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Il problema di essere umani: l’intervista ai Parquet Courts

Il miglior indie rock degli anni ‘90 rivive in questa band texana adottata da New York. con il cantante Austin Brown parliamo di «performance umane» e di un’infanzia nella terra dei petrolieri

I Parquet Courts, originari del Texas ma adottati da New York, sono la miglior versione dell’indie rock anni ’90 riveduta e corretta al 2016, con un’attitudine punk totale. In questi anni si sono guadagnati la fama di eredi dei Pavement, dei Sonic Youth, dei Velvet Underground. Oppure dei migliori e più energici LCD Soundsystem, anche se apparentemente non hanno molto in comune. E sono stati poi bollati come “voce di una città ansiosa che non dorme mai”. Il loro ultimo album, Human Performance, è uscito ad aprile e la band lo ha presentato al Primavera Sound di Barcellona nella tarda notte dello scorso 4 giugno, facendo davvero il botto: con un programma così intenso come quello del festival spagnolo, il pubblico sotto il loro palco era davvero numeroso. Li incontro il pomeriggio prima dello show in un albergo di una via deserta della periferia di Barcellona. Nella hall, Andrew Savage, uno dei due cantanti, è seduto al bancone del bar. Mi liquida in fretta con un mezzo saluto, e subito dopo incontro Austin Brown, l’altro cantante e autore dei testi. Capelli leggermente lunghi, barbetta, faccia da bravo ragazzo anglossassone, è lui a raccontarmi il mondo Parquet Courts.

Per questo ultimo lavoro avete sottolineato spesso di esservi sentiti più liberi nella scrittura.
Nei nostri primi album ammetto che ci mettevamo a scrivere un po’ a tavolino: pensavamo a un tema e cercavamo di svilupparlo. Invece, in questo lavoro abbiamo fatto in modo di far rientrare più influenze possibili da parte di tutti. E poi siamo pure riusciti a scrivere d’amore, credo in maniera onesta. Tutti riescono a scrivere canzoni da heartbreaking, ma parlare d’amore puro senza scadere nel patetico è praticamente impossibile. Diciamo che ci siamo guardati allo specchio e ci siamo fatti diversi domande: chi siamo dopo tutti quei mesi passati in giro? Questi sono proprio i nostri amici? Perché gli amici sono le persone con cui condividi esperienze e con cui dai vita a delle “human performance”, in teoria.

E come definiresti le “human performance”?
Sono le performance che ogni individuo mette in atto per cercare di essere quello che vorrebbe. È un’azione decisamente personale. Per esempio, io ora sto facendo una performance da cantante e tu da giornalista. Ed è difficile per tutti essere delle persone oneste, anche se tutti vogliamo essere percepiti come tali. Io a volte sono stato fin troppo onesto: il mio manager mi ha chiesto preoccupato se pensavo di stare bene dopo aver letto una mia intervista, nella quale ero stato estremamente sincero.

Ma cosa avevi detto di così grave da preoccuparlo?
Non lo so neanche, certo forse avevo esagerato con la sincerità.

Avete detto che fate fatica a tenere conversazioni “normali”.
Facciamo fatica a rispondere a domande comuni come “in che lavanderia vai?” o “dove fai la spesa?”. Quando torniamo da mesi di tour siamo un po’ scollegati dalla realtà. E poi tutti ci chiedono: ma chissà che figata andare sempre in giro! No, andare in tour non è sempre fico, ma non riesco a spiegarlo veramente agli amici. Difficile rilassarsi e poi, quando torni a casa e la tua casa è a New York, in una zona super frenetica… Ho reso l’idea?

E il Texas ti manca mai?
No, ma che, scherzi? Mi piace tornarci, a Natale mi ritrovo con 36 parenti a tavola, tutti con una vita molto diversa dalla mia: sono avvocati o dirigenti. Hai presente il film Il Petroliere? La mia famiglia vive in un posto del genere, mio nonno è un ricco petroliere, proprio come quelli dei film.

Cosa pensano del tuo lavoro?
Non capiscono niente di musica, ma vedono che siamo molto apprezzati, quindi sono orgogliosi. Quando mi sono trasferito a New York, mia nonna mi ha detto: “Ah, quella è l’unica città dove devi sempre portare un cappello”. E poi: “È una città per giovani, quando non riesci più a passare dalle porte scorrevoli capisci che devi tornare a casa”. I mie nonni sono di idee conservatrici, repubblicane, ma hanno viaggiato tantissimo, sono open minded e odiano anche loro Donald Trump.

L’intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di luglio/agosto.
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