama italiano nel lontano 2012. Bullizzati dai fan del rap duro e puro, incompresi dalla critica, si sciolgono nel 2014 senza mai aver sfondato davvero. Ernia molla tutto, musica inclusa, e per qualche anno torna a vivere l’esistenza di un ventenne qualsiasi, con tutte le incertezze e la precarietà del caso. Tornerà alla ribalta nel 2017, con il suo primo album solista Come uccidere un usignolo: il titolo (che riprende quello originale de Il buio oltre la siepe di Harper Lee, How to Kill a Mockingbird) si riferisce all’esperienza che ha vissuto. Gli usignoli sono lui e i suoi ex soci, e a ucciderli è stata la cattiveria gratuita riversata su di loro, colpevoli di aver portato una nuova idea di musica, senz’altro un po’ ingenua e ancora zoppicante, ma certamente non meritevole di quei fiumi di veleno. Di cui oggi tutti, fan del rap, critici e anche chi vi scrive, si sentono un po’ colpevoli. Cosa forse ancora più destabilizzante, la sua ascesa nazionalpopolare è avvenuta nel periodo in cui il mondo cambiava per sempre, quello della pandemia: il disco che lo ha consacrato, Gemelli, è uscito nel 2020, mentre tutto era fermo. A oggi l’album è arrivato a quattro dischi di platino, più ulteriori tre certificazioni oro e nove platino per i singoli. A causa del blocco dei concerti è riuscito a portarlo in tour solo negli ultimi mesi, due anni dopo l’uscita.

Quello del Covid è stato un periodo di paure inedite, per tutti.
E infatti abbiamo visto che molte persone si sono rifugiate nel negazionismo, come oggi capita per il cambiamento climatico. La vera colpa ce l’ha chi è ai vertici, però. A una persona che vive alla giornata, come un ragazzo di oggi, non si può chiedere di avere una prospettiva di decenni: se non riesce neanche ad arrivare a fine mese, difficilmente si preoccuperà di problemi che impatteranno su di lui tra mezzo secolo. È la politica che dovrebbe agire, imporre degli standard, dire «Bisogna fare così, perché sennò schiattiamo tutti».

Ecco, appunto: come li vedi, i ragazzi che ti seguono oggi?
I ventenni e gli adolescenti non stanno vivendo una gioventù felice, hanno una pressione micidiale addosso. E non solo per i massimi sistemi. Se sei una persona formata, non ti importa più di quel tanto cosa ti dice il mondo esterno; ma se sei un po’ più debole e malleabile, ne soffri. Vivono un momento storico in cui o fai le cose in un certo modo, o hai perso. Hanno una paura terribile di non farcela. Il fallimento è visto in una maniera molto più grave, anche perché ormai è subito spiattellato. I ragazzini si filmano mentre si menano perché la vittima deve essere umiliata, deve finire online: se non lo vedono tutti, non è successo. Quando ero piccolo magari capitava che le prendessi anch’io, ma finiva lì, rimaneva una roba tra me e quello con cui ce le eravamo date. È tosta: fa capire bene il perché si crea la subcultura degli hikikomori. Uscire è un rischio, ma il rischio più grande è quello di non riuscire ad avere successo all’interno della propria cerchia. Ai miei tempi questa sensazione di essere sempre sotto esame c’era meno.

In Tutti hanno paura, la prima traccia dell’album, dici “A Scuola mi dicevo, perché essere bravo / se la diagnosi è quella di un destino precario”. La percezione che si vada a peggiorare le proprie condizioni di vita, anziché a migliorarle, è una costante già da un po’…
Già quando ero piccolo io non c’era grande fiducia nel sistema scolastico: il messaggio che passa, da parecchi anni, è che dovremo arrangiarci da soli. Ora è anche peggio. Un ragazzino di oggi che valori dovrebbe avere? Lo dico anche in Rose e fiori: “Pensiamo solo ai soldi / in cosa dovremmo credere?”. Li capisco, perché vedono i loro genitori che hanno vissuto buona parte della loro vita in sicurezza, mentre per loro non sarà mai così. È normale che poi si rifugino in sogni come quello di fare il rapper. Anzi, il type rapper. Ovvero la copia sbiadita di qualcuno che già c’è, che ha già avuto successo.

Sei mai stato un type rapper, o fin dall’inizio ti sei percepito come qualcosa di diverso?
Non so come mi percepiscano gli altri, ma io non mi sento un type rapper. Anche solo a vedermi – capelli lunghi, niente denti d’oro o catenoni – sono diverso. Non ci ho pensato neanche per un attimo, a omologarmi: un altro magari starebbe bene in quei panni, io farei ridere. Sono molto sincero con me stesso, ci sono cose che posso fare e altre no. E non vorrei essere riconosciuto per qualcosa che non sono.

Foto: Gabriele Micalizzi

Cos’hai provato quando hai visto che tutti andavano in una direzione e tu nell’altra?
Col senno di poi forse è stata la mia fortuna. Però è sempre una scommessa: può andar male, ma almeno non posso rimproverarmi nulla. Anche questa volta, come sempre, c’è la preoccupazione che il trend vada verso un altro tipo di musica rispetto alla mia, ma non ho alternative, devo fare ciò che mi sento. Di me si può dire tutto, ma non che io abbia studiato una strategia o costruito un personaggio. Ernia è un nome d’arte, ma non c’è un filtro tra Ernia e Matteo.

Dopo il successo di Gemelli, con singoli come Superclassico e Ferma a guardare, sei diventato una vera pop star. Nessuna pressione nell’approcciarsi alla realizzazione di un nuovo album?
Quell’aspetto un po’ più pop di Superclassico ce l’ho sempre avuto: in Come uccidere un usignolo c’era Bella, in 68 c’era Domani. Quanto alla pressione, in realtà ogni volta che faccio un disco penso che sia l’ultimo. Ogni volta mi dico «Poi basta, non voglio più saperne niente!» (ride). In generale, cerco sempre di fotografare il periodo che sto vivendo. Gemelli rappresentava bene il me stesso di 26 anni, mentre Io non ho paura l’ho chiuso che ne avevo quasi 29: è ovvio che, arrivato attorno al giro di boa dei trent’anni, qualcosa sia cambiato. Anche per questo dico sempre che quello che ho appena fatto probabilmente sarà il mio ultimo disco: perché sarò una persona un po’ diversa quando scriverò il prossimo.

Questo è un estratto dall’intervista a Ernia presente nel numero speciale di Rolling Stone che trovi in tutte le edicole e su Amazon.

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